Racconto
Mandiamoli tutti a casa
di Massimiliano Piccolo
Entro nel chiosco, dopo infiniti chilometri di spiaggia, per
prendere una bottiglietta d'acqua naturale. Mi concedo mezzo
litro al giorno nel solito posto. Musica a tutto volume, una
gioventù di tatuaggi e dreadlocks in testa che non mi
guarda male, anzi, mi scruta e mi sorride.
Lascio andare tutta la pesantezza dei miei teli colorati, mi
appoggio alla stretta scalinata in legno, in piena ombra, poi
assaporo quel liquido vizietto che dovrebbe servire a non crollare
lungo disteso a terra. Anche perché la terra, o meglio
la sabbia, da queste parti e in questo periodo, è davvero
ustionante. E lo dice uno che viene dall'Africa.
Sarà che la strada che percorro sprofonda ogni passo,
sempre più infuocato, che devo fare lo slalom tra asciugamani
e ombrelloni, che la rabbia della gente brucia più di
questi quaranta gradi d'agosto. Avanti e indietro, senza festa
né riposo, lungo tutta una spiaggia che pare lunga come
quell'interregionale che, ormai qualche anno fa, mi ha portato
da Milano fino a Foggia.
Mentre mi disseto, butto un occhio verso il monitor appeso a
un muro del locale. Quasi mi prende un colpo. Sembra proprio
lui. Allora strabuzzo gli occhi e mi avvicino per vedere meglio.
E' proprio lui.
Ricordo perfettamente quello sguardo un po' torbido, gli occhi
sin troppo sporgenti, l'ovale imperfetto del viso che ricorda
un rombo, una specie di aquilone che libra nel cielo. Ora ha
qualche chilo in più e due vistose borse sotto agli occhi.
Lo vedo appesantito, invecchiato, del resto il tempo trascorre
per tutti. Non è più quel ragazzo che avevo incontrato
nel centro sociale che bazzicava mezza città.
All'epoca vivevo a Milano e la vita non era per niente facile.
Di giorno sigillavo braccialetti multicolore ai polsi di persone
frettolose, oppure mi mettevo a recensire libri di letteratura
africana a soggetti che sembravano avere un po' più tempo
da perdere o da regalarmi. Dipende dai punti di vista.
Quella sera suonava Alpha Blondy, uno dei simboli del mio paese,
la Costa d'Avorio. Ricordo che stavo ballando e a un certo punto
un tizio mi si è avvicinato all'orecchio come per dirmi
qualcosa.
« Scusa non è che hai mica del fumo?» mi
aveva chiesto con il fare quasi sospetto di chi non sembra tanto
abituato a domandarlo.
Gli avevo risposto che no, non ce l'avevo. E che non fumavo
nemmeno.
Poi ci eravamo incontrati nuovamente durante la serata, appena
finito il concerto. Lui si era messo a parlare del concerto
e della bella gente che c'era in mezzo a quel casino.
Poi qualche altra volta è capitato di rivedersi. Sempre
nello stesso posto. Non mi chiedeva più se avevo del
fumo da vendere, scambiavamo soltanto quattro chiacchiere sulla
città e sulle difficoltà della vita in questo
paese. Per tutti quanti.
Poi il compagno non si è più visto e io
me ne sono andato a Foggia a lavorare, a raccogliere quei pomodori
che probabilmente avrà mangiato anche lui. O magari i
carciofi. O le arance che ho raccolto in Calabria. E pensare
che l'ho rivisto sulla pagina consumata di giornale che usavamo
da mettere sotto il materasso una volta rientrati dal campo.
Non per tradizione o costume africano, ma per isolarci dall'umidità
notturna del capannone che ci ospitava insieme ai tanti ratti.
Noi crollavamo di sonno e loro si svegliavano. Cominciavano
a vivere, a riprendere possesso del loro mondo, a squittire
e a fare rumore strisciando corpi e code enormi vicino ai nostri
giacigli in cerca di cibo.
Nella foto indossava una maglia verde con sopra scritto Padania
e nell'articolo inveiva contro gli immigrati che rubavano il
lavoro agli italiani. All'inizio mi era venuto da sorridere.
Sembrava uno scherzo. Primo perché non mi era sembrato
così razzista quando ballava al concerto di Alpha Blondy,
poi perché mi era venuto da chiedermi quale italiano
avrebbe lavorato per dieci euro al giorno. O quale italiano
avrebbe proposto a un altro italiano di lavorare per quegli
stessi cazzo di dieci euro.
Adesso eccolo qua; ingrassato, con una camicia bianca e le maniche
alzate a sfoggiare mani curate e rivolte al cielo. Sembra molto
più sicuro di sé.
Guardie del corpo gli aprono la strada in mezzo a un mare di
gente. Poco distante un cordone di poliziotti in tenuta antisommossa
isola la folla e il resto del mondo reale. Tutti sembrano acclamarlo.
Almeno da quello che si vede in tv. Sotto alla sua immagine
campeggia, in bianco su sfondo blu, la scritta Mandiamoli
tutti a casa: le parole del nuovo ministro.
Il sottofondo musicale e il chiacchiericcio dei giovani spensierati
nel chiosco mi impedisce di comprendere cosa stiano raccontando
al telegiornale. Tutto sommato, penso sia meglio così.
Finisco la bottiglietta in uno solo sorso e faccio un cenno
di saluto e ringraziamento a Mario, l'amico barista che mi accoglie
ogni caldissimo giorno d'estate. Lui mi fa l'occhiolino ed io
mi chino per rimettere in spalla la mia zavorra di teli colorati.
Nel rialzarmi, collanine e braccialetti sbattono tra loro creando
quel suono delicato che ormai mi sogno anche la notte. Poi mi
rimetto in cammino sulla sabbia che scotta, per macinare altri
chilometri, avanti e indietro, mentre nella testa risuona quel
mandiamoli tutti a casa che brucia, più di questo
mezzogiorno, sulla mia sudata pelle d'ebano.
Massimiliano Piccolo
massiengland@libero.it
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