rivista anarchica
anno 48 n. 429
novembre 2018





Le canzoni di Michelangelo

Michelangelo Ricci è un sublime orco. Un Bud Spencer con la coscienza teatrale di Carmelo Bene, e si muove leggiadro e squassante per le quinte teatrali del suo “Teatro Dell'Assedio”, la compagnia, scuola e nave spaziale, che ha fondato e dirige come un capitano di vascello pirata, con dentro tanti bei talenti, ma senza primi-attori e prime-donne. Col “Teatro dell'Assedio” Michelangelo propone spettacoli lievi e circensi (pensate che uno dei loro massimi successi si basa sulle bolle di sapone). Sono spettacoli corali e coesi, avanguardistici e godibili, “riviste brechtiane”, monologhi laceranti, balli sconvolgenti e coinvolgenti, dove si perde il preciso distinguo fra teatranti e pubblico, irrispettosi e armonici: spettacoli anarchici.

Michelangelo Ricci

Per la verità io Michelangelo Ricci l'ho conosciuto nell'ambito della rassegna del Club Tenco, per il quale ha curato sovente le regie teatrali: si sa che noi cantanti, in special modo i cantautori, siamo bestie allergiche alla disciplina del palco, che in realtà non è che una grammatica espressiva. Convinti come siamo che il nostro “messaggio” basti a se stesso, soprattutto se supportato dalla dimensione essenziale e autonoma del cantante-chitarrista, difficilmente ci prestiamo alle ragionevoli indicazioni del regista. Alle prese con tanta indisciplina, Michelangelo riusciva comunque a conferire un sapore drammaturgico all'insieme delle performances, aiutato dal suo talento nel giocare con fondali e luci, perché il suo apparente “casinismo” cela un grande rigore e una ferrea competenza: figlio di uno scultore, Ricci ha coscienza plastica e dominio della scenografia. E in ogni caso è perfettamente in grado di mettersi al servizio delle canzoni, perché è lui stesso un ottimo autore cantante, ma questo io l'ho scoperto solo dopo, e ora che è uscito il suo disco, avete il modo di scoprirlo anche voi.

Teatro dell'assedio

Michelangelo lo si conosce meglio dopo lo spettacolo, quando di trattoria in taverna, il suo condensato di apparente severità e reale dedizione si scioglie in un piglio gaudente e ridanciano, da ottimo compagnone di mangiate e di bevute. È allora che ci si accorge che l'omone si è trascinato dietro per tutto il tempo – al teatro, al bar, in trattoria e di nuovo in osteria e poi in albergo – una chitarra. Non si fa pregare, la brandisce e si produce in una serie di canzoni originalissime, spietate, ipnotiche... alla prima ci si stupisce, alla terza si dice “però”, alla decima ci si convince di essere di fronte a un vero autore con una sua voce, una sua poetica, una sua scrittura, un suo piglio, una sua musicalità, un suo modo di scandire parole a tempo o violentare la metrica. Queste canzoni – pur nella loro autonomia –risentono ovviamente del mestiere drammaturgico del loro autore, e si configurano spesso come ritratti di personaggi stravaganti, eccessivi, di cattivi soggetti, con pessime intenzioni, immersi in un contesto peggiore di loro – il Down, il Cieco, un'incredibile figlia di genitori drogati e perversi, un sindaco privo di scrupoli – non attirano su di sé alcuna compassione, assistiamo incuriositi e un po' rabbrividendo alla loro evoluzione, a un momento di affermazione prodromo di un'inevitabile caduta, comete buie che hanno brillato per un attimo e poi subito si sono schiantate.

È venuto il momento della scuola
Tutti avevano una maestra e io una sola
Tutti che lottavano contro i professori
E io dovevo calmarmi coi dottori
E i ragazzi e le ragazze giocavano un gioco strano
Mentre io restavo da solo con la mia mano
Ero down, molto down, ero veramente molto molto down
(Meno down)

Mia madre si faceva l'eroina
Mio padre la cantina
Ed insieme un po' di crack
Io stavo distesa sulla schiena
E invece della cena
Guardavo la TV
Restavo in silenzio in controsenso
Fra ciò che penso e ciò che sento
Perché non c'è niente che mi va'.
(La figlia)

Tutti questi personaggi parlano in prima persona, tutti gridano una loro verità. Queste canzoni le abbiamo sentite nei cori degli spettacoli del Teatro dell'Assedio... altre però se ne sono aggiunte, dello stesso tenore, o anche con qualche raro momento lirico emotivo “La canzone del Cambi”, “Amanti” (forse l'unica canzone d'amore) e tutte insieme sono confluite, interpretate dall'autore, nel primo disco appena uscito a nome Michelangelo Ricci, “Questo lo so”.
Non è un disco perfetto sul piano della realizzazione, certi arrangiamenti ci paiono affrettati e certi suoni anacronistici, anche l'interpretazione talvolta ci pare un po' irrigidita sul metronomo. Ma sono, diciamolo, peccati veniali, soprattutto se si tiene conto di un'opera prima, nata in regime di autoproduzione. L'originalità, la poesia, l'unità narrativa di queste storie cantate compensano ampiamente certa precarietà di realizzazione, mettendoci ci fronte a un esordio come non ne sentivamo da tempo.
L'ultimo brano “Il globo industriale”, a mio parere il più bello del disco, è una cupa martellante fotografia della società ansiogena nella quel siamo incastrati.

Scavo le unghie me le levo
Il sangue mi consumo
Sudore dentro il fumo (...)
Braccato nei confini del reame
Io fuggo la mia fame
E trasporto sulla schiena
Il sudore e la catena(...)
Seduto davanti ad uno schermo
Io devo stare fermo
E cambiare un mio governo
Di un democratico padreterno
Del globo industriale
Io sono l'animale
Che solo deve contare
Rate in banca e poi votare.

E per la prima e ultima volta nel disco di Michelangelo si leva l'ipotesi di una grande speranza di rivolta, l'idea che tutti questi schiavi delle circostanze, della società, delle famiglie, delle debolezze, riescano ad alzare gli occhi per cogliere la possibilità di una rivolta, che se fosse collettiva, potrebbe aprire un'ipotesi di vera libertà, ovvero di vera vita degna.

Ma nel cielo c'è un pensiero
Che se poi fosse vero
E levasse il velo scuro
Potremmo per davvero
Trovare un altro modo.

Varsavia val bene una mossa. Un manipolo di canta-poeti in Polonia

Ciò che si racconta qui di seguito non è qualcosa di definito: un artista, un disco, un collettivo musicale... piuttosto degli appunti, presi sul diario, di qualcosa che mi è successo quasi per caso, nel mio venire e andare su e giù per l'Europa nei luoghi del canto, e che meriterà in seguito maggiori approfondimenti, ma che intanto voglio condividere. Come forse ricorda qualche mio lettore, sono anni e anni che inseguo la canzone d'autore dell'Est, quella che ebbe uno straordinario ruolo di resistenza culturale negli anni bui del Socialismo di Stato. Ho parlato su queste pagine di artisti poco o niente conosciuti da noi, ma leggendari in patria: i russi Visockji e Galich, i cechi Kryl e Nohavica, il polacco Kaczmarski... e poi ho sovente parlato del mio preferito, Bulat Okudzava, il padre dei cantautori sovietici che sono anni che studio e traduco, preparando un sontuoso progetto che vedrà presto la luce.
In questo lavoro sono stato guidato nell'ultimo lustro dalla giovane competentissima slavista Giulia De Florio, che ogni tanto – come ogni studioso che si rispetti – gira il mondo per convegni e che prova a raccontare che c'è un cantautore italiano che tanto si dà da fare per diffondere la cultura musicale e poetica slava.

Antoni Muracki

A giugno Giulia mi fa “ti andrebbe di partecipare a un paio di concerti collettivi a Varsavia, con cantautori polacchi, russi e cechi... non ci sono soldi, giusto un rimborso spese, ma è una bella occasione di diffusione e confronto”... beh, perché no, dico io, che se c'è da cantare non mi tiro mai indietro.
Però 'sti polacchi spariscono per un mese, più volte sollecitati confermano in linea di massima ma danno risposte evasive quando si chiede più precisamente di cosa si tratta, e poi dove, e quali sono le distanze e come mai...
Insomma arriviamo a una settimana dalla partenza e io ancora non so di preciso dove e a che ora canterò. A questo punto mi vesto di professionismo ferito e dico a Giulia – che continuava a fare l'intermediaria, rassicurandomi sul fatto che gli slavi sono fatti così, ma poi gli impegni li rispettano – che insomma... io devo partire così alla cieca, e che non è serio tenermi all'oscuro...
In realtà la paura mi fotteva: non conosco ovviamente il polacco, non conosco il russo (sono giusto in grado di chiedere acqua, vodka, crespelle e tè verde), parlo perfettamente il francese (che sarebbe stato utilissimo ai tempi di Tolstoj e Chopin, ma ormai non più) e tutto il mio lessico inglese si ferma ai titoli delle canzoni dei Beatles e di Simon e Garfunkel. Come faremo a capirci? che gli dico io a questi?
E poi l'attuale situazione politica polacca mi preoccupa non poco... ma, mi dico anche, se uno dovesse giudicare noi italiani dal nostro Governo, non è che ci faremmo un figurone.
Finalmente in corner arrivano definitive conferme, orari e luoghi dei concerti, e... vedo che il primo è nel museo della diocesi e il secondo nel giardino di una chiesa.
Vabbé, chi non va non vede, Varsavia varrà bene una messa...

Jacek Beszczyński

Al mio arrivo in aeroporto trovo il cantautore polacco che organizza tutto l'evento Antoni - Tolek - Muracki... io parlo italiano e francese, lui polacco, russo, ceco, e un inglese che, per quel nulla che posso giudicare, non mi sembra oxfordiano. Scoppiamo a ridere, ci abbracciamo e iniziamo a chiacchierare per tre giorni ininterrotti (o meglio interrotti solo dai concerti) di tutto, ma proprio di tutto, e soprattutto di musica. La sua famiglia mi accoglie, ho l'onore di passare dallo studio della moglie di Tolek, ottima pittrice con una fissa morandiana per le finestre, le porte, le case... intanto hanno deciso che, non avendo ancora fatto colazione, devo mangiare tre (3) uova col pane nero e i meravigliosi onnipresenti cetriolini, poi raggiungo Tolek nello studio e cominciamo a suonarci, io in italiano lui in polacco, le canzoni di Okudzava. Si affaccia una torma di biondissimi nipoti, figlie, ognuno riprende in una lingua diversa un ritornello.
Chiedo lumi sulla canzone d'autore in Polonia. Vengo a conoscenza della straordinaria tradizione del Cabaret musicale che, fino agli anni Sessanta, ha rappresentato la punta di diamante della cultura popolare: una boccata di ossigeno e surrealistica intelligenza, qualcosa fra Karl Valentin e i Gufi, ma più cubista, con musiche straordinariamente complesse. Era tutto ciò che di buono passava la televisione ai tempi dell'ottuso Gomulka (“un cretino totale” mi dice in italiano Tolek, pescando le parole chissà da dove).

Sono cascato bene, Antoni Muracki è una sorta di enciclopedia musicale, conosce tutto, compone ogni sorta di canzone in molti stili diversi: canzoni di protesta, canzoni buffe, canzoni per bambini, suona la chitarra con grande perizia e con parecchio swing, mette in musica i più grandi poeti contemporanei, e ovviamente adatta le canzoni russe e ceche: in particolare ha dedicato dei lavori di grande rilievo a Jaromir Nohavica, rendendolo veramente popolare nel suo Paese. Infine scrive delle bellissime canzoni d'amore... e io spericolatamente, un po' con l'aiuto dei traduttori online e molto basandomi sull'intuizione, nella notte ne traduco una breve, semplice e bellissima, che finiremo per cantare assieme sul palco:

Ti amo da quel tempo là che ogni cosa mi commuove
la curva lenta dell'età di un corpo che si muove
una scintilla un'ovvietà l'odore dei capelli
e dalla notte tornerà col canto degli uccelli

e il Mondo chiama, il Mondo va dal supermercato
alla via lattea e anche più in là, nel cielo sconfinato
ed io che sto col naso in su, a volte mi ci perdo
e torno solo e vedo il tuo sorriso e mi ricordo

perciò ti amo senza la risposta alle domande
come il silenzio che sa già la strada che ci attende
la ricevuta sul comò della lavanderia
e tu già sai quello che so, della tua vita e della mia.

Nel frattempo bisogna correre sul luogo del concerto, portarsi dietro e montare l'impianto – sì, proprio come facciamo talvolta noi in Italia, paladini dell'autoproduzione e dell'organizzazione dal basso – cominciano ad arrivare gli altri musicisti: Jacek Beszczyński, splendido volto scavato e ieratico, con occhi profondi e ironici e la voce rauca di un lupo di mare, un Joseph Conrad con la chitarra che canta la sua versione della tradizionale “Dos kelbl”, canto yiddish reso noto nel mondo da Joan Baez (“Dona Dona”) e in italia da Herbert Pagani (“Un capretto”). In realtà Jacek come autore è specializzato soprattutto in canzoni per bambini, concepite lavorando a stretto contatto con la sua compagna pedagogista, ne ha scritte centinaia diventate popolarissimi fra i bimbi polacchi. Si affaccia anche Tomek Kordeusz, fenomenale chitarrista compositore, molto attento a sostenere un gioco di pieni e di vuoti musicali, di notevolissima raffinatezza. Infine arrivano da Brno il ceco Jiří Vondrák, che ebbe l'imprimatur dallo stesso Okudzava, e che con delicatezza celestiale e col candore degno di un Soldato Svejk della canzone, snocciola strofe di miele e veleno, e il russo Alexey Kudryavtsev, impressionante interprete di Visockij, denso, materico ed eccessivo, con un piglio rock-moscovita.
In questa girandola di personaggi e grugni notevolissimi, tutti con la loro personalità, ma pronti a scambiarsi canzoni e parole, a duettare, a raccontarsi, io mi ritrovo un po' frastornato, ma già in famiglia... e il pubblico polacco si lascia conquistare sia dalla captatio benevolntiae delle canzoni del loro compianto Kaczmarski che eseguo in italiano, sia dai miei canti dedicati all'emigrazione.

Jiří Vondrák

Si finisce in un trionfo, e si torna alla casa di Tolek, dove è imbandita una cena collettiva (per la verità avevamo fatto anche un'abbondante merenda, abbondantemente innaffiata di birra) alla quale portiamo un contributo alcolico. E qui nell'entusiasmo accetto la sfida di pasteggiare a vodka. Poco male, il letto è vicino. Il giorno dopo – come dicevo – si replica nel cortile di una chiesa, attenti a non disturbare con le prove la cerimonia matrimoniale che intanto di svolge dentro... appurato che non solo il mio repertorio, ma quello di nessuno dei presenti è particolarmente religioso, chiedo lumi su quella strana location, e mi rispondono che negli anni della censura le chiese erano fra i pochi luoghi che garantivano una certa libertà di espressione al loro interno, non solo per ciò che atteneva al culto, ma anche per canzoni e performance libertarie, purché nel rispetto reciproco. Però...
Le ultime chiacchere, le ultime canzoni con Tolek, che mi svela il lato più intimo del suo repertorio e la metafora dell'aquilone con la quale ha raccontato la morte della sua mamma... la commozione è lì a due passi, maledetti slavi emotivi! Riparto a malincuore per Milano, con una folla di idee per la testa, con una lingua in più da imparare, e con la precisa sensazione di aver allargato non solo la famiglia musicale ma anche quella dei miei affetti.

Alessio Lega