progetti concreti
La periferia in pieno centro
intervista di Gerry Ferrara a Luisa Siddi
In un quartiere storico di Cagliari, vicino alle mura, c'è uno studio fotografico “resistente”. Che punta l'obiettivo sulle trasformazioni sociali, sulle ingiustizie e sulle malefatte nella città e nell'isola. A colloquio con una delle fondatrici.
“Bisogna essere molto forti per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune (...) se tocca camminare per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera bisogna saperlo fare senza accorgersene (...) non c'è cena o pranzo o soddisfazione del mondo che valga una camminata senza fine per le strade povere dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.”
L'incipit pasoliniano, de La solitudine, è riaffiorato nelle mie raminghe giornate cagliaritane, vagando per le vie di Castello, il quartiere storico dove vivo. È il luogo ideale per perdersi, per camminare senza fine, senza meta, che la meta è il cammino stesso, gravido di silenzi, incontri, di vite e storie inaspettate dietro l'angolo. È il luogo dove attardarsi nell'umanità di chi lo vive, negli sguardi e negli anfratti artigiani e pensanti di randagi, nomadi e stanziali, che vivono un sano isolamento “dall'impero”.
Dunque se sei fratello dei cani, non puoi non arrivare in vicolo S. Giuseppe e annusarne l'odore di casa, trovarti tra piante, divani, animali domestici e umani “addomesticati”, pareti-bacheca che traspirano “writerismo” e arte contemporanea, tappezzate di pagine di controinformazione sociale.
Un itinerario di percorsi visivi “messo a fuoco” nel pensiero e nell'obiettivo (fotografico) del progetto S'Umbra. Parliamo di tradizione (fotografica) che si fa racconto, anche sonoro, resistente e libertario.
G.F.
Gerry Ferrara – Chiediamo, quindi, alla portatrice
sana di camera oscura, Luisa Siddi, di dirci dove ci troviamo.
E perché.
Luisa Siddi – Sana, di sicuro, no. Siamo in una
grotta che dà su un vicolo dal cielo stretto e storto,
in un piccolo pezzo di città vecchia che prende la forma
dei nostri giochi.
Narraci del senso del progetto a partire dal nome,
S'Umbra, all'ombra di qualcosa che svela.
L'origine del nome è segretissima, si intrecciano leggende.
S'Umbra nasce tredici anni fa (al numero 17, subito dopo l'Angolo
dell'agguato) da Jeremia Johnson, in arte Carlo Cioglia, me
e un po' di compagni solidali che ci hanno aiutato a ristrutturare
la grotta.
Pieno boom della fotografia digitale, noi apriamo un laboratorio
di fotografia analogica. Che avessimo deciso fosse non commerciale,
forse era superfluo. Divenne subito circolo fotografico, scuola
di scopone scientifico, a volte casa e un sacco di altre cose.
Negli anni ha continuato a cambiare aspetto, tenendo costante
una certa predisposizione alla sfiga e alle conseguenti folli
soluzioni.
“Ostinati e contrari” nella direzione
di utilizzare l'analogico, la camera oscura, gli acidi, il sistema
stenopeico che vuol dire anche “attesa”, termine
ormai tanto desueto quanto abiurato. La spinta fertile e delirante
di “fermare” il tempo e renderlo attuale e meglio
comprensibile.
Rapini il treno del tempo, mai oggettivo, rubi un istante, lasci
che la luce lo faccia diventare argento, lo vedi apparire in
camera oscura, in una bacinella, alla luce rossa, con il rumore
dell'acqua che scorre. Mi piace passare un sacco di tempo per
rubarne un istante, è l'unico posto dove non mi annoio
mai. Questo sul come. Su quale istante rubi e perché,
invece, fa parte di te. Nel nostro caso ciò che c'interessa
di più in chi fotografa è la rivendicazione di
un punto di visione, soprattutto quando è negato.
Come vi sostenete? Come “sviluppate”
idee creative e ruolo sociale, come coniugate arte, pensiero
e sopravvivenza? Tra le altre cose voi parlate anche di fototerapia.
Con la danza sul pennone: improbabili acrobazie, piroettanti
colpi di scena e, come sai bene, ventate di complicità
che ci fanno aprire le vele.
Sulla fototerapia, ho smesso di usare il termine. È curioso
che tutto ciò che è piacevole sia chiamato terapeutico.
La fotografia è un gioco, un utensile, un'arma. Di fatto
la fotografia modifica la realtà. È uno strumento
affilato che distribuiamo a chi lo chiede, insieme a un pacco
di raccomandazioni su responsabilità e consapevolezza.
La scelta del quartiere storico cagliaritano è
arrivata in modo casuale o è stato “obbligatoriamente
naturale” l'insediamento in questo tipo di territorio
e di tessuto sociale che ha un connotato “resistente”.
Curiosamente, poi, vi definite “periferia”.
Questa è la parte più assurda. La prima notte
di libertà l'ho persa in questo vicolo. Non abitavo qui,
ero venuta a farci una scritta e uno scarabocchio. Vent'anni
dopo abbiamo aperto S'Umbra e da tre anni ho deciso anche di
viverci, con Angelo. Il tutto senza premeditazione. È
una sintesi di confine, in cui stridono le parti e si rendono
così visibili. Che poi è la parte più interessante.
Il quartiere è un fantasma di ciò che era negli
anni ottanta: la popolazione ridotta a un quindicesimo, gran
parte degli edifici, di proprietà nobiliare o ecclesiastica,
spesso vuoti e diroccati, in attesa di diventare chissà
cosa. Vicino alle mura (siamo nella città fortificata)
spuntano i bar-barbiere, l'ultimo ha aperto a 20 metri dal dispensario
di viveri per i poveri. Tra questi brandelli di gentrificazione
ci siamo accomodati, facendoci spazio, all'occorrenza.
Siamo “la periferia in pieno centro”, un insieme
di ciò che è considerato marginale, per vari motivi,
non integrabile, a costo di disintegrarsi. E, infatti, siamo
quasi tutti ex disintegrati/e che, in qualche modo, hanno rimesso
insieme i pezzi. Ogni tanto si sente un “avanti tutta”.
Caratteristica del vostro “essere” nel
quartiere è la porta sempre aperta che sancisce, senza
regolamenti idiotamente condominiali, il confine di un luogo,
una terra, il passaggio e la sosta... Da voi c'è sempre
l'opportunità e, spesso, un posto a tavola da condividere.
Perché i poveri hanno una socialità più
ricca? Perché spesso non abbiamo finestre in casa. Viviamo
e lavoriamo in due grotte bellissime, ma pur sempre grotte e,
quindi, porta aperta, inviti a entrare chi ti piace, piante
e divano nel vicolo, per chi si deve salvare la notte. Chi è
un “tu-non-puoi-stare-qui”, da noi può stare,
riprendere fiato, se non è razzista o prevaricatore.
Se poi è troppo rassegnato (parlo al maschile, perché,
sono più i maschi a vivere la strada), può stare
finché non è contagioso. Non si tratta di beneficenza,
è trovare soluzioni negli stessi casini.
Con croceristi o tecno-umani dotati di fotocamera sempre in
funzione, che attraversano la nostra Corte dei Miracoli, siamo
decisamente poco amichevoli.
La fotografia è un linguaggio immediato
A proposito di denuncia, siete da sempre un “obiettivo”
puntato sulle trasformazioni sociali, e dunque sulle ingiustizie
e sulle malefatte, della città, dell'isola, e dei richiami
e rimandi d'oltremare.
La fotografia è un linguaggio immediato e potente, quindi
campo di scontro tra potere e contropotere. Lo è stato
fin dall'inizio. Da quando il brevetto è stato comprato
dal governo francese per le foto segnaletiche, da quando le
esecuzioni di comunardi e comunarde sono state fatte in base
ai riconoscimenti di foto-ricordo sulle barricate; da quando
Lewis Payne, dopo aver fallito nell'attentato alla vita del
segretario di stato del governo Lincoln, in attesa dell'esecuzione,
guarda oltre l'obiettivo di un fotografo accreditato e incanta
Roland Barthes oltre un secolo dopo.
In un'isola militarizzata e colonizzata in vari modi, non ho
voglia di far vedere i pezzi risparmiati per sbaglio e nemmeno
di fare il piagnisteo delle sfighe che ci son toccate, rappresentazioni
speculari, spesso con identica funzione. Dipende sempre da chi
ti paga e per soddisfare chi. E tra narcisismi confusi e committenze
dalle idee chiarissime, anche il reportage “di denuncia”
diventa una cosa spuntata che non serve a nulla. Oppure riparti
dalla forza di un punto di vista unico e consapevole, segui
e dai strumenti alle visioni di resistenza.
Sulle pareti outdoor di S'Umbra, tra caleidoscopiche
rappresentazioni e forti rivendicazioni come “Immigrati
salvateci dagli italiani”, troviamo due frasi emblematiche
e fortemente innestate nel vostro agire anarchico: “A
bellu puntu” e “Mi seu salvendi”.
Raccontaci di cosa e di chi stiamo parlando e di come riuscite,
nonostante tutto, a essere punto di riferimento vitale per il
pensiero e il movimento anarchico.
Dai, grazie al cielo, non siamo riferimento per nessuno. Siamo
anarchici praticanti e non ne facciamo mistero. Su una parete
del vicolo campeggia Jeremia Johnson, gran maestro di camera
oscura, fuggiasco, bandito, poeta. Accanto a lui sig. Pino,
suo compagno al tavolo delle carte e galantuomo di quartiere.
Carlo-Jeremia ha vissuto tempi intensi, ha lasciato una memoria
forte e ho un gran pudore a parlarne.
“De André, il suo tema non è
organico, mi diceva sempre, al liceo, il mio insegnante d'italiano.
Allora ho cercato di essere organico da adulto, nella coerenza
di una ribellione che passa anche attraverso le proprie viltà
e le proprie contraddizioni. Senza le quali, ecco l'organicità,
un uomo non è un uomo, ma un burocrate, o una macchina,
o un cinghiale laureato in fisica”.
Il deandreiano pensiero vorrei collegarlo alla vostra esperienza
di “Fuoritema”.
Tra una chiacchiera e l'altra in camera oscura, così,
da S'umbra, è nato “Fuoritema”. Sei numeri
di autoproduzione miracolosa, in cui abbiamo pubblicato le storie
che incidono il reale, raccontate in prima persona. Un'esperienza
umana fortissima, un periodico di fotogiornalismo in italiano
e inglese, introdotto da poche parole, in sardo, che riassumevano
tutto il numero. Reportage su pellicola, stampa off-set, responsabilità
collettiva della redazione. Anche nel fotogiornalismo è
fattibile creare dei contesti in cui le storie possono essere
raccontate senza essere tradite, piegate o aggiogate. Tutto
autofinanziato, non duraturo, ma realizzato.
“Suonno d'oro de stu vico addò va chistu
motivo, chissà chi ce l'ha purtato chissà chi
se l'è ’nventato. ’Nu miracolo c'è
stato tutt'o vico s'è scetato, ’a luntano dint'o
scuro se senteva ’nu tamburo.” Altra citazione,
stavolta direttamente dalla tradizione popolare (da “Medina”
della NCCP).
Sogno e tamburo, festa e lotta nel solco, e nel vicolo, di
S'Umbra. Che “album” (curioso che questo termine
valga per la fotografia quanto per la musica) state preparando?
I titoli sono tanti: Cerco casa gratis, Un porro al sole, L'armata
Brancabbestia, Desbirrification, Senza carte e senza cartine...
I contenuti sono quotidiani e impegnativi. Da questo miscuglio
di ingiustizie umane e sociali, di urgenza espressiva, escono,
dall'ombra di S'umbra, tracce quotidiane con propositi più
duraturi. La terza legge dell'avventura dice che ciò
che succede dopo, si scopre solo dopo.
Doveste, alla s'umbra dell'ultimo
sole dei vicoli di Castello, “sviluppare” un
negativo, una storia per “A”, dove puntereste l'obiettivo?
Sul viaggio oltre frontiera della ragione.
S'Umbra - via san giuseppe, 17 - 09124 Cagliari
sumbrapercorsivisivi@gmail.com
3295640022 - 3883615334
Gerry Ferrara
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