Rivista Anarchica Online
Torino come Chicago?
di R. Brosio
È tendenza generale dei giornali, nel parlare di fatti criminali,
drammatizzare le situazioni amplificando
ad arte i fatti di cronaca e cercando di dimostrare l'esistenza di un incremento della criminalità
sia sul
piano quantitativo che su quello qualitativo. Ma in un campo soggetto a continue oscillazioni come
quello della criminalità, le statistiche hanno un valore relativo; nessun valore hanno poi quelle
usate
nelle campagne giornalistiche, poiché sono basate su dati riguardanti un arco di tempo
brevissimo.
Inoltre le fonti e i modi in cui vengono presentate non dissipano sempre il sospetto della
parzialità.
Come si può infatti non tener conto di cause di variazione come l'aumento della popolazione,
l'immigrazione, le condizioni economiche, culturali e sociali, e l'aderenza a certi miti che la
società
stessa ci elargisce attraverso i suoi mezzi di comunicazione di massa? Non c'è da stupirsi quindi
se
in un breve arco di tempo si riscontra una concentrazione di atti criminali che portano ad un reale ma
pur sempre relativo aumento della delinquenza che scompare nel contesto di una statistica più
generale. Di maggior rilievo è che ogni notizia passa attraverso il filtro della
stampa. Diventa quindi importante
determinare come questo supposto incremento viene presentato e a quali conclusioni una certa
interpretazione dei fatti possa condurre.
"STAMPA" DI TORINO
La "Stampa" di Torino ha messo in atto una campagna contro la delinquenza con l'evidente scopo
di
creare un senso di insicurezza nei lettori stimolando la richiesta di un sempre maggior intervento degli
organi repressivi dello stato. Lo strumento strategico usato dalla "Stampa" nell'analisi di un delitto
consiste nel trascurare completamente la genesi. Ogni resoconto tace del tutto sulla vita dell'assassino
e della vittima, inclusi tutti i particolari d'ordine sociale e psichico, tace sul loro ambiente, sul motivo del
crimine. Informazioni essenziali che permetterebbero di spiegarlo e che invece in siffatti
resoconti non trovano
posto, ma sono formalmente surrogate infarcendo la cronaca di dettagli pedanteschi circa il luogo,
l'età
e la professione del colpevole e della vittima e così via. Dati che non spiegano nulla, non potendo
documentare la genesi del misfatto (che viene taciuta), e che invece vogliono lasciarci a bocca aperta
dinanzi alla correttezza dell'informazione. La campagna è stata preparata con la pubblicazione
di una
serie di appelli di provenienza incontrollabile descriventi situazioni da sempre esistenti (prostituzione)
e propalando notizie alquanto dubbie col solo scopo di allarmare i lettori (un bimbo avrebbe preso una
immonda malattia giocando con un preservativo usato). Dopo avere ottenuto con questi mezzi una
certa sensibilizzazione dell'opinione pubblica, la "Stampa" è passata alla prima vera e propria
campagna: "OPERAZIONE VALENTINO PULITO", contro la prostituzione che alberga nel parco
cittadino. Non si può fare a meno di accertare l'inutilità dei provvedimenti che
scaturiscono da questi
forzati movimenti di opinione, che risultano essere dei semplici palliativi, come nel caso dell'operazione
sopra citata: il "mondo del vizio" è stato spostato di tre isolati, dal Valentino in via Ormea.
È
interessante inoltre notare come il risultato di queste azioni giornalistiche sia sempre la richiesta di
nuovi posti di polizia e più in generale di un potenziamento delle forze dell'ordine. È
dunque il modo in
cui le notizie vengono presentate che influisce notevolmente sulle reazioni che si vogliono suscitare
nell'opinione pubblica. Fatti della stessa entità vengono presentati, in momenti diversi sotto aspetti
formali diversi. Citiamo alcuni esempi: 1) a) "Stampa" 29 gennaio 1970
"Maschere e pistola in pugno rapinatori in una panetteria (a Mirafiori
5 donne scippate in 4 ore)" 30 righe, titolo 5 mm., nessuna fotografia. b)
"Stampa" 2 ottobre 1970 "Impiegata della Gabetti rapinata di 8.000.000 i passanti inseguono il
bandito e lo catturano"; sottotitolo "La delinquenza di giorno in giorno più aggressiva e
pericolosa" 90
righe (su 5 colonne), titolo mm.9, 4 fotografie. 2) a) "Stampa" 28 gennaio
1970 "Accoltella in casa una ragazza, la rapina: bloccato nella fuga" 50
righe, titolo 6 mm., nessuna foto. b) "Stampa" 2 novembre 1970 "Rapinano
due donne e con l'auto piombano in una scarpata: presi"
sottotitolo "Baraccati dai carabinieri con elicottero e radiomobile" 101 righe, titolo 9 mm., fotografie (di
tre minorenni con i relativi nomi). Accertata quindi con questi esempi la finalità
del modo in cui un'informazione viene presentata, è
interessante dedicare un esame a parte a due recenti casi che sono stati l'origine di tutta un
orchestrata serie di articoli. L'interesse che nasce da questo esame è dovuto all'apparizione di
scritti
valutativi e di commento al fianco dei semplici resoconti di cronaca. Pur non escludendo la
gravità dei
due omicidi in questione (assassinio a scopo di rapina dell'orefice Baudino e di un carabiniere a Gavi
Ligure) è giusto analizzare il modo in cui sono stati trattati e trarne delle
conclusioni. Per circa un mese, giornalmente, la cronaca cittadina è stata occupata
da articoli riguardanti questi due
casi senza risparmio di pagine, di fotografie e di titoli che spesso hanno raggiunto i 15 mm. Leggendo
la "Stampa" in questo periodo pareva dunque che in una città come Torino non accadesse nulla
fatta
eccezione per le indagini e le dichiarazioni della polizia. Si poteva sapere tutto sulla vita privata di alcuni
individui, presunti colpevoli, ma nulla sugli sfratti di numerose famiglie, operati proprio in quei giorni,
e su tutti quegli altri eventi socialmente rilevanti, che fanno parte della vita quotidiana di una grande
città organizzata sull'autorità e lo sfruttamento. Anche il pietismo, suscitato ad arte,
è stato soddisfatto
da due sottoscrizioni a favore delle due vittime, promosse naturalmente dalla "Stampa", che hanno
raccolto rispettivamente 8 e 4 milioni.
GLI ARTICOLI DI COMMENTO
Lo spazio riservato ai commenti dei lettori, alle loro supposte reazioni e all'esame critico degli
avvenimenti da parte dello stesso giornale, è stato decisamente sproporzionato rispetto a quello
riservato alla narrazione ed alla pura constatazione dei fatti. Tutto ciò impone delle necessarie
considerazioni generali ed un esame approfondito di quella che può essere definita la veste
ideologica
di un fatto di cronaca, o forse meglio, il modo migliore di utilizzare un fatto di cronaca con il fine,
più o
meno velato, di condurre, facendo leva sull'emotività dei lettori, un ben chiaro discorso
ideologico e
politico. Non vi sono dubbi sulla diversità di effetti che può provocare
nell'opinione pubblica la semplice notizia
di un assassinio o la notizia dello stesso fatto accompagnata da un certo numero di proposte, alcune
delle quali di criminale brutalità, per il ristabilimento della pena di morte. Un'impostazione di
questo
genere esprime chiaramente una scelta politica consapevole, che prende forma e si definisce nelle
proposte pratiche che scaturiscono, dall'analisi dei fatti che viene compiuta. Quali sono queste
proposte? Rafforzamento della polizia e delle leggi, rigorosa applicazione dei codici (non si dimentichi
che nel codice è prevista una pena che va da tre a cinque anni per il reato di apologia dì
sovversione,
e che questo articolo è stato proprio ultimamente dichiarato valido dalla Corte Costituzionale),
maggior
severità nelle condanne e ristabilimento della pena di morte. In altre parole maggiore pressione
a tutti
livelli. Che poi queste proposte siano chiaramente inefficaci, se non sul piano politico, appare chiaro
dal solo fatto che la polizia ha un carattere repressivo e non certo preventivo. Dieci poliziotti possono
scoprire più efficacemente e in minor tempo l'autore di un crimine che non uno solo, ma non
potranno
mai evitare o annullare il crimine. Far leva dunque sull'indignazione di alcuni individui, pronti a piangere
sul cadavere di un orefice e non su quello di altre persone morte tragicamente (Pinelli),
generalizzandola e presentandola come la più alta espressione della moralità di una
città intera, è un
abile gioco politico che maschera intendimenti ben più pericolosi. L'esame particolareggiato di
queste
proposte giustifica ampiamente queste considerazioni.
PROPOSTE E COMMENTI DEI LETTORI E DELLA "STAMPA"
La risposta alla campagna contro la criminalità non si è fatta aspettare: fin dall'inizio
la "Stampa" ha
pubblicato su "Specchio dei tempi" lettere preoccupate ed impaurite per il dilagare del vizio e della
delinquenza. Oltre alle lettere che provengono quasi tutte dal ceto medio e sono firmate da impiegati,
negozianti e professionisti, sono apparse in quarta pagina commenti di personaggi della P. S. e della
stessa "Stampa". "Molti anche giovani operai, professionisti arrivati, dirigenti di gruppi
politici, chiedono sentenze capitali:
forse oggi sarebbe facile raccogliere mezzo milione di firme per ottenere un referendum sulla pena di
morte". "Come sempre il numero e la ferocia dei crimini suscitano nell'opinione pubblica
lo sdegno e la paura
e quindi scatenano ondate di furore collettivo. Centinaia di lettere ne offrono la prova: è un coro
che
invoca sanzioni durissime, il ripristino della pena di morte". "I commercianti chiedono
maggior forza dello stato". "Legge e ordine è uno slogan di crescente fortuna
internazionale". "Per colpire l'ondata di delinquenza non servono i patiboli; occorrono
volontà politica, coscienza delle
responsabilità e miliardi... si spendano nell'attività repressiva e punitiva: polizia efficiente,
tribunali non
oberati di lavoro...". "La gente è allarmata, chiede che le file della polizia siano
irrobustite e meglio armati gli agenti; c'è
anche chi auspica (in generale sono estremisti di destra) la creazione di "comitati per la difesa civile"
di Torino. È una via pericolosa, non conduce a "legge e ordine" ma all'anarchia:
non rafforza, ma
dissolve l'autorità dello Stato; può aprire le porte alla dittatura". Questi articoli di
commento, riportano
stralci di lettere a "Specchio dei tempi", in specie quelle che suggeriscono soluzioni drastiche, cercano
poi di indirizzare l'opinione pubblica a conclusioni più "democratiche" e rispettose del potere
centrale.
Vengono pubblicate lettere che definiscono il patibolo come "un naturale strumento di selezione per
migliorare il prodotto umano", che affermano l'esigenza di una "esecuzione a fuoco sul posto del
delitto". Ma poi la "Stampa" commenta "il patibolo non serve neppure come estrema
minaccia, occorre dare
sicurezza alla città nell'unico modo possibile: aumento delle forze di polizia attiva, giustizia
rapida, pene
esemplari". E l'appello non tarda ad essere recepito dal potere; il dott. Vicari annuncia che "la questura
di Torino ha già ricevuto un primo scaglione di 50 agenti particolarmente addestrati alle moderne
tecniche; altri 50 saranno presto assegnati alla città. Occorre contrastare la delinquenza con
efficienza
di uomini e di mezzi". (Eppure qualche giorno prima il dott. Montesano, capo della squadra mobile,
aveva affermato "abbiamo colto risultati concreti: grosse rapine non avvengono più con la
frequenza
di una volta", smentendo completamente il dilagare della criminalità e l'insufficienza della forza
pubblica). La paura che traspare dalle lettere è spesso completamente ingiustificata ed è
il prodotto
di una vera e propria nevrosi da suggestione provocata dalla "Stampa". Un lettore scrive: "Ho il box a
cento metri da casa ma se mi capita di arrivare di notte non lo uso, lascio l'auto davanti al portone,
preferisco così piuttosto che rischiare a piedi da solo quei cento metri"; un altro scrive che a
Torino "se
qualcuno ti ferma per chiederti l'ora o una informazione hai già paura"; un'altra afferma
addirittura che
"una donna non può uscire di casa senza temere un'aggressione". La diffidenza è tale
che compaiono
articoli come "Nonno prende per mano un bimbo e viene creduto un rapitore" oppure "Arrestarono venti
innocenti accusandoli di otto rapine". L'aver creato nei lettori questa diffidenza verso tutti
va ad unico vantaggio della classe dirigente che
vede così divise e separate da una barriera di paura e serrate nelle loro case le pedine del suo
gioco.
Un gruppo di impiegate, evidentemente lettrici assidue della "Stampa" scrive "la città è
in mano ai
delinquenti; la sera dobbiamo ritirarci in casa, non più teatri, ritrovi culturali, passeggiate; ad ogni
passo
si incontra la teppaglia". Riteniamo opportuno a questo punto citare altri significativi brani di queste
lettere apparse sulla "Stampa". Ulteriori commenti non sono necessari. "È un
autunno nero per il Piemonte..." "Spesso i responsabili finiscono nelle mani della giustizia,
ma altrettanto spesso riescono a fuggire; le
forze di polizia sono troppo poche..." "Il solo pensiero della pena capitale mi sgomenta,
ma se ci fosse..." "Non sarebbe il caso di richiedere all'autorità militare un rinforzo
di uomini e mezzi, con la formazione
di reparti di polizia militare autonomi oppure alle dirette dipendenze della benemerita
P.S.?" "Io mi domando se una ragazza quando esce, di giorno, naturalmente non di sera,
deve portarsi
appresso una scorta armata oppure due gorilla. Penso che tutte le ragazze farebbero bene ad imparare
il karaté o lo judo".
SULLA PENA DI MORTE
"Condivido pertanto l'opinione di molti e cioè che, nel momento in cui si vive, un'esecuzione
a fuoco sul
posto del delitto di lesa proprietà a mano armata, aggravata da omicidio, o il sommario processo
con
immediata condanna ad essere appeso per la gola finché morte sopravvenga avrà
certamente l'effetto
di rallentare i luttuosi episodi cui assistiamo". Queste delittuose parole piene di sadismo e di violenza
sono la conclusione di una serie di lettere scritte in risposta a un cittadino che ha reputava reato
chiedere la pena di morte. Il 28 Ottobre 1970 giungono alla "Stampa" 77 lettere; 63 chiedono il ripristino
della pena di morte. Sessantatré assassini potenziali per combattere la delinquenza; ma che
differenza
c'è tra chi uccide per denaro e chi vuole uccidere per difendere quel denaro che a sua volta ha
rubato
allo sfruttato? Parlando della pena di morte un giornalista scrive: "Non volevamo più tornare
sull'argomento e l'abbiamo scritto. Ma siamo costretti nostro malgrado a riparlarne. Ci spingono a farlo
le lettere che ci arrivano giornalmente". La "Stampa" non ha evidentemente interesse ad approvare la
pena di morte, avrebbe troppe contestazioni, ma soprattutto non è questo l'obiettivo della sua
campagna. Sollecitando queste lettere con il panico, la paura e il terrore ha dato modo alle forze
reazionarie di aumentare il loro potere giustificando qualsiasi tipo di repressione e facendolo passare
anzi come invocato dalla popolazione stessa.
CONCLUSIONI
Non ci interessa molto stabilire se la campagna-stampa sulla presunta recrudescenza della
criminalità
sia giustificata o no. Piuttosto vogliamo domandarci: quale che sia la realtà delle cose, che effetti
obiettivi porta con sé una campagna di questo genere? Tra i molti lettori di un
giornale a grande tiratura, quali sono i più ricettivi a certi discorsi? Chi cioè, ha
più paura di un possibile aumento della delinquenza? La classe operaia no. Non
ha nulla da perdere ed è, di fatto, pochissimo esposta al pericolo di rapine,
furti, omicidi, ecc. In essa, una campagna allarmistica può al massimo generare il risentimento
moraleggiante di chi lavora duramente nei confronti di chi "fa i soldi" in modo illegale. Gli
appartenenti alle classi superiori nemmeno. I loro profitti e i loro privilegi non sono, realmente,
raggiungibili e intaccabili dai "colpi" dei rapinatori o dei ladri; sono ben protetti (assicurazioni, operazioni
bancarie, ecc.) ed essi hanno cultura a sufficienza per capirlo. Al massimo, se si uniscono al coro
è
perché pensano di guadagnarci. Gli unici sui quali una campagna contro l'aumento
dei crimini può far presa sono i "ceti medi", e in
particolare: - bottegai (commercianti, gestori di negozi, artigiani, piccoli e piccolissimi
industriali, ecc.), cioè gente
che è di fatto esposta ai pericoli della delinquenza (hanno soldi, ma non ben protetti) e non
è in grado,
per le caratteristiche intrinseche della sua classe, di farvi fronte da sola. - intellettuali di
piccole e medio calibro (impiegati, tecnici dipendenti, insegnanti, ecc.) la cui posizione
di privilegio è condizionata al rispetto della legalità e che sono impotenti, essendo
detentori di pure
conoscenze intellettuali, di fronte alla violenza, individualmente. In questi ultimi una
campagna come quella in questione genera allarme e insicurezza, proprio
per la
sensazione di non aver nulla da opporre, da soli, contro dei pericoli che li coinvolgono direttamente.
Questa sensazione, se convenientemente "coltivata" può facilmente trasformarsi in paura
irrazionale,
che non tiene assolutamente conto che, ad esempio, al giorno d'oggi è statisticamente molto
più
probabile il pericolo di contrarre il cancro (o morire di infarto) che non quello di essere rapinato per la
strada. L'effetto più immediato di questo senso di insicurezza è il
ravvicinamento alle strutture dello Stato e la
disponibilità per i tentativi di rafforzarle. Infatti, tutte le proposte avanzate allo scopo di contenere
o
bloccare la supposta ondata di criminalità (sia che tirino in ballo comitati civici e squadracce -
fasciste -
anti criminali, sia che chiedano un inasprimento delle pene e della repressione, sia che prevedano
semplicemente l'applicazione, pronta ed efficace, delle leggi esistenti) non sono realizzabili se non nel
quadro, alla lunga o alla corta, di uno Stato forte o perlomeno efficiente. È facile
prevedere pertanto, come sentimenti del tipo di quelli sollevati da certe campagne allarmistiche
possono servire non solo per giustificare provvedimenti volti a risolvere il problema specifico (lotta al
crimine), ma anche tutta una serie di altre disposizioni che con la lotta al crimine possono benissimo
non aver nulla a che fare. Non a caso gli stessi termini, lo stesso senso di insicurezza, lo stesso modo
di presentare ai lettori i fatti e le persone, venne utilizzato in altra occasione, ma recentemente, quando
la matrice politica e reazionaria della campagna era più che mai evidente, e cioè dopo
le bombe di
Milano. "Valpreda pazzo sanguinario, Valpreda maniaco omicida, la strage atto irrazionale senza
motivo, ecc." sono discorsi che concordano perfettamente col quadro di criminali presentati come belve
umane, per i quali non viene tentata nemmeno la pur minima spiegazione sociologica o psicologica dei
loro atti, che ci viene fornito dalla stampa nostrana in questi giorni, anche se a diverso
proposito. In conclusione quale che sia l'intenzione di chi porta avanti campagne di questo
genere, e quale possa
essere il risultato, a lunga o breve scadenza, che ad esse specificatamente si chiede, l'effetto obiettivo,
tanto più sensibile quanto più intensa e prolungata è la campagna, è il
rinsaldamento nei ceti medi del
senso dello Stato e della necessità di rafforzarono. Sentimento che può servire solo a far
digerire un
inasprimento fiscale, ma che può essere la base anche per qualcos'altro.
R. Brosio
UN DOCUMENTO DEI DETENUTI DI TORINO
Torino, 16 gennaio. Protesta alle "Nuove", le carceri giudiziarie di Torino. Dopo l'ora d'aria, 200 detenuti
si sono rifiutati di rientrare in cella. Alle 20, dopo sei ore di "insubordinazione" e dopo
aver consegnato un documento alla stampa, la
manifestazione dei detenuti si è conclusa. Nel testo del documento, fra l'altro, si
dice: "Mentre si parla tanto di riforma del codice, noi assistiamo ad una
campagna spaventosa sull'ondata di
criminalità, che tende a mobilitare l'opinione pubblica dietro l'intenzione di reprimere e di usare
i
cosiddetti "delinquenti", a loro spese, come strumento per l'inasprimento repressivo".
Così sentiamo
dire che c'è bisogno di più poliziotti, di pene più severe, di una condizione
carceraria più dura. Questo
di fronte a un codice indulgente con reati come il Vajont, ma più duro di ogni altro per i reati
comuni. "Non accettiamo - continua il documento - di essere totalmente segregati
dall'esterno, quasi che si
avesse paura di far sapere cos'è il carcere è di far sapere a noi cosa succede fuori.
Chiediamo di
discutere col procuratore generale di Torino i nostri argomenti e le nostre richieste sulle pene e sul
carcere e che a questo argomento venga data pubblicità sulle stesse pagine che speculano su di
noi
e sul nostro forzato silenzio. Intendiamo continuare a discutere collettivamente rifiutando l'isolamento,
l'impotenza, l'autolesionismo ai quali per tanto tempo siamo stati condannati. Le nostre iniziative sono
coscienti e organizzate? Questa è la prova che il ricorso alla violenza per rivendicare i nostri diritti
non
può essere attribuito a noi".
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A proposito della violenza criminale
Fiumi di inchiostro sono stati sprecati a proposito dell'ondata presunta di criminalità organizzata.
Che
si possa parlare di criminalità organizzata è discutibile: è risaputo infatti che,
salvo eccezioni con
responsabili in alto loco (cosche mafiose siciliane, 'ndranghete calabresi, ecc.) gli episodi di
delinquenza sono generalmente opera di individui isolati, senza nessuna organizzazione alle spalle.
Non sono "organizzazione" infatti i rapporti, frequenti ma saltuari tra fuori-legge e fuorilegge. (ladro -
ricettatore, ad esempio). A che scopo dunque gli organi di informazione tentano di
nevrotizzare la popolazione con titoli
apocalittici, se non per giustificare il potenziamento in atto degli organi repressivi? Più potere alle
forze
dell'ordine, in modo che possano "difenderci meglio". "Siamo con gli onesti" ha detto tempo fa un
grosso personaggio della P.S. torinese. Dunque è giusto che la polizia sia forte, per difendere gli
onesti
lavoratori. È quanto ho sempre fatto, con scrupolo e coscienza: 1970 Reggio
Calabria 2 morti; 1970 Milano 1 morto; 1969 Battipaglia 2 morti; 1969 Pisa 1 morto; 1968
Aavola 2 morti; 1962 Milano 1 morto; 1960 Reggio E. 5 morti; 1960 Palermo 3 morti; 1960 Modena
2
morti; 1960 Gela 2 morti; E l'elenco potrebbe continuare, (oltre cento morti negli ultimi venti
anni). Tutte queste località testimoniano la fedeltà delle forze dell'ordine
allo stato e il loro impegno nella
difesa degli onesti contro i delinquenti. D'accordo, dunque: maggior potere alla
repressione, affinché gli spietati criminali che uccidono per
paura, scompaiano dalla faccia della terra, affinché questi figli di nessuno, il più delle
volte di bassa
estrazione sociale, spesso semi-analfabeti, senza un lavoro qualificato, questa gentaglia per cui lo stato
spende miliardi per mettere loro addosso una divisa, cessi di esistere. Gli onesti cittadini, quelli che
danno il lavoro agli operai, quelli che danno loro le case dove abitano (in affitto), che permettono loro
di comperarsi la macchina, hanno diritto di vivere tranquillamente. Non si dimentichi
però, di mettere a tacere coloro che vanno insinuando che queste campagne "anti-criminali"
hanno lo scopo di favorire, oltre che la carriera dei vari Maigret torinesi di turno, anche
l'involuzione autoritaria a cui tutte le democrazie (la nostra non fa eccezione) sembrano
destinate. Gli onesti sfruttati non hanno da temere, infatti. Quando scenderanno in lotta,
troveranno le forze
dell'ordine ben armate, pronte a difenderli. Ma i lavoratori che ogni giorno muoiono nei cantieri, che si
ammalano di silicosi nelle fonderie nelle miniere, gli operai delle catene di montaggio, tutto questo lo
sanno già. E come lo sanno.
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