Rivista Anarchica Online
Milano un anno dopo
12 DICEMBRE
12 dicembre 1970: anniversario della strage di piazza Fontana, momento massimo raggiunto dalla
provocazione contro il proletariato italiano nella sua espressione più rivoluzionaria: gli
anarchici. Proprio gli anarchici, quindi, debbono, più di chiunque altro, essere presenti in
questa data, contro ogni
provocazione e ogni calunnia. Ma è proprio l'autorità che, frantumatasi fra le sue mani
la campagna di
diffamazione contro gli anarchici, ricorre a una nuova provocazione. Questi i fatti. La
manifestazione di sabato 12 era annunciata da una decina di giorni, tramite manifesti, volantini,
conferenza stampa; venerdì 11 il nuovo, non diverso, questore di Milano convoca alcuni
compagni
comunicando loro che, in linea di massima, sarà tollerata solo una manifestazione con inizio dalle
carceri di S. Vittore. La sera però vieta tutto e, a una precisa domanda, conferma col suo silenzio
di
aver ricevuto in merito ordini dal governo. Misteriosa e minacciosa suona la frase "Non vorremmo un
altro morto il 12 di dicembre?!" Il questore è comunque posto di fronte alle proprie
responsabilità: se
vi sarà violenza sarà la polizia a compierla. Il giorno successivo ha luogo la smorta
manifestazione
dell'ANPI e dei partiti. Il suo termine coincide con la partenza del corteo anarchico. Non c'è
però fra i
due momenti alcun rapporto, anche se alcuni militanti di base del PCI decidono di partecipare al nostro
corteo. Comunque cade la motivazione ufficiale del divieto, non essendovi più quella
contemporaneità
fra le due manifestazioni addotta come scusa dal questore. Il corteo, forte di oltre 3.000 compagni,
in prevalenza, anche se non tutti, anarchici imbocca via Torino:
come esso vi è completamente entrato si ha la carica, ai fianchi, di fronte, alle spalle (dove agisce
il
solito, congestionato vicequestore Vittoria). Nessun tentativo di disperdere pacificamente; piuttosto la
deliberata volontà di provocare il caos. Alcuni compagni hanno udito, prima dei fatti, agenti
picchiare
col manganello sugli scudi, ritmando "Oggi vi ammazzeremo tutti". L'attacco non è solo diretto
verso
i compagni, ma anche verso la folla che viene infatti colpita dai moltissimi candelotti lanciati ad altezza
d'uomo; sono donne, bambini, uomini con pacchi natalizi in mano; l'attacco è talmente folle che
persino
alcuni dei passanti reagiscono con pietre o col rinvio dei lacrimogeni all'azione dei militari, così
come
in via Larga piovono dalle finestre, su richiesta dei compagni, fazzoletti o altro che valga a nascondersi
dagli operatori della polizia. Di fascisti né ora né poi si vede traccia; essi sono
fronteggiati (ma, per carità non caricati, in piazza S.
Babila e danno poi luogo a disordini in corso B. Aires) e dispersi. Essi stessi lo confermeranno con un
volantino nei giorni successivi. E via Torino, come tutti sanno, porta in direzione opposta a piazza S.
Babila. Già in via Torino i carabinieri, veri protagonisti della giornata, usano le armi da
fuoco, anche se, per il
momento, sparando per aria (il che poi vuol dire all'altezza dei piani superiori delle case); alcuni
lampioni vanno in frantumi in questo modo. Gli automobilisti fuggono lasciando le macchine in mezzo
alla strada. Qui vengono raccolti numerosi bossoli. Agiscono poi anche nuove squadre di agenti in
borghese il cui preciso compito è quello di arrestare i compagni rimasti isolati.
Contemporaneamente
in piazza del Duomo vengono sparati candelotti lacrimogeni (prevalentemente di vecchio tipo, essendo
quelli nuovi, molto più tossici e dotati di un micidiale involucro di metallo, riservati praticamente
ai luoghi
dove non ci siano testimoni estranei ai fatti) dai piedi dell'Arengario fin dentro la galleria, dall'altro lato
della piazza, con un tiro curvo dalla traiettoria intenzionale. Di questi gas di nuovo uso va detto che la
loro tossicità è tale che ancora a due settimane di distanza molti compagni ne
sopportavano le
conseguenze, prevalentemente sotto forma di disturbi gastro-intestinali. Va ancora detto che
provocatori evidentemente predisposti hanno gettato, contemporaneamente all'inizio della carica,
alcune bottiglie Molotov dalle finestre di uno degli edifici di via Torino; la provocazione era così
evidente
che di ciò hanno parlato i giornali, mentre la questura ha taciuto. Una volta frazionato il
corteo i compagni, a gruppi, sono stati spinti in tutte le direzioni e non solo verso
la statale, soprattutto perché, pur sapendo che il Movimento Studentesco avevo offerto
l'università
come rifugio in caso di carica poliziesca, si è cercato a lungo di riaffermare il proprio diritto a
manifestare in un giorno così importante della recente storia italiana. Pochi gruppi perciò
sono confluiti
fra (non dietro) le file del servizio d'ordine del M.S. È proprio davanti ai cordoni degli
studenti che le "forze dell'ordine" ammazzavano il giovane
internazionalista Saltarelli; la ammazzavano coscientemente, intenzionalmente: un candelotto gli veniva
sparato nel petto da pochi metri di distanza. Pochissimi i testimoni che si trovavano nelle immediate
vicinanze: essi, ad ogni buon conto, venivano manganellati contemporaneamente al fatto, perché
non
vedessero. A questo punto il M.S. attestato sulle proprie linee di difesa fino a quel momento, era
coinvolto negli scontri, grazie anche a precise azioni di disturbo attuate dai carabinieri. Un plotone di
questi, probabilmente lo stesso che ha ucciso Saltarelli, rifugiatosi nel n.11 di via Larga, usciva dopo
alcuni minuti sparando intenzionalmente in tutte le direzioni. Soltanto in questo luogo sono stati raccolti
una cinquantina di bossoli; altri sono stati trovati sul lato opposto della strada e sono presumibilmente
quelli i cui proiettili hanno perforato le vetrine all'angolo fra via Larga e via S. Antonio. Altri fori di
proiettile sono stati fotografati nelle vetrate della Banca d'America e d'Italia, in un negozio in fondo a
via Torino (all'angolo con via G. G. Mora) e ancora altrove. Come si vede non si è trattato di
singoli
carabinieri in preda al panico (ma perché poi, se hanno i nervi così fragili, fanno questo
mestiere?).
Sono stati uditi da più d'uno anche colpi d'arma a ripetizione. Le cariche sono continuate
a lungo e in vari punti della città. Poi, una volta circolata la voce del
compagno morto, le forze di repressione si sono dapprima fermate e poi ritirate. Con la scomparsa
dell'aggressore ogni scontro è cessato.
15 DICEMBRE
Nell'anniversario della morte dell'indimenticato compagno Pinelli gli anarchici indicono un'altra
manifestazione. Circa un migliaio di compagni si riuniscono in piazza Cavour e da qui si recano alla
vicina questura. Temendo evidentemente niente di meno che un assalto all'edificio, il grande portone
è chiuso. Dietro, si vedrà dopo, due plotoni della celere in assetto di battaglia. Su questo
argomento
il "Corriere" ha deliberatamente mentito, parlando di "portone spalancato". È sempre difficile,
a quanto
pare, stabilire il grado di apertura delle porte e delle finestre di questo vecchio palazzo milanese. Qui
il corteo sosta circa cinque minuti in un impressionante silenzio; molti compagni alzano il pugno chiuso.
La tensione dei pochi funzionari schierati sul marciapiede è al massimo; lanciano sguardi di odio
contro
il fascio di rose gettato in terra, in omaggio al compagno morto, timorosi di raccoglierlo prima che anche
l'ultimo anarchico abbia girato l'angolo: infatti il corteo procede fino a via Larga, dove si
scioglierà. Ma
la tensione dei poliziotti si esprime anche in un grottesco episodio: essi scambiano un sacchetto di
plastica contenente rifiuti, scorto vicino a una macchina, per il pericoloso involucro di una bomba.
Zagari grida, concitato: "Chi si avvicina a quella macchina lo fa a suo rischio e pericolo". Attratta
così
l'attenzione dei presenti riesce ad ottenere che un pubblico abbastanza folto assista all'apertura, fatta
da un agente, con estrema cautela. Una conferma di più che è proprio la polizia a creare
i motivi del
disordine, inventando bombe, generando scontri che non si verificano mai in sua assenza, portando
insomma per ogni dove la propria carica di repressione, repressione effettuata per conto dei padroni
e subita persino dagli stessi repressori.
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