Rivista Anarchica Online
Al servizio di chi?
a cura della Redazione
Nove operatori sociali discutono il loro ruolo
Negli ultimi vent'anni si sono moltiplicate in tutto il mondo - dall'Italia alla Svezia, dall'America
all'U.R.S.S. - le figure dei cosiddetti "operatori sociali": educatori, psicologi, animatori del tempo
libero, assistenti sociali, infermieri di territorio, medici del lavoro operanti per Enti Pubblici. Prima
o poi, capita a tutti di incontrarne almeno uno: nella scuola dei nostri figli, in ambulatorio, in
fabbrica, in ospedale ecc. Verso di loro i vari gruppi della sinistra extra-parlamentare hanno un
atteggiamento contraddittorio: da una parte ostentano per il loro lavoro un'indifferenza ostile e
sprezzante, giungendo a definirlo "manipolazione del consenso", "razionalizzazione del sistema",
"chiacchiere funzionali al sistema"; d'altra parte ricorrono a loro per consigli tecnici quando non se
la sanno cavare da soli, quando - per esempio - un compagno ha una malattia psichica che non
guarisce con i discorsi e nemmeno con la pratica rivoluzionaria, quando un lavoratore soffre di silicosi
a causa dell'ambiente di lavoro, quando non si sa come organizzare un doposcuola.
In simili occasioni hanno verso il sapere tecnico degli operatori sociali una fiducia addirittura cieca,
acritica. Sembra a volte che quanto più incomprensibile risulti l'operato di questi tecnici, tanto più a
loro sembra altamente qualificato, espressione di una scienza tanto profonda da non poter essere alla
portata di tutti. Un simile atteggiamento, contraddittorio e pressapochistico, con le solite formulette
che liquidano tutto con due parole, si qualifica (o meglio, si squalifica) da solo.
Per parte nostra abbiamo rifiutato di abbandonarci a ragionamenti schematici, ritenendo invece
opportuno organizzare una tavola rotonda sull'argomento, alla quale hanno partecipato nove persone
tutte impegnate, pur con diverse funzioni, nel campo dell'assistenza sociale. Ecco l'elenco dei
partecipanti: Amilcare, recentemente dimessosi da 'Lotta Continua', viene da Como; Enzo e Stefania,
anarchici, sono di Milano; Clara e Pierantonio, anarchici, vengono da un capoluogo dell'Emilia rossa
(ci hanno chiesto loro di restare così "nel vago": temono per il posto di lavoro); Giampiero, marxista-leninista, sta a Milano; Giorgia, Luisa e Rita fanno parte di un gruppo femminista di tendenza
libertaria che opera a Milano. Dai numerosi interventi è scaturito il dibattito che riportiamo
integralmente in queste pagine e che, a nostro avviso, è ricco di stimoli tanto più validi in quanto
scaturenti da esperienze dirette di lavoro e di lotta.
In che cosa consiste il vostro lavoro? - Risponde per primo Amilcare, responsabile
dell'organizzazione del tempo libero a Como:
Amilcare: Devo organizzare doposcuola comunali, campi Robinson, colonie estive, libere attività per
bambini ed adolescenti del comune. Propongo iniziative, coordino il gruppo degli animatori, organizzo
le loro attività di aggiornamento culturale. In tutte queste attività ho cercato di farmi guidare dai
proletari del quartiere e dagli stessi bambini, certo con molte contraddizioni e difficoltà.
Stefania: Tutti incontriamo difficoltà, se vogliamo metterci veramente al servizio della classe operaia,
degli sfruttati: le amministrazioni di sinistra in realtà hanno deciso che cosa è bene per queste persone
e si oppongono ferocemente alla reale autogestione dei problemi da parte dei proletari. Noi (indica Rita,
Luisa, Giorgina, Laura) siamo tutte psicologhe, lavoriamo nelle scuole e nei quartieri. Il nostro dovere
ufficiale è quello di prevenire il disadattamento minorile, cioè quella forma di sofferenza del bambino,
dell'adolescente, che si traduce poi in insonnia, incapacità di mangiare, di giocare, di divertirsi con gli
altri, di capire quello che si legge, di sentirsi padroni di se stessi, di decidere liberamente, senza paure,
senza angosce tanto forti da farti sentire disorientato. È chiaro che questa sofferenza è presente più
facilmente in ragazzi con il sistema nervoso fragile o malato, ma ha soprattutto origine sociale, nella
violenza che viene fatta ai bambini e ai ragazzi in famiglia e nelle altre istituzioni, nell'incapacità degli
adulti di aprire un dialogo valido, di fornire strumenti solidi, anche se provvisori, per intervenire sulla
realtà e trasformarla a vantaggio proprio e del gruppo. Per questo noi cerchiamo di far prendere
coscienza dei motivi per cui si sta male, attraverso discussioni di gruppo, assemblee, collettivi, e anche
stimoliamo la gente a non subire, ma a cercare soluzioni quando una situazione non va. Appena però
sorgono queste soluzioni, gli enti dai quali dipendiamo ci spostano, o ci calunniano, o soffocano le
richieste.
Giampiero: A me questo succede meno, perché spesso sono appoggiato dai sindacati. Infatti sono
medico in uno S.M.A.L. (Servizio Medico Ambiente Lavoro), e come intervento devo discutere con gli
operai la situazione di nocività in fabbrica. Le assemblee e le richieste che ne vengono fuori sono quasi
sempre portate avanti dalle organizzazioni sindacali.
Clara: Anche quando sono contrarie alla strategia generale del sindacato?
A questa domanda Giampiero non sa rispondere, perché fa questo lavoro da pochi mesi: prima
era medico condotto in uno sperduto paesino di montagna dove l'autogestione della salute era più
che altro l'unica soluzione possibile, in assenza di ogni intervento pubblico. Clara, 28 anni,
educatrice in un collegio per bambini subnormali (spastici, ipodotati) dell'Emilia rossa, prosegue:
Come scopo ufficiale, ratificato anche dai sindacati, io dovrei "rieducare" questi bambini fino a renderli
capaci di rientrare nella società. Ne ho in affidamento quindici, alcuni incapaci di muoversi, e oltre alle
difficoltà oggettive di tenerli tutti puliti, ordinati, trovo continuamente bastoni fra le ruote: per portarli
fuori dall'Istituto (cosa che mi sembra essenziale per abituarli a vivere in società, no?) devo lottare ogni
volta; cambiare una maglietta sembra un problema... insomma, i compiti ufficiali del mio incarico non
li posso svolgere mai, perché metà del tempo lo passo ad accudire ai bisogni fisici dei bambini e l'altra
metà a litigare con l'amministrazione...
Enzo: Rossa?
Clara: Rossa, rossa come il fuoco, ma anche un po' democristiana.
Pierantonio, che è l'operatore più giovane fra quelli da noi intervistati, freme dalla voglia di dire
qualcosa. È responsabile di una comunità-alloggio, cioè di un gruppo di ragazze che sono state
per anni in un istituto per subnormali, e che ora sono state dimesse, hanno un lavoro, ma per
motivi vari non riescono ancora ad autogestirsi completamente.
Pierantonio: Non parliamo delle stupidate che fanno le amministrazioni in vena di compromesso storico.
Anche noi, intendo io e le mie ragazze, invece di occuparci di problemi importanti siamo sempre lì a
litigare per poter comprare una pentola o per spendere i soldi per una gita. E invece io vorrei aiutare le
ragazze arrendersi del tutto indipendenti, a fare la spesa, a difendere i loro diritti sindacali sul lavoro, ad
andare dal dottore quando ne hanno bisogno, senza chiedere a me che cosa devono fare, a pagare le
bollette, a gestire i loro bisogni sessuali, a prendersi la pillola, se lo vogliono, a fare un contratto d'affitto,
a frequentare degli amici senza correre il rischio di essere sfruttate come le sceme che pagano per tutti
o quelle che si prostituiscono se glielo chiedi. Ma per tutte queste cose manca tempo.
Interviene Enzo, un assistente sociale dall'aria timida, che non dimostra affatto i suoi trentadue
anni.
Enzo: Credo che farci perdere tempo per pratiche prive di senso sia un po' la tecnica di tutte le
amministrazioni. Ne ho avuta una prova quando lavoravo per l'E.C.A. e ne ho la conferma adesso che
lavoro per un grande ospedale. In pratica un assistente sociale dovrebbe far di tutto, dal dire al paziente
come sbrigare una pratica amministrativa al trovare con lui un lavoro più adatto o un alloggio più
salubre, al fare conferenze sul come prevenire le malattie, all'organizzare un lavoro sul territorio. Però
ti fanno perdere metà del tempo in relazioni, telefonate, ricerca di un locale dove fare i colloqui, richiesta
di cartelle cliniche e così via.
Nel parlare del vostro lavoro avete già quasi tutti accennato alle difficoltà che incontrate, tranne
Amilcare che si è attenuto alla domanda, forse perché è stato il primo a rispondere. Ora vorrei
che chiariste proprio questo aspetto della vostra attività: trovate o no lo spazio per un intervento
che non contrasti con le vostre idee, che cioè non sia contrario alla crescita delle persone in senso
rivoluzionario? Oppure l'unica possibilità che avete in questo senso è quella di boicottare i vostri
enti lavorando il meno possibile?
Stefania: La tua domanda è interessante, perché indica già una mentalità con dei pregiudizi. Infatti se
tu ci considerassi quali siamo, cioè scienziati e tecnici, come sono scienziati e tecnici, che so, il biologo,
il ragioniere, l'ottico, l'ingegnere, non ti sarebbe mai venuto in mente di chiederci se troviamo spazio per
le nostre idee o se il nostro lavoro è funzionale al sistema. Perché la gente tende a dividere le cose
materiali, i conti, le cellule, le lenti, la costruzione di una casa, dalle cose meno tangibili, come la fame,
il bisogno di avere una casa, il bisogno di esprimere le proprie idee, il bisogno di dormire, di essere felici,
di sentirsi liberi. Invece sia il lavoro dei tecnici "concreti", che il nostro subisce le stesse contraddizioni.
Il sistema smetterebbe di funzionare solo se noi, tutti di colpo e d'accordo, smettessimo di lavorare.
Funziona per il lavoro di tutti noi. Siamo tutti funzionali al sistema, e d'altra parte gli sfruttati hanno
bisogno anche del nostro lavoro.
Giampiero: Io come medico di fabbrica credo di essere più pericoloso dell'ottico e del ragioniere. Il mio
rapporto con gli operai di una fabbrica può convincerli che stanno bene o che stanno male, mentre il
rapporto con l'ottico può al massimo concludersi piazzando un altro paio di occhiali sul loro naso.
Pierantonio: Dipende, io credo, dagli spazi che ciascuno di noi si prende: con gli "utenti", che sono
sfruttati, noi abbiamo certo rapporti più profondi dell'ottico e del ragioniere, e quindi la nostra possibilità
di prendere coscienza con loro è maggiore. Con gli Enti invece devi lottare come e più di quanto non
faccia l'ottico con il suo datore di lavoro, indipendentemente dalla natura dell'Ente stesso, cioè devi
lottare sia se è un Ente privato che se è pubblico.
Enzo: Certo, adesso i servizi di assistenza, di cura dei malati, di tempo libero, di psicologia tendono a
non essere più in mano ai privati o ai preti, perché vengono man mano riassorbiti dagli Enti Pubblici:
Stato, Provincia, Regione. All'inizio sembra che qualche cosina cambi, ma poi ti accorgi che la sostanza
rimane la stessa: una grossa speculazione.
Quando aprivano i vari Cottolengo, cronicari, ospizi, oratori, ritiri spirituali, i privati e i preti
speculavano su un sentimento spontaneo, la solidarietà umana, per raccogliere elemosina e fare proseliti.
Adesso i partiti e lo Stato con i suoi organi periferici mirano a gestire loro la solidarietà, sempre per
interessi loro: materiali e politici. Materiali, perché chiudendo o isolando il malato, il pazzo, il vecchio,
offrendo momenti ricreativi programmati e psicologi scolastici, lo Stato riesce a non affrontare problemi
drammatici, quali il diritto al lavoro, alla casa, alla salute, alla felicità per tutti. Politici, perché la
"sistemazione" del bambino, del vecchio, del pazzo, è sempre un fiore all'occhiello dei vari assessori, o
partiti, o deputati, quando addirittura non diventa un serbatoio di clientela.
Io credo che il nostro compito sia quello di riprendere in mano i problemi che sono delle masse
subalterne e tentare di elaborare una cultura diversa.
Giorgia: Io credo che tu corra troppo, dimenticando che non sempre c'è questo spazio. Quando lavoravo
in Ospedale Psichiatrico ero isolata e in pratica non mi potevo collegare con nessuno. Ora dipendo da
un Comune e per questo nuovo lavoro ho idee un po' confuse. Forse in generale il dovere del tecnico
sociale è quello di far esplodere le contraddizioni nascoste, rompere situazioni di stasi, di apparente
equilibrio...
Clara: Ma questo spesso non lo puoi fare se lavori in Istituzioni chiuse, totali, quali i manicomi o gli
istituti speciali, e se in queste istituzioni sei isolata.
Io, ripeto, devo sbattermi per conquistare ai ragazzi dei diritti fondamentali, minimi: quello di cambiarsi
la maglietta anche se non è domenica né lunedì, quello di non far lavorare i più grandi senza assunzione:
In Istituto c'è una ragazza grande, una ricoverata, la Carmela, che fa le sue otto ore di lavoro, come una
normale inserviente, ma le danno 10.000 lire al mese, senza assicurazione, senza mutua. Certo, ora non
picchiano più i ricoverati, ma li trattano da deficienti più di prima. Il sistema è violento come prima, solo
che ora la violenza è mascherata. Ho sentito una collega dire a un bambino: "Se si usasse ancora ti
manderei in manicomio, adesso che anche qui c'è il manicomio, ti porto a farti dare un sedativo".
Pierantonio: È un atteggiamento presente in tutti, perché sono tutti autoritari, anche i comunisti
"classici". Non per niente certi proletari dormono ancora sotto la foto di Stalin! Appena uno si scosta
dalla norma gli tolgono il diritto di parola. Io e le ragazze cerchiamo di riprendere questo diritto, di far
capire quello che loro vogliono, i loro bisogni.
Enzo: Spesso agli utenti non è chiaro che hanno diritto di essere ascoltati, di chiedere che i loro bisogni
vengano risolti collettivamente, che nessuno fa un piacere a un altro concedendogli di mangiare,
lavorare, discutere, proporre, inventare.
Luisa: Devono essere gli utenti ad affermare questo diritto. Tu puoi aiutarli a prendere coscienza,
prospettare soluzioni ottimali, ma siccome queste soluzioni non hai il potere di metterle in pratica, di
cambiamenti non ne puoi fare. Invece gli utenti ti lascerebbero in mano tutto...
Giorgia: Quindi dobbiamo doppiamente rifiutare questa delega: prima di tutto perché è inutile, nel senso
che se tu proponi come tecnico dei cambiamenti all'Ente, l'Ente decide i cambiamenti che vanno bene
per lui e non per la gente, e poi perché se ti metti a lottare da solo, la tua lotta viene riassorbita.
Pierantonio: È fondamentale non creare aspettative che comunque non troverebbero risposta da te, ma
far vedere chiaramente chi è la controparte. Per esempio le ragazze brontolavano che non si vive in 12
con 300.000 lire al mese, e allora siamo andati tutti insieme a dirlo all'assessore.
Luisa: Certe volte la tua presenza di tecnico dà coraggio. Le maestre della scuola dove lavoro si sono
opposte all'atteggiamento reazionario del direttore, con un documento scritto, ma l'hanno fatto perché
il documento l'ho firmato anch'io.
Laura: Di fronte a quello che dite io sono depressissima, perché io non riesco affatto a far scatenare
queste contraddizioni.
Rita: Anch'io ho l'impressione di poter fare poco o niente, perché mi sento isolata, con compagni di
lavoro che sentono più il problema tecnico che quello politico...
Molte volte avete accennato ai rapporti con i compagni di lavoro. Come li avete impostati?
Amilcare: Per me questo è un disastro. Per una serie di motivi erano stati assunti dal comune molti
compagni del mio gruppo politico. Bene, loro tiravano a lavorare il meno possibile, oppure a fare cose
autoritarie o banali.... Addirittura piantavano lì un'assemblea di bambini o di gente del quartiere per
correre a una riunione politica. Mi sono permesso di criticarli e mi sono sentito dare del traditore, del
venduto al PCI o al PSI, cioè agli assessori. Così sono isolato a combattere perché i proletari vengano
serviti, solo, tra il PCI da una parte e i "compagni"...
Clara: Da noi, anche, non trovi la solidarietà dei compagni di lavoro, ma per un altro motivo: che in
Emilia tutto, ma proprio tutto, è PCI: ovunque mi guardo in giro, immenso PCI ti veto.
Nell'amministrazione, nella direzione, fra gli assistenti, fra gli inservienti, nei sindacati, nei quartieri e in
tribunale. E sono tutti obbedienti, tutti d'accordo.... Non c'è più l'interesse dei ragazzi, quello dei
lavoratori: c'è l'Interesse del partito. Sai qual è adesso la mia paura? Quella di perdere la capacità di
ribellarmi. Perché integrarsi è molto più comodo.
Giorgia: Per noi psicologi, l'integrazione è stato il modello dominante. Noi siamo stati addestrati per
essere pacificatori, mediatori. Ci hanno detto che il compito degli psicologi è quello di risolvere i
conflitti, di mettere tutti d'accordo, non quello di aprire delle spaccature.
Luisa: Certo, far finta che tutti ci vogliamo bene, non scavare dietro la facciata, mediare le
contraddizioni è un modo di lavorare più rassicurante, ti fa sentire in pace con te stessa...
Pierantonio: Invece di aprire un conflitto, quando sei isolato, ti impone un lavoro che è al limite delle
tue forze.... Devi fare un sacco di cose, se non le fai ti senti in colpa e finisci con l'investire tutto nel
lavoro, con il lasciar perdere affetti, amicizie...
Giorgia: Come donna poi vivi un'altra contraddizione, quella di perdere la tua femminilità. La nostra
società infatti vuole la donna come colei che risana le ferite sociali, la pacificatrice. Di solito le persone
con le quali lavori, le infermiere, le inservienti, le insegnanti, sono ben identificate con questo ruolo, e
ti rifiutano se fai altri discorsi.
Clara: Ma ci sono anche altri problemi: i turni di lavoro, che non ti permettono di incontrarti, la divisione
fra chi è di ruolo e chi no, il sindacato, che ha il problema della cogestione, che fa la pastetta con le
amministrazioni, che castra ogni iniziativa di base, che ha il terrore dell'autonomia dei lavoratori.
Enzo: Ora non puoi nemmeno sfidare i sindacati apertamente, ma fare un lavoro di base perché i
compagni di lavoro si rendano conto che il sindacato è venduto, è da sostituire.
Rita: Per me il collegamento con i vari operatori è qualcosa di misterioso...
Georgia: Dipende dal tipo di operatori... È cretino fare un collegamento di psicologhe, finiresti per
chiuderti in un gruppo di elite...
Stefania: Ma sono operatori anche gli infermieri, gli inservienti, le mamme che curano i bambini
subnormali, i bidelli... Siamo un esercito.
Clara: Saremo un esercito, ma disperso. Dove ti colleghi per non essere strumentalizzata? Dove vai a
sbattere? Dove c'è un discorso collettivo?
Laura: Noi abbiamo cominciato a riunirci fra persone che lavorano sullo stesso territorio.... All'inizio
per conoscerci, poi per denunciare con gli utenti le carenze della zona.... Ora inspiegabilmente questo
gruppo ha deciso di entrare nelle commissioni del Consiglio di Zona.
Stefania: Io credo che non siano questi spazi: sono spazi, questi, per la manipolazione del consenso. Io
credo che il collegamento vada cercato, difficoltà o no, fra i lavoratori e con i bambini, i malati, i ragazzi:
ho però una brutta esperienza al proposito.... Quella del gruppo che adesso è diventato Psichiatria
Democratica, cioè una nuova scuola di psichiatria al servizio dei padroni rossi.
Georgia: Sì, una cinghia di trasmissione del potere. Ecco, io credo che tu, come operatore sociale abbia
uno spazio, ma devi decidere se col potere ci lavori o ti colleghi là dove il potere è stato tolto e deve
tornare, non certo per delle dittature, ma ridistribuito fra tutti.
Giampiero: E allora non ti colleghi con i baroni della medicina, anche se fanno dei discorsi di sinistra,
ma proprio con gli operai delle fabbriche, che ti parlano delle loro malattie.
Stefania: Anche se non ammazzi i presidi, non ti colleghi con loro, ma con i ragazzi. Non per dargli
sempre ragione, ma per prendere coscienza insieme. Tu puoi dire quello che sei, loro ti dicono quello
che vivono.
Amilcare: Non ti puoi certo collegare con l'assessore del PCI, anche se non sputi su tutto quello che
dice, ma solo su quello che è verticistico, autoritario. E nemmeno ti colleghi con dei "compagni" che
invece di servire i bambini tirano a far poco per avere uno stipendio. Per questo ti ho cercato, Stefania,
anche se non sono anarchico: ma ho bisogno di lavorare con voi.
Pierantonio: Credo che potremmo concludere che si può tentare un collegamento tra operatori
rivoluzionari.
Enzo: Con l'obiettivo di verificare: a) se almeno gli anarchici hanno una corretta visione dei problemi di coloro la cui alienazione è tale da
spingerli ai margini della società (malati, pazzi, minorati fisici, sottoproletari); b) se esistono modalità comuni di collegamento con gli utenti; c) se esistono modalità comuni di lotta contro gli Enti.
"I BISOGNI DEL BAMBINO NEL QUARTIERE - Ricerca e autogestione come risposta ai problemi
dell'alienazione" sono il titolo ed il sottotitolo di un volumetto uscito recentemente presso le Edizioni
Emme, nella collana pedagogica curata da Graziano Cavallini. Ne sono autori Enzo Ferraro (assistente
sociale, attualmente lavora come operaio al Policlinico di Milano), Stefania Orio (psicologa presso
l'Istituto di Psicologia dell'Educazione del Comune di Milano) e Luisa Tarantola (assistente psicologa
presso il medesimo Istituto): Enzo e Stefania sono militanti del movimento anarchico, Luisa è una
femminista di tendenza libertaria.
Nel riportare qui di seguito le conclusioni cui giungono gli autori del volume, segnaliamo che i tre sono
stati tra i partecipanti alla tavola rotonda sul ruolo degli operatori sociali il cui testo è riprodotto in
queste pagine di "A".
La nostra esperienza è troppo limitata per poter portare a conclusioni generali, ma in Zona 14
non è così. Non è che queste forze (i sindacati, il PCI, il PSI, le ACLI, i vari gruppi
extraparlamentari, n.d.r.) rifiutino per principio di interessarsi di questi problemi, ma lo fanno
solo dietro ordine del partito, o nell'interesse del partito, quindi nella logica di potere, che non
potrà mai condurre all'uguaglianza e alla libertà. Abbiamo visto più di una volta, anche nel libro,
che queste forze lottano per i proletari, non con loro. In ultima analisi si stabiliscono dei vertici
e delle basi, mantengono la differenza fra chi sa tutto e chi deve fidarsi, fra chi comanda e chi
ubbidisce, fra chi dirige la lotta e chi rischia la pelle sulle piazze, fra chi suda in fonderie e chi
passa il suo tempo al caffè Hardy, di fianco alla Lega Romana Metalmeccanici, a parlare di
problemi sindacali.
Questo modo di "lottare" può portare al potere un'altra classe dirigente, fatta per lo più di quei
proletari che hanno studiato e che hanno mostrato una vera dedizione al partito, ma anche
inquinata da intellettuali saccenti e da borghesi opportunisti che indottrineranno questi proletari.
In questo modo verranno fatte più case e più scuole, ma non verranno distrutti il potere e il
privilegio, quindi non verrà eliminato un conflitto di fondo, quello fra bisogno di autonomia e
potere: rimarrà l'alienazione.
I bambini meno conformisti, più ribelli, più desiderosi di esperienze nuove, di avventure, di
rischio, di vita, verranno guardati come pericolosi e trasformati in rigidi burocrati o pazzi. Noi
ci auguriamo che questo non avvenga ed individuiamo nella solidarietà, nell'autonomia,
nell'azione diretta degli sfruttati, nell'autogestione delle lotte, nella distruzione del potere, la
soluzione al problema degli alienati.
A noi sembra di poter indicare alcuni momenti essenziali nei quali combattere l'alienazione:
in famiglia, le donne e i bambini dovrebbero mettere in crisi sia la divisione del lavoro (per cui il
marito porta a casa i soldi e comanda, gli altri pensano alla casa e obbediscono) sia ogni forma
di autoritarismo;
nel caseggiato, si possono promuovere iniziative che cerchino di diminuire la gerarchia e la
rivalità, ad esempio, fra chi ha un buon lavoro, veste bene, ha la macchina, e chi è sottoccupato,
veste male e va in tram: si possono ridurre i costi collettivizzando certi servizi (la spesa,
l'accompagnare i bambini a scuola, il bucato ecc.) ed accordarsi per autoridurre il fitto, le spese
di caseggiato, le imposte;
a scuola si tratta di prendersi, come più piace, un sapere che risponda ai propri bisogni, dunque
di chiedere non l'indottrinamento ma la libera ricerca;
nel quartiere si deve giungere al controllo del territorio, alla gestione collettiva dei servizi sociali
(scuole, ambulatori, centri sportivi e culturali, mense) e alla loro conquista dove non ci sono;
in fabbrica l'obiettivo dovrebbe essere quello di controllare e dirigere la produzione e intanto
cercare di ridurre l'orario di lavoro e di unificare i salari;
negli Enti Pubblici (Ospedali, Enti Assistenziali, Tribunale dei Minorenni, Carcere, ecc.) si
dovrebbe mirare ad un progressivo smantellamento imponendo una gestione non istituzionale e
interna al territorio (ad esempio affidi, adozioni e focolari al posto di orfanotrofi e brefotrofi;
assistenza a domicilio al posto di ricoveri per anziani).
Ogni forma di politica di vertice, di dirigismo sindacale, di pseudopartecipazione dovrebbe essere
rifiutata, mentre si dovrebbero favorire la partecipazione reale, la rotazione degli incarichi,
l'autogestione.
|
|