Rivista Anarchica Online
Polizia alla sbarra (si fa per dire)
di Ugo Dessy
La magistratura di Padova ha spiccato mandato di cattura nei confronti di cinque
funzionari del NOCS (le "teste di cuoio" italiane), un commissario, un tenente, due
sottufficiali e un agente. Le accuse sono di sequestro di persona, violenza privata e lesioni
volontarie. La vittima è il brigatista rosso Cesare Di Lenardo, uno dei sequestratori del
generale Dozier che non si è pentito: tenuto in ostaggio dai NOCS per alcuni giorni è stato
sottoposto a tortura, scariche elettriche nei testicoli, finta fucilazione. I cinque agenti del NOCS - il fiore all'occhiello dell'apparato repressivo nazionale - pur essendo colpiti da mandato di cattura vengono "consegnati" in ospedali militari: il loro
stato di salute non consentirebbe la loro permanenza in galera, in quel luogo dove vanno
a finire i cittadini, anche soltanto sospetti, e dove, per un verso o per l'altro, non entrano
mai i membri della consorteria e i loro accoliti, anche quando si siano macchiati dei più
turpi delitti. Il giudice istruttore dispone perizie medico-fiscali per accertare se veramente
le condizioni di salute dei cinque poliziotti G. T. Special siano tali da non consentire loro
la sopravvivenza in regime carcerario. Una disposizione che vuole essere giuridicamente
seria e rigorosa ma che assume, con i fatti, il sapore di farsa. Fin qui la cronaca nuda e cruda del fatto. Che è eccezionale non perché la polizia
italiana, come tutte le polizie del mondo, sia esente dal commettere brutalità nei confronti
degli inquisiti, ma perché molto raramente fatti come questo vengono a galla e appaiono
alla luce del sole. In verità, stando non soltanto alle dichiarazioni delle parti lese ma alle
perizie mediche, alle fotografie scattate dopo gli arresti e alle ammissioni di agenti stessi,
anche altri terroristi o presunti tali sono stati sottoposti a violenze. Non ci stupisce dunque che accadano fatti del genere. E' arcinoto che le polizie di tutto
il mondo, in modo più o meno democratico, cioè in modo più o meno scoperto, usano
particolari modi e mezzi di "convincimento" per far confessare gli inquisiti, durante gli
interrogatori che, con il pretesto del segreto istruttorio, non sono mai pubblici. C'è tutta
una letteratura, che come genere va dal giallo a quello dell'orrore, che tratta specificamente
della questione, delle torture cioè che i cittadini subiscono negli uffici di polizia, nelle
caserme e nelle galere; ci sono a provare tale antico costume del potere numerosi documenti, alcuni di stessa fonte borghese, come gli Annuari sulla tortura di Amnesty
International. E ci sono, in particolare, i lunghi sanguinosi elenchi di cittadini, per lo più
oppositori politici, che non hanno retto al "trattamento" degli inquisitori e sono morti per
"massacro legale", fatto passare ufficialmente come collasso cardiocircolatorio o suicidio.
Da questi pietosi elenchi, che marchiano di perenne infamia il sistema di potere, stralciamo
due nomi, di un pastore barbaricino e di un anarchico milanese, che terroristi non erano
ma uomini onesti: Giuseppe Mureddu e Giuseppe Pinelli, ambedue "suicidati" dalla
polizia. Il caso dei cinque funzionari del NOCS ricorda per molti versi quello che viene ricordato come
i "fatti di Sassari". Alla fine degli Anni Sessanta, fatti passare da chi ne traeva profitto come "gli
anni ruggenti del banditismo sardo" venne mandato nell'Isola a sperimentare nuove strategie
repressive un corpo speciale di polizia, i baschi blù della Criminalpol, sotto la guida di brillanti
e ambiziosi funzionari che pur di ottenere successi e promozioni - come fu detto pubblicamente - non esitarono "a organizzare
sequestri e ad armare delinquenti". In provincia di Sassari il banditismo languiva; e così due
commissari e un sottufficiale, certi Juliano, Balsamo e Gigliotti, con altri rimasti nell'ombra,
catturavano, torturavano e ricattavano pregiudicati di piccola taglia per spingerli, insieme ad
alcuni confidenti all'uopo assoldati, a organizzare bande di rapinatori e sequestratori. Il pastore Umberto Cossa - uno della banda spacciato per pericolosissimo bandito - al quale
la polizia tenta di chiudere la bocca in un agguato, prima di costituirsi ai carabinieri va nella
redazione di un quotidiano e vuota il sacco. Alle rivelazioni del Cossa seguono le dichiarazioni
fatte al magistrato dagli altri imputati della fantomatica banda, che si dichiarano innocenti e
denunciano le torture subite dalla polizia. Qualcuno ne porta ancora i segni. Ammettono di avere
rubacchiato da qualche auto in sosta, ma negano categoricamente di avere avuto l'intenzione di
commettere rapine o sequestri di persona. Una parola dietro l'altra, saltano fuori le figure di due
continentali "che parlano con accento napoletano". I loro nomi, Gianni e Franco. Avevano
avvicinato la combriccola, vi si erano intrufolati e proponevano di mandare lettere estorsive e
di compiere rapine alle gioiellerie, alle banche. Vantavano, davanti agli sprovveduti ladruncoli,
un curriculum banditesco eccezionale. I magistrati - davanti all'evidenza - devono prendere per
buone le dichiarazioni degli imputati, dando incarico ai carabinieri di svolgere indagini sul caso,
che presenta macroscopiche contraddizioni e che è diventato ormai di pubblico dominio. La verità finisce per venire a galla almeno nelle parti essenziali: i "giovani leoni" della
Criminalpol per dimostrare l'efficienza della loro organizzazione, farsi belli e accelerare la loro
carriera, hanno fatto passare quattro sprovveduti ladruncoli per una pericolosissima banda di
criminali, addebitando loro gravissimi reati mai commessi. Per mettere in opera il macchinoso
disegno, i funzionari della Criminalpol hanno fatto venire in Sardegna due loro confidenti, già
collaudati in simili provocazioni, e li hanno inseriti nella combriccola per movimentare le acque
della criminalità, che a Sassari si mostravano troppo tranquille. Si sa: se il crimine non divampa,
che ci sta a fare un buon poliziotto? Intristisce. Il mandato di cattura per i commissari Juliano e Balsamo e per il sottufficiale Gigliotti - un
ordine perentorio e insindacabile - non verrà mai eseguito dai carabinieri. I magistrati sassaressi -
secondo ottimistiche valutazioni della sinistra legalitaria - che si sono spinti al limite estremo di
ordinare l'arresto (per altro mai eseguito) di alcuni "intoccabili", hanno mostrato un coraggio che
rasenta la temerarietà. Da ogni parte del sistema, parlamento, sindacati, chiese, partiti, si grida
allo scandalo: "Come?! Tanti banditi fuori e la polizia dentro?". L'avere pizzicato un poliziotto
con le mani nel sacco e l'aver tentato di applicare anche su di lui la legge è un evento così
straordinario che minaccia di far crollare tutto quanto. La gazzarra che ne segue, a livello di
potere, vuole ribadire due cose: l'intangibilità della polizia qualunque crimine commetta, e la
legittimità di mettere in galera, anche se innocenti, i pastori sardi, perché pregiudicati banditi. Dopo lo scoppio dello scandalo, il sistema si affretta a stendere coltri di silenzio. Poi prende
tempo. Il tempo, che è galantuomo per i poveri che in attesa di processo marciscono in galera,
per i ricchi e per i potenti è una gran puttana. Dopo anni, calmatesi le acque, il processo verrà
celebrato a Perugia per "legittima suspicione". Saranno presenti gli imputati sardi, torturati e
calunniati, e gli imputati della polizia, torturatori e calunniatori. I primi in stato di detenzione,
con le manette ai polsi. I secondi a piede libero, in doppio petto, ancora in servizio, stipendiati
dallo stato e con una coorte di grossi avvocati, anch'essi pagati dallo stato. F. S. Merlino, riferendosi alla realtà dell'Italia di cento anni fa, scriveva: "L'intangibilità della
polizia è diventata un canone del diritto costituzionale. Protetta nella persona dei suoi capi da un
privilegio speciale da ogni azione giudiziaria, difesa costantemente alla Camera da ministri
zelanti non della libertà e inviolabilità dell'individuo ma del prestigio e dell'autorità, essa gode
di assoluta impunità per tutti gli abusi e i delitti che commette col pretesto di salvaguardare la
vita e la libertà dei cittadini". Nelle voci "abusi e delitti" rientrano le torture, psicologiche e
fisiche, cui vengono sottoposti spesso i cittadini inquisiti. Sembrerebbe una menzogna codificata, quella per cui tutti sanno che la tortura è usata
sistematicamente negli istituti repressivi e di pena, ma nessuno ne parla e tutti fingono di non
saperlo. Anzi, si allontana, come scandaloso, anche il solo sospetto che un poliziotto possa dare
un "buffetto paterno" sulla guancia del giovane sovversivo "per metterlo sulla retta via" - un
sospetto che suona oltraggioso nei confronti della patria, della bandiera, degli eroi, dell'ordine
costituito e di tutte le altre sacre istituzioni. Quasi che i famigerati "interrogatori di terzo grado"
siano una caratteristica folclorica della polizia made in USA in lontani periodi "pre-democratici", quando i gangster davano una mano ai candidati politici per vincere le elezioni
presidenziali, e non siano invece normale prassi, connaturata a ogni sistema statalista che deve
reggersi e conservarsi sulla violenza delle armi, delle galere, della fame e del terrore in quanto
fondato sullo sfruttamento di molti e sul privilegio di pochi. In parole povere, le classi al potere
possono conservare i loro privilegi soltanto sfruttando il lavoro del popolo; e nessun popolo al
mondo accetta di farsi sfruttare se non viene piegato e sottomesso alle leggi di chi lo sfrutta: o
con il ricatto del bisogno o con un processo di lavaggio del cervello o con la forza bruta o con
tutte e tre le cose insieme, opportunamente dosate. Il fatto stesso che le polizie - come tutti gli apparati repressivi - siano armate, e usino queste
armi nei confronti dei cittadini che non ubbidiscono alle leggi, dimostra che esercitano una violenza, che va dalla semplice
intimidazione alla costrizione, fino alla eliminazione fisica. Una violenza che è tale
indipendentemente dai fini "giusti", "nobili" o "legittimi" cui possono appellarsi. A lume di
logica umana, un figliolo "disubbidiente" che riceve una buona dose di legnate dal genitore,
subisce obiettivamente una violenza, i cui effetti non sono diversi da quelli che subirebbe
"ingiustamente" se la stessa quantità di botte la ricevesse da un bandito a scopo di rapina. A
livello fisiologico, il corpo umano non sa distinguere tra violenza subita a fin di bene o a fin di
male: i danni sono gli stessi, e il morire per mano di un poliziotto che serve la patria e il morire
per mano di un bandito da strada sono, per chi muore, precisamente la stessa cosa. Dare peso
diverso a queste due morti è un assurdo: significa dare responsabilità diverse all'assassinio,
significa giustificare prima, legalizzare poi e infine premiere l'assassino. L'etica del sistema di potere giunge a nobilitare l'assassinio ricorrendo alle tesi machiavelliche
del fine che giustifica il mezzo - uccidere il corpo per salvare l'anima, dichiarava il tribunale
della Santa Inquisizione; o uccidere il nemico per salvare la patria, come dichiaravano i signori
della guerra. Ma la ragione, al contrario, ci dice che non c'è fine, per nobile e necessario che sia,
che superi in nobiltà e in necessità il diritto di ciascun uomo a esistere. In un sistema basato sulla coercizione, il ricorso alla violenza è prassi legale, di comune
amministrazione. In modo più o meno rozzo, con o senza paraventi umanitari, l'uso della tortura
è metodo inveterato di tutte le polizie, per estorcere confessioni di colpevolezza o per ridurre alla
ragione del più forte spiriti ribelli ed eretici. Negli anni caldi del banditismo sardo - per fare un
esempio in casa nostra - la polizia ha usato sistematicamente la tortura sui pastori barbaricini.
Che la tortura sia ancora oggi praticata su vasta scala all'interno di molte istituzioni (dalle carceri
agli istituti psichiatrici) lo dimostra anche la petizione internazionale presentata all'ONU nel
dicembre del 1973. Tale petizione, che si propone l'abolizione della tortura nel mondo, reca le
firme di oltre un milione di persone e, richiamandosi all'Art. 5 della Dichiarazione dei Diritti
dell'uomo ("Nessuno sarà sottoposto a tortura o a un trattamento inumano o degradante"), fa
appello alla Assemblea generale degli stati per "porre immediatamente fuori legge la tortura di
prigionieri nel mondo intero". Bisogna anche dire che le consorterie al potere se ne infischiano delle dichiarazioni umanitarie,
anche di quelle "ufficiali" da esse stesse timbrate firmate protocollate. Tanto è vero che la polizia
italiana, come tutte le polizie del mondo, continua a usare la tortura con la benevola tolleranza
dei governi. "E' raro che un individuo arrestato non sia picchiato in modo orribile. La parte del corpo cuì
gli agenti mirano di preferenza sono i fianchi. Là danno calci e pugni formidabili senza timore
di lasciare segni. Una guardia prende il prigioniero e gli tappa la bocca, un altro lo tiene fermo
per i piedi e due o tre pestano eroicamente sul ventre e nei fianchi del disgraziato ... Molti di
questi infelici più tardi muoiono...". Chi scrive con tanta cognizione di causa è un "addetto ai
lavori", un commissario di polizia, certo Giorio, in "Ricordi di questura" - pertanto non ci sono
motivi per non credergli. Scrive il Merlino, in "Questa è l'Italia": "Sulla tortura adoperata dalla polizia italiana come
strumento di giustizia abbiamo la testimonianza di prefetti, di procuratori, di magistrati e di
ministri. A Baronissi, presso Palermo, un carabiniere per estorcere una confessione a un detenuto
gli legò strettamente i piedi con una catena di ferro fino a far sprizzare il sangue, poi fece passare
nel nodo così formato una catena penzolante ad una barra fissata nel soffitto della stanza di
sicurezza, lo sollevò a testa in giù scuotendolo fino a che il poveretto perdette conoscenza. L'on.
Farina affermò, nel corso di una discussione provocata da questo episodio alla Camera dei
deputati, che alle sue rimostranze il comandante dei carabinieri rispose: "Non è nulla, e dopo
tutto non si è fatto che il proprio dovere". L'autore di quell'infamia non fu neppure allontanato
dal paese durante l'istruzione del processo". Tecniche e strumenti di tortura che si ritiene siano scomparsi con le segrete e gli incappucciati
della santa inquisizione, che ci vengono riproposti in certa letteratura alla De Sade e in certi film
dell'orrore, sono invece ancora usati, e certamente molto più di quanto non trapeli. Questa che
segue è l'allucinante testimonianza di un pastore sequestrato e torturato dalla polizia nel 1967. "Mi spogliarono completamente e mi distesero con la pancia in su e con le braccia aperte, strappandomi i peli delle parti molli e della pancia. Questo supplizio è durato a lungo e facevo
degli sforzi sovrumani per resistere. Visti inutili i loro sforzi mi misero quindi il corpo penzoloni
tenendomi le gambe inchiodate sul tavolo, mentre altri due mi tenevano i polsi torcendomeli.
Infine, mentre uno mi reggeva il capo, un altro mi apriva a forza la bocca pompandoci dentro un
liquido tremendamente amaro...". Il pastore sottoposto a questa medioevale tortura è Luigi Succu, di Orgosolo, fermato dai
carabinieri di Bonorva in relazione a un sequestro di persona. Egli si dichiara innocente.
Scaricato poi nelle mani dei poliziotti di Sassari, i "giovani leoni" della Criminalpol, ripete a
questi le sue proteste di innocenza. Non c'è il minimo indizio contro lui, però è pastore,
pregiudicato per estrazione sociale. Inoltre è di Orgosolo, "zona delinquente". Con la tortura il
Succu finisce per dichiararsi colpevole. Sottoscrive tutto ciò che vogliono pur di uscire da
quell'inferno e farsi chiudere in una prigione. Più tardi, disperato, tenterà il suicidio. La polizia
lo ha torturato, lo ha fatto processare dopo una lunga detenzione preventiva, lo ha rovinato
economicamente e moralmente. Prosciolto infine con formula piena dal magistrato, il Succu
denuncia i suoi aguzzini: il vice questore Grappone, il commissario Juliano e altri che abbiamo
visto implicati nei "fatti di Sassari". Molti fermati che hanno subito torture dalla polizia preferiscono tacere per evitare ulteriori e
peggiori guai. Come fra membri di cosche mafiose, così fra funzionari delle varie istituzioni del
sistema vige l'omertà. Non è mai accaduto che un magistrato, tra la versione di un cittadino e
quella di un poliziotto, scelga per buona la prima. Valga a questo proposito un caso fra i tanti,
apparso sulla stampa nel 1965. E' il caso di Franco Fadda, "un giovane di 24 anni, fermato dalla
squadra mobile agli ordini del dirigente commissario G. Corrias, nel corso delle indagini per la
serie di furti ad alcune gioiellerie di Cagliari e dei centri della provincia, che accusa gli uomini
della questura di averlo picchiato e maltrattato durante gli interrogatori nei locali di via Tuveri
(nella questura). A sua volta il dott. Corrias, nel rapporto conclusivo sull'azione di polizia
giudiziaria trasmesso alla magistratura, avrebbe denunciato Franco Fadda anche per calunnia,
resistenza ed oltraggio". Come dire: torturato e poi incriminato per resistenza alla tortura! Ma torniamo al fatto attuale, alle cinque "teste di cuoio", denunciate per sequestro di persona,
violenze e lesioni, che incriminate per questi delitti non hanno fatto un giorno di galera e che
rimesse in libertà provvisoria sono state immediatamente reintegrate nei loro ruoli, emolumenti
compresi. E' interessante vedere fino a quale punto l'intangibilità della polizia è mantenuta anche oltre
privilegi sanciti dalle stesse leggi. Ha detto testualmente Rognoni, censurando l'operato del
magistrato che ha incriminato i poliziotti: "Le misure giudiziarie non sembrano ispirate ad un
grado di equilibrio che un simile caso avrebbe richiesto ... La perplessità e l'amarezza per quanto
è accaduto non riguardano, ovviamente, la legittimità del procedimento giudiziario, al cui esito
ci dovremo senz'altro rimettere, ma esprimono un giudizio politico per gli effetti di
disorientamento e di inquietudine per i provvedimenti adottati". La sostanza delle dichiarazioni scandalizzate di Rognoni, e di altri difensori d'ufficio della
delinquenza del potere, è che non si mette neppure in dubbio che la polizia usi normalmente
violenza nei confronti degli arrestati (una prassi evidentemente dettata dall'alto); non si vuole
neppure deprecare, se non a livello accademico di richiamo ai "valori democratici", l'uso di
quell'incivile metodo di inquisizione che si chiama tortura; ma si vuole semplicemente evitare
di gettare discredito su una istituzione come quella della polizia di tanta utilità e benemerenza
nella salvaguardia del potere e dei privilegi delle classi dominanti.
|