Rivista Anarchica Online
Se una notte d'estate un anarchico...
di Luciano Lanza
Milano, domenica 11 luglio, ore 24. «Ce n'est qu'un début, continuons le combat». Il ritmo -
tanto caro ai miei orecchi - arriva da corso Buenos Ayres. Ricordi lontani, sensazioni assopite,
ebbrezze perdute si riaffacciano prepotentemente alla mente da quell'angolo nascosto, quasi
inconscio, in cui si erano sedimentate. Il sogno accarezzato in quel «mitico anno» riappare,
prende corpo e il cuore batte ancora al ritmo di quel magico slogan. Un brivido leggero sale
lungo la schiena, fino alla nuca, il respiro si fa corto. Quanto tempo è passato? Un secolo o forse
un istante, cos'è dopo tutto il tempo? Nostra rituale convenzione per separare, suddividere gli
accadimenti, ma sotto la convenzionalità del tempo trascorso i sentimenti pare non mutino se
un suono può cancellarlo in un attimo. Corro verso quel suono, verso il clamore che cresce sempre più, finalmente sono sul viale e
... un 'infinita tristezza mi prende inesorabilmente. Sciocco, ingenuo sognatore che continui a
voler vivere la tua utopia nonostante le cento sconfitte. Eterno bambino avviato verso i
quarant'anni. Cosa credevi? Cosa speravi? «La breve estate dell'anarchia» è sepolta, non è più
il desiderio di rivoluzione che spinge la gente in piazza. Non si manifesta più contro il potere,
contro lo sfruttamento, contro i padroni e i loro servi armati. No. Stanotte Milano - e così altre
cento città - è in festa perché undici giovanotti in mutande bianche, rincorrendo un pallone,
hanno vinto contro altrettanti undici giovanotti, sempre in mutande bianche ma con la maglia
di un altro colore. I volti, gli occhi di questa folla «festosa» mi lasciano sgomento. Falsa allegria, sguardi vuoti e
stralunati, sorrisi inesistenti. Perché gioite? Perché sventolate quelle bandiere, simbolo dello
stato e quindi del dominio? Perché vi abbracciate come fratelli, come compagni? Perché tu con
quella faccia da ragazzo di periferia sorridi e alzi le dita a V verso quel distinto signore, forse
un padrone? Non siete fratelli, non siete compagni, domani tornerete alla vita normale: tu alla
tua grigia esistenza, lui ai suoi problemi di «profitto». Rimango a lungo sul marciapiede, mentre il «corteo» continua a scorrere sotto i miei occhi,
inesauribile, sempre più festoso, sempre più eccitato. Forse non ho mai capito nulla della vita,
degli uomini, della società. Sono questi gli avvenimenti che «smuovono» la gente? E' una
vittoria al pallone che porta la gente in piazza? Pare proprio di sì. Difficile negare l'evidenza,
pur con tutta la buona volontà dell'ideologia. E allora cosa mi resta se non cercare di capire? Sì,
cercare di capire, dopo aver cercato di «dare la scalata al cielo» e aver constatato che il cielo è
sempre tanto lontano. Ma cosa c'è da capire? La «facile» sociologia dei costumi ce la
propineranno nei prossimi giorni i commentatori autorevoli, i furbi politici impegnati a
rincorrere il consenso, le puttane della penna che daranno dignità a questa penosa
manifestazione. Questo nazionalismo dal volto sportivo non mi piace, non posso farci nulla. «L'Internazionale, futura umanità ... ». Sì, è proprio «futura», l'umanità attuale gode nel
tripudio della vittoria, come hanno goduto gli inglesi per le Falkland riconquistate, come
godono gli israeliani per la «pace in Galilea». Non tutti, certo, qualcuno dissente, ma la
maggioranza ... Eppure il mio inguaribile ottimismo mi suggerisce che forse c'è qualcosa che
la triste occasione mi aiuta a scoprire. Questo «bisogno di identità», questo «senso della
nazione» forse non sono solo elementi negativi. Se mi fermo al lato apparente, la rabbia mi
impedisce un'analisi più serena, un 'effettiva comprensione. Il «senso di appartenenza» è vecchio quanto l'uomo sociale: il clan, la tribù non erano solo un
insieme di individui, ma uno «spazio simbolico» nel quale l'individuo singolo acquisiva il senso
della sua dimensione sociale. I confini del villaggio non delimitavano solo uno spazio
geografico, ma qualcosa di più complesso: definivano uno «spazio comunitario» nella accezione
più completa del termine. L'essere in quello spazio dava identità sociale al soggetto perché in
quell'ambito vigevano regole e norme attraverso le quali si costituiva e si riproduceva quella comunità. In questo modo la comunità
acquisiva senso per sé e dava contemporaneamente senso sociale ai soggetti che la
componevano. Un rapporto particolare si istituisce tra comunità e soggetto: un rapporto di interdipendenza
per cui l'una dà significato all'altro e quest'ultimo non «esiste socialmente» se non ha costruito
la prima. Da questo elemento costitutivo dell'uomo e della sua cultura bisognerà forse partire
per analizzare seriamente quel fenomeno che conosciamo sotto il nome di nazionalismo. Infatti
questo elemento che continua a riprodursi anche nell'uomo moderno, che a prima vista
sembrerebbe immerso in una dimensione internazionale, non può essere liquidato in modo
semplicistico, come è sempre stato fatto. La nostra (ma praticamente di tutta la sinistra)
propaganda internazionalista non ha mai seriamente attecchito. Nostra incapacità o forse
atteggiamento solo ideologico, solo politico, che non tiene conto di alcune caratteristiche
fondamentali dell'individuo, del gruppo. In questa ottica è possibile ipotizzare che il «senso di
appartenenza» sia un elemento costitutivo della cultura dell'uomo. Negarlo ideologicamente
significa non comprendere il problema e quindi non intervenire operativamente su uno degli
aspetti dell'uomo. Certo il nazionalismo è uno degli aspetti più odiosi dell'uomo: guerre, distruzioni, ecc. si sono
fatte in suo nome, ma resta da chiedersi se il nazionalismo non sia che una delle forme possibili
di manifestazione concreta di un elemento costitutivo dell'uomo. Quindi potremmo vedere il
nazionalismo come manifestazione determinata dalla società del dominio. Così ipotizzando, si
potrebbe ritenere che il senso di appartenenza abbia molte valenze, molte possibilità di
manifestarsi. Noi ne conosciamo solo una: quella formulata dalla società del dominio, ma non
è affatto sicuro che quella sia l'unica forma.
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