Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 103
estate 1982


Rivista Anarchica Online

Ma l'anarchismo è qualcos'altro
di Nico Berti

Ho già altre volte cercato di definire l'anarchismo con una sola parola: libertà. Mi ripeto ancora, aggiungendo però una nota didascalica in più, del resto anarchicamente ovvia: l'anarchismo si può definire come libertà, come continua, eterna possibilità della libertà, naturalmente se questa libertà si sviluppa nella misura in cui si esercita fino in fondo e continuamente la critica del principio di autorità. Questo è il punto: libertà di e libertà da, compatibili socialmente entro contesti storici dati (perché mai potrà esistere una libertà assoluta), ma come premessa e allo stesso tempo come risultato di una critica radicale del principio di autorità. Precisamente, la libertà si dà e si configura volta per volta entro i limiti di ogni società storicamente determinata, mentre la critica del principio di autorità si dà entro i limiti di una critica di principio, vale a dire, appunto, di una critica che esce per definizione da ogni contesto. Critica del principio di autorità vuol dire dunque critica di un principio che trascende ogni determinazione. In conclusione, l'anarchismo esprime sempre il punto più alto della libertà storicamente possibile, perché esercita per principio una critica del principio di autorità trascendente ogni contesto storicamente dato. Tutto ciò tradotto nel mio linguaggio vuol dire che il modo d'essere dell'anarchismo nella storia dipende dal modo d'essere dell'anarchismo contro la storia. Ora, se l'anarchismo è l'esercizio della critica del principio di autorità, che si traduce a sua volta in una pratica della massima libertà possibile entro un contesto storico dato, il problema «rivoluzione» non può essere assunto quale discriminante decisiva. Vale a dire che la rivoluzione non ha in sé, da un punto di vista anarchico, una fondazione ideologica propria. Essa si sviluppa o non si sviluppa nella misura in cui viene esercitata la critica del principio di autorità e la pratica della massima libertà possibile. L'anarchismo, per principio, non è rivoluzionario. L'anarchismo, per principio, è antiautoritario.
Non mi pare dunque che si possa porre per l'anarchismo il dilemma riformismo o rivoluzione (così come emerge, in un certo senso, dall'articolo di Marenghi), ma l'aut aut libertario o autoritario. Se non che, e veniamo al nocciolo della questione, è possibile esercitare fino in fondo la critica del principio di autorità, ricercando la massima libertà possibile, senza imbattersi nella strada della rivoluzione? Difficile, per non dire impossibile.
Ora la rivoluzione, e concordo quasi completamente con Marenghi, ha finora storicamente mostrato solo il volto reazionario: i suoi risultati infatti sono tutti di segno totalitario. Inoltre, essa non ha avuto da parte dell'anarchismo una risistemazione concettuale, perché il modo di vederla e il modo di sentirla anche di molti anarchici d'oggi, è un modo irrimediabilmente datato e ottocentesco. Da questo punto di vista l'anarchismo è in una grande impasse. Ma basta questa constatazione per liquidare definitivamente la rivoluzione quale conseguente pratica della critica del principio di autorità? Non mi pare.
Infatti, se è vero che la rivoluzione, in sé e per sé, non vuol dire nulla, o peggio, come afferma Marenghi, è addirittura intrinsecamente reazionaria, è anche vero che stiamo sempre parlando di una rivoluzione quale mezzo eminente di distruzione di una società vecchia per l'edificazione di una società nuova. La rivoluzione, insomma, come estrinsecazione di una pratica guidata da un progetto. Così finora è stato, così finora la si è concepita, così si vuol fare per l'avvenire. Ma questo è esattamente il contrario della rivoluzione intesa come estrinsecazione progettuale della critica di un principio, del principio, appunto, di autorità. Mentre nel primo caso la rivoluzione si autonomizza dentro un progetto, rendendo prigionieri di questo e questo solo progetto i rivoluzionari stessi che hanno messo in moto la rivoluzione, nel secondo caso viene a mancare completamente ogni possibilità di autonomizzazione della rivoluzione, perché non di un progetto si tratta, ma di una critica. Addirittura di una critica esercitata per principio. Domando: come fa ad avere esiti totalitari o autoritari una critica del principio di autorità quando essa viene esercitata proprio per principio? Risposta: è impossibile.
Non vi è dunque, a mio avviso, un esito univocamente necessitante della rivoluzione, se per rivoluzione si intende un modo d'essere della libertà fattasi esercizio attivo e radicale del principio di autorità. Sempre, beninteso, che si voglia scindere il progetto libertario della società - che deve essere sempre rivedibile e modificabile - dall'atteggiamento «ideologico» del rivoluzionario volto a realizzare tale progetto. In altri termini, mentre il progetto della trasformazione sociale non è destinato ad essere ancorato ad una, e ad una sola, visione rivoluzionaria della stessa trasformazione, il modo di porre la critica del principio di autorità - poiché critica di un principio e non di una determinata forma storica autoritaria - si risolve per forza sempre in un atteggiamento rivoluzionario. Dico «atteggiamento», modo di porsi e di valutare, di tutto ciò, insomma, che si oppone all'estrinsecazione progettuale della libertà. Ne risulta pertanto che questa può avvenire per gradi; non così invece la critica del principio di autorità, perché non esiste, per definizione, un modo graduale di fare la critica d'un principio che, si badi bene, e mi si perdoni il gioco di parole, è fatta proprio per principio.
In conclusione, perché non vi sia un esito univocamente necessitante in senso autoritario della rivoluzione, occorre dividere nettamente il progetto positivo della trasformazione sociale dal modo negativo della stessa trasformazione. Il che vuol dire che la critica è una e una soltanto (critica del principio di autorità) diversamente dall'edificazione di una nuova società - che può essere invece plurima. Non si vincola così l'intero progetto della edificazione sociale ad un modo specifico e determinante della trasformazione, anche se in sé e per sé la stessa trasformazione discende da una sola critica. In questa maniera si avrebbero pertanto tre piani: una critica universale del principio di autorità, un modo plurimo di esercizio di tale critica (vale a dire tanti modi conseguenti di essere rivoluzionari), un modo ancora più plurimo di edificazione positiva, svincolata e autonoma dal modo della trasformazione. Critica, trasformazione, edificazione: passaggi conseguenti, ma non dialettici, interdipendenti ma non totalizzanti.
Naturalmente tale visione comporta l'abbandono di ogni idea o progetto risolutivi, di ogni illusione di stringere in un unico nesso la critica, la trasformazione e l'edificazione, dato che l'esperienza storica ha dimostrato che i tempi della loro attuazione sono molto più lunghi e complessi di qualsiasi ipotesi pessimista. Ma la constatazione delle oggettive difficoltà, che vengono senza dubbio a frapporsi alla loro realizzazione, non può far recedere dalla constatazione della necessità di perseguire coerentemente e logicamente tutti gli effetti e tutte le implicazioni derivanti dall'esercizio della critica del principio di autorità, sola e vera garanzia del perseguimento senza posa dello sviluppo indefinito della libertà.
Capisco tuttavia che la puntualizzazione di Marenghi non può essere liquidata con l'esposizione «teorica» dell'idea rivoluzionaria, perché dietro questa mia presentazione coerente e lineare degli esiti sicuramente non totalitari della critica rivoluzionaria anarchica del principio di autorità, vi è il fatto assai concreto che gli anarchici non possono e, peggio ancora, non vogliono gestire positivamente la rivoluzione che da questa critica sicuramente scaturirebbe. Non vogliono - mi si perdoni ancora il gioco di parole - proprio per principio, non possono perché non hanno la forza storica per farlo. Così il negativismo anarchico risulta in tutti i casi la sola possibilità praticabile sul terreno rivoluzionario. Certamente, questo atteggiamento è da una parte suicida, ma dall'altra è anche l'unico e vero modo perché la rivoluzione non «degeneri» in reazione. Senonché il fatto obiettivo che gli anarchici non abbiano in tutti i casi la forza storica per gestire un tipo o un altro tipo di condotta, fa sì che l'anarchismo risulti allafine prigioniero di un circolo chiuso. In questo senso ha ragione Marenghi: gli anarchici hanno lavorato finora per «il re di Prussia» che, come tutti sanno, si identifica nel loro peggiore nemico: il comunismo marxista. Come si fa allora ad essere rivoluzionari, senza fare il gioco del totalitarismo bolscevico? La domanda, come si vede, non è di poco conto. Anzi direi che oggi questa è la domanda. Io credo che sia possibile o meno rispondere a questa domanda, ponendosi prima un altro quesito: l'anarchismo oggi è all'altezza di porsi proprio questo quesito? Risposta: no, non è in grado. Buona parte dell'anarchismo d'oggi deve ancora liberarsi da certe incrostazioni mitologiche assai ambigue, per non dire nefaste.
In tutti i casi da queste considerazioni ricavo la convinzione che non è tanto l'adesione o meno all'idea rivoluzionaria che può compromettere politicamente l'anarchismo, quanto il favorire (consciamente o inconsciamente non importa) il progetto generale marxista della conquista del potere. Infatti tale conquista non passa necessariamente per la via rivoluzionaria, per cui si può dare il caso di un anarchismo che fa il gioco del comunismo marxista pur rimanendo magari su un terreno del tutto gradualista, come vorrebbe proprio Marenghi.
Diversa è invece un'ulteriore chiave di lettura che parrebbe emergere dallo stesso testo di Marenghi: e cioè che l'anarchismo deve rimanere gradualista per non assestare colpi mortali all'edificio liberal-democraticoborghese che rimane comunque, di gran lunga, un male minore rispetto al totalitarismo bolscevico. Se è così, allora il discorso si fa molto più schematico perché Marenghi ci pone di fronte non più l'anarchismo come un soggetto principale del processo storico, ma come un ausiliario di uno dei due protagonisti che sarebbero comunismo e liberalismo. Ma questo è oggettivamente suicida.
Poste in tal modo le cose, il problema viene tutto spostato rispetto all'asse rivoluzione-anarchismo. Oppure diciamo che il problema rivoluzione non è più visto come un problema a sé, ma come elemento di un discorso assai diverso, che potrebbe suonare così: è opportuno fare la rivoluzione?
Ecco, io penso che a tuttaquesta serie di domande non si possa rispondere teoricamente, perché il vero problema non è teorico, ma storico-politico. Diciamo che oggi come oggi l'anarchismo non è in grado di rispondere, in concreto, a nessuna di tali domande, perché la sua forza storica si riduce a ben poco. Lavoriamo dunque per far maturare l'anarchismo su questo terreno, prima di abbandonare precipitosamente e completamente l'ipotesi rivoluzionaria. In tutti i casi domando a Marenghi: è possibile esercitare fino in fondo una critica del principio di autorità rimanendo dentro il terreno del gradualismo? Se sì, che mi dimostri come. Se no, non stiamo più parlando di anarchismo, ma di qualcosa d'altro.