Rivista Anarchica Online
Sulle orme della colonna Ascaso
di Tobia Imperato
Tra le centinaia di anarchici italiani subito gettatisi a capofitto nella lotta antifascista e
rivoluzionaria nel luglio '36, c'era anche lui. Quarantasette anni dopo quegli eventi, Vindice Rabitti,
bolognese, è ritornato lo scorso autunno a Barcellona, a Huesca e nelle altre località che nel '36- '37
costituirono il terreno di battaglia delle forze libertarie. Lo hanno accompagnato due giovani
militanti anarchici, Claudio Venza e Tobia Imperato: hanno registrato oltre 10 ore di intervista, che
si aggiungono ad altre interviste con vecchi militanti anarchici (Girelli, Bortolotti, Marzocchi, il
compianto Tommasini) videoregistrate in collaborazione con il Centro Studi Piero Gobetti di
Torino. In questo articolo uno degli «accompagnatori» di Rabitti ricostruisce le tappe e il clima del
loro viaggio davvero insolito.
La colonna italiana fu il primo contingente di volontari antifascisti stranieri giunti in Spagna. Essa
era composta da circa 120 uomini tra cui un'ottantina di anarchici e una quarantina tra repubblicani
e giellisti (militanti di «Giustizia e Libertà»). Subito dopo il golpe militare fascista spagnolo del 19 luglio 1936 vi fu una riunione a Parigi tra gli
antifascisti italiani in esilio per discutere il problema e decidere il da farsi. Mentre i rappresentanti
dei vari partiti (tra cui Luigi Longo per il partito comunista) si dichiararono disponibili solo per
l'invio di viveri e medicinali, gli anarchici e gli esponenti di «Giustizia e Libertà» sostennero la
necessità di organizzare anche la partenza di volontari. I compagni spagnoli non erano del tutto convinti della validità effettiva dell'apporto dato alla lotta
dal volontariato straniero e furono gli sforzi di alcuni anarchici italiani, già da diverso tempo in
relazione con militanti della CNT, che permisero alla colonna di combattenti antifascisti italiani di
giungere a Barcellona. La colonna volle mantenere la propria unità per dimostrare a Mussolini che i
compagni italiani, anche se erano stati costretti all'esilio, non avevano paura di combattere il
fascismo in campo aperto armi alla mano e fu incorporata nella colonna Ascaso della CNT. Il
comandante era Carlo Rosselli; i miliziani si suddividevano in fucilieri e mitraglieri comandati
rispettivamente da Bifolchi e da Angeloni; Berneri era il commissario politico e si occupava dei
rapporti con la CNT. La colonna combattè sul fronte aragonese per circa un anno; poi si sciolse
perché la maggioranza dei compagni si dichiarò contraria alla militarizzazione rifiutandosi di
rinunciare al proprio ruolo di rivoluzionari in lotta per diventare dei soldati in guerra. Questa per sommi capi la storia della colonna, ma vi è una storia più minuta, fatta di piccoli
episodi, di aneddoti, di sacrifici e di entusiasmi, che si intreccia con essa ed è la storia delle vicende
personali di quanti vi combatterono. Uno di questi è Vindice Rabitti. Insieme a lui percorriamo le
vie di Barcellona; ci parla del clima rivoluzionario che vi aveva trovato al suo arrivo, delle barricate
per le strade tenute con le armi dai militanti della CNT, della solidarietà che regnava, del «sentido»
libertario degli spagnoli, dell'entusiasmo che pervadeva tutti nella convinzione che si sarebbe
finalmente potuto abbattere assieme al fascismo anche la società capitalista e realizzare il
comunismo libertario. Appena arrivati essi presero alloggio in un Hotel sulle ramblas (oggi Hotel Continental) requisito
dalla CNT; dopodiché vollero subito recarsi, per portare una corona di fiori, alla caserma
Atarazanas dove, nel tentativo di conquistarla, era morto Francisco Ascaso. Questo gesto simbolico
era una dimostrazione della solidarietà degli anarchici italiani alla lotta del popolo spagnolo;
onorando la memoria di Ascaso, uno dei compagni più amati e stimati, caduto combattendo contro i
fascisti, si voleva riaffermare quella comunione di ideali che univa i libertari al di sopra delle
frontiere. I compagni furono subito acclamati e abbracciati dalla folla raccoltasi intorno a loro. Il proletariato spagnolo, in seguito ad un'attiva partecipazione degli anarchici alla lotta sociale, si
era formato una propria coscienza libertaria e aveva una chiara concezione dell'internazionalismo
rivoluzionario. Sintomatico di questo stato d'animo è il seguente episodio narratoci da Vindice:
quando egli, lasciando il fronte, si tratteneva per brevi periodi a Barcellona per svolgere qualche
incarico, talvolta avvenivano delle incursioni di aerei fascisti italiani e tedeschi; in questi frangenti,
se per la strada sotto i bombardamenti qualcuno si accorgeva dalla sua pronuncia che era italiano
spesso lo abbracciava dicendogli «Noi sappiamo che voi siete diversi e siete venuti qui per lottare
al nostro fianco». Dall'Hotel sulle ramblas la colonna si trasferì successivamente alla caserma Pedralbes (diventata
caserma Bakunin) per ricevere un breve addestramento militare prima di partire per il fronte. Qui,
mentre altri compagni continuavano ad arrivare dall'estero, venne svolto un intenso lavoro di
organizzazione soprattutto per ciò che riguardava il rifornimento di armi ed equipaggiamenti. Oggi questo edificio, al contrario della Atarazanas che è stata trasformata in museo navale, è
rimasta una caserma dove, a tutela dello stato franchista e post-franchista, è installata la Guardia
Civil. Ci avviciniamo e, con estrema cautela visto il clima repressivo che vige anche qui, scattiamo
qualche foto mentre Vindice ricorda l'impatto del primo momento che vi mise piede e subito si rese
conto della lotta cruenta che vi era stata per prenderla ai fascisti: dappertutto divise, bandoliere e
elmetti abbandonati, i muri e le scale sporchi di sangue. Dopo circa 20 giorni lasciarono Barcellona. Presero il treno fino a Grañien; durante il
percorso il convoglio venne ripetutamente fermato dalla popolazione dei vari paesi attraversati che
offriva frutta e viveri in segno di solidarietà. A Vicien stava il comando della «Ascaso»; da lì, dopo
aver ricevuto le necessarie istruzioni, avvalendosi dell'ausilio di alcuni muli per caricare il materiale in dotazione, con una marcia notturna raggiunsero il fronte. Bisogna premettere che la guerra non veniva combattuta su un fronte unito, ma vi erano alcune
località (città o paesi) in mano ai fascisti e altre in mano ai compagni, mentre i territori circostanti
erano occupati ora dagli uni ora dagli altri senza che ci fossero delle precise linee di demarcazione.
La fascia di fronte che spettò ai compagni italiani fu praticamente il tratto di strada che divideva
Huesca da Almudebar entrambe occupate dai fascisti: una punta avanzata del fronte antifascista.
L'attacco poteva venire da due parti, ma era strategicamente importante riuscire con ogni mezzo ad
interrompere le comunicazioni dei fascisti per impedir loro di consolidare il fronte. La zona dove la colonna prese posizione era una collina che per la sua aridità venne chiamata
«Monte Pelato». Nella pianura sottostante vi era una grande fattoria, di nome «Castillo S. Juan», di
proprietà di un latifondista; qui si installò il comando. In alto sulla collina, ai piedi di un cocuzzolo
alto una trentina di metri, passava la strada che univa Huesca ad Almudebar. Alcuni compagni erano stati costretti a combattere durante la I guerra mondiale e iniziarono quindi,
in base alla loro esperienza, a scavare trincee e a costruire fortificazioni di pietra per la prima volta
in Spagna. Venne scavato un trincerone, perpendicolare alla strada per potersi difendere nelle due
direzioni e vennero piazzate le mitragliatrici di cui due sull'altura che sovrastava la strada. Notevole
fu il contributo di alcuni compagni minatori del Valdarno, aderenti all'USI, per la loro abilità e la
loro perizia in questo genere di lavori. Il 28 agosto l'attacco fascista. Il numero degli attaccanti è rimasto impreciso, comunque dai 300 ai
600 sostenuti da un'autoblindo. La battaglia durò diverse ore, alla fine i fascisti furono respinti.
Nonostante la situazione fosse disperata per il mancato funzionamento di due mitragliatrici e al
«castillo» (dove era il comando) si temesse già di dover ripiegare, i compagni tennero duro e
resistettero senza cedere un metro di terreno. Questa battaglia vittoriosa fu molto importante e accrebbe notevolmente la stima e la simpatia degli
spagnoli per i compagni della colonna. Il fatto che circa un centinaio di combattenti, con pochi
mezzi a disposizione, avesse respinto un nemico di gran lunga superiore dimostrò, al di là di ogni
dubbio, la volontà dei compagni italiani di lottare fino all'ultimo per una causa che era anche la
loro. Ripercorriamo l'itinerario della colonna, accompagnati da un compagno spagnolo con un
furgoncino. Superiamo Huesca e solo dopo diversi tentativi riusciamo a localizzare il posto. Oggi a «Monte Pelato» è stata costruita una nuova strada che passa proprio sul luogo dove era il
trincerone e taglia un pezzo dell'altura che lo sovrastava; della vecchia strada non rimangono che
labili tracce, ma proprio a ridosso della nuova ritroviamo i resti di una piccola fortificazione a
semicerchio che proteggeva la piazzola di una mitragliatrice. Proprio dietro questo riparo si trovava
Vindice il giorno dell'attacco e da là con una delle due mitraglie che fortunatamente non si erano
inceppate aveva contribuito a respingere l'autoblindo fascista che avanzava. Qui una profonda emozione ci pervade. Nonostante la giornata piovosa che ci costringe ad
effettuare la registrazione sotto l'ombrello, Vindice riesce a compiere un balzo all'indietro nel
tempo di 46 anni trascinando anche noi. Non era stato certo uno scherzo, aveva visto morire
accanto a lui dei compagni che amava, aveva dormito per terra in condizioni malagevoli, mangiato
male, patito il freddo, rischiato la pelle, ma ora è di nuovo qui: è ritornato per rivedere i posti ma
serba ancora nel cuore il vivo ricordo della solidarietà del fronte, che si esprimeva nel pericolo e
anche in mille piccoli episodi della vita quotidiana, solidarietà che deve per forza unire degli
uomini accorsi volontariamente su un'arida collina aragonese per difendere, anche a prezzo della
vita, una rivoluzione sociale di ispirazione libertaria. Abbandoniamo la strada principale e per una strada non asfaltata raggiungiamo il «Castillo S.
Juan». Ritornato una tranquilla e sonnolenta fattoria, ha completamente dimenticato la tempesta di
passioni degli uomini che vi si avvicendarono. Qui era il comando, le cucine, il magazzino dei
viveri, un piccolo laboratorio per riparare le armi difettose. A proposito delle cucine Vindice ci parla di piccoli screzi avuti con GL. I primi tempi in trincea il
riso arrivava crudo, immangiabile; quando i compagni protestavano veniva loro risposto che un
combattente disciplinato doveva sapersi adattare a qualsiasi situazione e al limite stare anche senza
cibo. In quel momento però non vi era nessun motivo contingente per mangiare il riso crudo, la
causa era dovuta solo alla svogliatezza degli addetti al rancio. Gli anarchici, tra cui Vindice, si
imposero e sostituirono i cucinieri con compagni maggiormente consci delle loro responsabilità.
Nei dintorni del «Castillo» si trova anche un laghetto dove i compagni andavano a lavarsi e a lavare
quel poco di biancheria che avevano con sé. Anche per questo motivo vi erano dei dissapori con
GL, sostenitori di una concezione militarista dello scontro, che accusavano gli anarchici di essere
indisciplinati perché andavano a lavarsi senza chiedere l'autorizzazione. Su questo punto Vindice è
categorico: «andavamo due alla volta nei periodi di maggiore tranquillità, nel momento del pericolo
non scompariva nessuno ed eravamo tutti al nostro posto». Purtroppo la favola degli anarchici che abbandonavano le trincee per andare a farsi i fatti propri è
contenuta anche nella storia della colonna stilata da Magrini (Garosci) di GL, ma la contraddizione
è evidente. Se gli anarchici che costituivano i due terzi dei combattenti fossero stati veramente così
irresponsabili, come si sarebbe potuto vincere la battaglia di «Monte Pelato»? Un conto è la
coscienza rivoluzionaria che ti fa essere sempre al tuo posto quando è necessario, altro conto è la
disciplina imposta dal grado, dalle punizioni o dagli encomi. Queste calunnie sul comportamento
degli anarchici, successivamente gonfiate ad arte dalla propaganda comunista, sono soltanto una
ignobile mistificazione. Se il 19 luglio non si era permessa la vittoria completa dei militari era
soprattutto per merito degli anarchici. I comunisti erano solo un piccolo partito e le brigate
internazionali (vanto dei comunisti nostrani) intervennero solo alcuni mesi dopo. Nel frattempo chi
aveva tenuto a bada i fascisti? Proprio queste orde indisciplinate di anarchici che non avevano
superiori graduati ma solo dei compagni a cui veniva affidato il comando, non avevano divise
luccicanti e morivano senza ricevere medaglie, coscienti di giocare il tutto per tutto in difesa della
rivoluzione. Se il metodo anarchico di combattere non è sfociato nella vittoria finale, nemmeno
l'esercito regolare imposto dal governo della repubblica attraverso il decreto sulla militarizzazione
delle milizie ha raggiunto lo scopo. Anzi si sono soltanto aumentate le probabilità di sconfitta,
generando il malcontento e la demoralizzazione tra i miliziani. Ritorniamo indietro verso Huesca. Andiamo al «Castillo Ferrer» presso cui era di stanza un
ospedale da campo e vi stazionava un'autoambulanza dono dei compagni svizzeri, su cui
prestavano servizio medici volontari ticinesi. Vindice possiede una foto dell'epoca scattata davanti
a questa casa; a lato di un gruppo di compagni si legge chiaramente una scritta «CNT -FAI»,
avvicinandoci al muro ritroviamo come esile ombra lasciata dal tempo alcune di queste lettere.
Approsimandoci a Huesca incontriamo delle fortificazioni di pietra con delle feritoie per sparare, di
cui fu artefice Rivoluzio Giglioli, anarchico toscano morto in combattimento. Nei dintorni della
città vi furono degli scontri cruenti, in cui caddero diversi compagni, nel tentativo non riuscito di
conquistarla. Verso sera arriviamo a Huesca completamente fradici ma portando nel cuore un
«pezzetto» di «Monte Pelato». A Barcellona riprendiamo il nostro giro. Andiamo davanti all'edificio del Comité Regional CNT
/FAI in via Layetana, nel '36 punto di riferimento principale per tutti i libertari, nelle cui adiacenze
vi era un ristorante collettivizzato e una vecchia osteria, il cui proprietario era un simpatizzante
anarchico, dove i compagni italiani quando erano a Barcellona si ritrovavano la sera a bere il
«muscatel». La rivoluzione è fatta anche di questi momenti di quiete. Percorriamo via Layetana fino a Plaza del Angel dove era la casa di Berneri, in cui fu prelevato
dagli agenti di Stalin. Ultimamente i compagni di Barcellona avevano posto una targa sul muro ma
la «democrazia» del dopo-Franco non poteva tollerarla ed è stata rimossa. Qui parlando di Camillo
riaffiora il ricordo di tante lotte in comune, già in Italia, prima dell'avvento del fascismo quando
Vindice lo aveva conosciuto, poi in Francia dove gli anarchici, non avendo sovvenzioni da
nessuno, spesso digiunavano e dovevano arrabattarsi in mille modi per sopravvivere, facendo i
lavori più ingrati e mal pagati (a volte dovevano persino ricorrere alla pistola per farsi dare la paga
pattuita da padroni approfittatori che non volevano più assolvere i loro impegni). Dovevano lottare
contro le spie, i fascisti, la polizia francese, ostentando con fierezza la propria ostinazione a non
piegarsi di fronte al fascismo. Poi di nuovo assieme in Spagna, dove Berneri era morto non per
mano degli oppressori fascisti ma preso negli ingranaggi della controrivoluzione comunista che
pugnalava alle spalle la lotta contro Franco. Siamo in Plaza de Cataluña. Il 3 maggio del '37, la polizia al comando del comunista
Rodriguez Sala attacca la centrale telefonica gestita dai lavoratori in maggioranza aderenti alla
CNT. Per lo stato che si stava ricostituendo a scapito della rivoluzione era intollerabile che gli
anarchici controllassero le comunicazioni telefoniche. All'attacco i compagni rispondono col fuoco
e immediatamente, come il 19 luglio, sorgono le barricate in tutta Barcellona: da una parte gli
anarchici e il POUM, dall'altra i comunisti, la polizia e la destra repubblicana. La rivolta si
concluderà tragicamente con l'abbandono del conflitto per salvaguardare il fronte antifascista. I
comunisti ne approfitteranno per eliminare numerosi anarchici, i più famosi: Camillo Berneri e
Domingo Ascaso, fratello di Francisco, caduto in combattimento contro i fascisti. Vindice in quei giorni era qui a Barcellona. Il giorno dell'assalto alla centrale si trovava nella sede
del gurppo italiano «Errico Malatesta» in Plaza Urquinaona dalle cui finestre si vedeva il tetto della
centrale su cui correvano dei compagni con il fucile in mano. Nella stessa piazza, di fronte alla sede
all'angolo con via Layetana, vi era un locale delle Juventudes Libertarias; al risveglio del primo
giorno la rabbia e l'indignazione nello scoprire al posto della striscione della FIJL lo striscione della
GEPCI (un'organizzazione di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori di ispirazione
comunista): durante la notte la sede era stata assaltata e presa dagli stalinisti. Un altro episodio. Nei
giorni successivi, alla caserma Spartacus (oggi demolita), mentre Vindice e alcuni compagni
spagnoli stavano piazzando una mitragliatrice sul tetto, una fucilata proveniente dalla adiacente
caserma Carlo Marx uccide un compagno spagnolo. Subito telefonarono alla «Marx» ma da là negano di avere sparato. I compagni ispezionarono i paraggi senza risultato; il colpo poteva essere
partito solo dalla caserma comunista. Da questi ricordi riemerge lo sdegno e l'amarezza: «Se avessimo voluto, avevamo la forza di
prenderci Barcellona ma la CNT aveva dato l'indicazione di difendere solo le nostre posizioni senza
attaccare gli avversari. I compagni spagnoli erano convinti che, una volta sconfitti i fascisti, i
comunisti, numericamente inconsistenti, non avrebbero certo rappresentato una minaccia per gli
anarchici». Oggi di tutta questa straordinaria esperienza resta l'orgoglio di essere stati sconfitti in piedi e di
avere dato una spallata al vecchio mondo così vigorosa, di cui resterà per sempre il ricordo nella
storia dei tentativi di realizzazione delle aspirazioni egualitarie e libertarie dell'umanità. Per questo motivo ci sembra significativo dopo 46 anni ricostruire questi avvenimenti non solo
attraverso la storia ufficiale dei documenti e delle cronache ma anche attraverso la testimonianza
dei protagonisti che, anche se partecipi solo di avvenimenti limitati ai momenti e ai luoghi in cui si
trovarono ad operare, soli possono darci un'immagine reale delle passioni e dei sentimenti che li
animarono e incitarci a continuare la loro e la nostra storia.
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