Rivista Anarchica Online
Non mi accetto, dunque vivo
Ho letto sullo scorso numero la lettera di Giuseppe Vezza «No alla cultura della sfiga». Il titolo
incuriosisce. Avevo anche letto sul numero 106 (dicembre/gennaio) l'articolo di Paolo Arduino
«...Altro amor io preferia...»: alla fine della lettura di quest'ultimo avevo provato - e lo riproverei se
lo rileggessi - un sentimento di «non essere solo», un incoraggiamento; insomma, come se qualcuno
condividesse la mia volontà di cambiare, la mia «tensione etica di trasformazione», i miei sforzi ... la
mia vita. «...È necessario aver chiaro che essendo anche noi oggetto di repressione, siamo in qualche
modo, in qualche più o meno remoto anfratto del nostro cervello, nemici del progetto...»: sono sempre
stato di questo parere, del parere di Arduino e di tanti altri, spero, e la mia gioia di fine lettura mi
sembrava - e mi sembra - motivata. Non posso fare a meno di rispondere a Vezza, pur con le dovute
precauzioni, dato che la concisione con cui si esprime (motivi di spazio?) può avermi fatto fraintendere
il senso del suo discorso. La sua lettera mi ha lasciato perplesso, con l'amaro in bocca, preda del dubbio. Non che ciò mi
dispiaccia: ho fatto del dubbio la base della mia vita. Era l'amaro in bocca che non riuscivo a
sopportare. Vezza scrive: «qualche volta è preferibile accettare se stessi per quel che si è anziché vivere
nel logorio psicofisico di chi tende incessantemente ad essere migliore e così facendo non vive affatto
il presente bensì spera nella vita futura»; e parla di «rischio di diventare complessati cronici», di
«coscienza di Zeno», di «cultura della sfiga». Non sono d'accordo. Ciò che oggi mi salva dall'essere complessato cronico è proprio il non accettarmi, il «logorio
psicofisico di chi tende incessantemente ad essere migliore». Io non so come Vezza viva il suo «essere anarchico» oggi. Io lo vivo come un «tendere a diventare
anarchico», e l'incoraggiamento datomi da Arduino ha subito un duro colpo dalla lettera di Vezza. «Educare, purtroppo, vuol dire anche questo; abituare il fanciullo a convivere con la noia, abituarlo a
pensare al mondo senza piacere, convincerlo intimamente dell'impossibilità di unire il lavoro ad un
gioioso coinvolgimento (politica dei sacrifici e del dovere)». Volontà di incidere sul sociale: bene! Ma
in che modo? Come fare qualcosa di concreto, visto che «come anarchici di concreto non si fa niente?». «Costruire strutture alternative al sistema, dove poter vivere la maggior parte del proprio tempo e
crescere in coerenza»: bene anche questo! Quello che non riesco a capire è come Vezza possa
allontanare la «tensione etica di trasformazione» da tali strutture. O Vezza non ha capito Arduino o io
ho frainteso Vezza. Potrei anche aver frainteso Arduino - vivere il nostro tempo in tali strutture
alternative riuscirebbe poi effettivamente a farci crescere in coerenza? E il nemico che si annida in noi
stessi? Il nemico forse più tenace? Basterebbero tali strutture a snidarlo? Non sarebbe meglio
considerarle come centri di «tensione etica di trasformazione»? O dobbiamo continuare a considerare
i nostri sforzi come una coscienza di Zeno? Essere anarchici oggi, dopo la profonda e continua educazione impostaci, è una sofferenza. La volontà
di cambiare, il non accettarsi continuo, il continuo mettersi in critica, il vivere il rifiuto, l'immaginario,
l'utopia: tutto ciò allevia la sofferenza. Ma un anarchico soffrirà sempre in un mondo come quello in cui viviamo. Preferisco continuare a
snidare il tenace nemico: anche questa è la mia rivoluzione oggi! Perché ho paura che accettare se
stessi, seppur «qualche volta», per quello che si è, possa portare, un giorno, ad accettare anche ciò che
ci circonda. E allora ... Saluti anarchici.
Taso (Racale)
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