Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 110
maggio 1983


Rivista Anarchica Online

IRI STORY
di Luciano Lanza

O mi date tremila miliardi o chiudo bottega. Questo è in sintesi l'ultimatum lanciato da Romano Prodi, presidente dell'IRI, ai governanti.
La catastrofica situazione in cui versa la grande holding pubblica è arrivata ad un punto di non-ritorno. Le cifre del tracollo sono note: a fronte di un fatturato di 32.800 miliardi, l'Iri ha accumulato debiti per 35.000 miliardi che comportano un livello di interesse di 5.500 miliardi annui., Una tipica situazione prefallimentare, ma, considerato che lo stato non può fallire e che la stessa sorte è riservata alle sue imprese, l'Iri non fallirà pur continuando ad accumulare perdite che si traducono in un prelievo indiretto dalle tasche di tutti i cittadini.
L'intento di Prodi è di attuare una sostanziosa riorganizzazione di tutta la grande conglomerata e di eliminare, vendendole, quelle imprese non redditizie o non in sintonia con gli obiettivi generali. Si tratta in definitiva di un programma finalizzato al recupero di efficienza economica, al riequilibrio tra costi e ricavi per non contribuire ad accrescere il sempre più enorme baratro del deficit pubblico.
L'ideologia neoliberista sta progressivamente influenzando anche quelle imprese che sembravano inserite in una logica politica e non più economica. Infatti l'impresa pubblica in Italia, e quindi in primo luogo l'Iri, aveva accentuato negli ultimi dieci-quindici anni la sua indifferenza verso l'economicità di gestione. La funzione dell'impresa pubblica in questo lungo periodo di recessione economica è consistita essenzialmente nel creare stabilità sociale, mantenendo dei livelli di occupazione superiori a quelli che si sarebbero determinati secondo la logica dell'imprenditoria privata. Per di più la cinquantennale opera di salvataggio delle imprese abbandonate dai privati ha contribuito in sensibile misura ad accentuare questo carattere «politico-sociale» dell'impresa pubblica. Il fenomeno si era spinto così avanti che già da alcuni anni si riteneva non rilevante analizzare questo settore secondo criteri economici: gli obiettivi dell'impresa pubblica, si diceva a ragione, non rientrano nel campo dell'economia, ma in quelli più generali della politica. Ma il vento neoliberista spira sempre più forte e i manager di stato, uomini politici a tutti gli effetti, riscoprono l'efficienza, la concorrenza e il profitto.
Mutazione di non poco conto e che merita di essere valutata attentamente. C'è, infatti, un fenomeno a carattere internazionale che sta modificando sensibilmente uno dei cardini della legittimazione del dominio occidentale: la crisi del welfare state. L'impossibilità di continuare a riprodurre il consenso attraverso una politica assistenzialista, stante il persistere della crisi economica e dell'alto tasso di inflazione, ha spinto gli ideologi dello stato a formulare nuove teorie sociali che, modificando il contesto ideologico, permettano una diversa strategia dell'intervento statale. Da qui nasce la riscoperta e la rivalutazione dell'economia in parziale sostituzione del primato della politica.
Il fenomeno non interessa solo il mondo occidentale, ma investe anche i paesi del socialismo realizzato, soprattutto la Cina che con l'avvento al potere di Deng Xiaoping ha avviato un programma di riforme fino a poco tempo fa impensabile nel paese-della-rivoluzione-permanente. Sembra quasi che ci si trovi di fronte ad una di quelle epidemie influenzali che periodicamente ci affliggono. Il virus parte da un angolo remoto del mondo e progressivamente investe l'intero globo. In questo caso, però, il virus è di natura particolare e attacca una parte del corpo solitamente immune all'influenza: la mente. Il «virus dell'efficienza economica» sta dunque contagiando il mondo, i primi grandi malati si chiamano Reagan e Thatcher, oggi si è impadronito di Deng e di Andropov fino a raggiungere la mediterranea Italia. Ma il nostro clima sembra produrre validi anticorpi e infatti il virus stenta a prodursi in forma maligna. Questo però si è impadronito delle menti costituzionalmente più sensibili (o se preferite più deboli): gli intellettuali di sinistra. E infatti, chi più chi meno, fanno tutti a gara nel rivedere le loro posizioni. I più cialtroni, senza il minimo senso di vergogna, sono passati da un delirante statalismo a un forsennato liberismo. Quelli che conservano ancora un po' di buon gusto mostrano il loro imbarazzo per le tesi sostenute fino a ieri e, abbozzata una tiepida autocritica, si spingono nella nuova direzione divenuta moda imperante.
Il lettore a questo punto si domanderà se non sto andando un po' troppo il là: spingersi fino in Cina per analizzare una sortita del professor Prodi può sembrare infatti eccessivo. Evidentemente non posso che rispondere negativamente all'interrogativo retorico, perchè questa inversione di tendenza - in Italia peraltro solo ai primi passi - rappresenta qualcosa di rilevante per tutti gli irriducibili «nemici dello stato».
La riscoperta dell'efficienza e del profitto nell'impresa pubblica, insieme alle proposte di un suo ridimensionamento, non credo vadano interpretate come una flessione dell'intervento statale nell'economia. Sarebbe fuorviante il pensare ad una simile eventualità. Bisogna invece riconoscere che sta modificandosi la qualità di questo intervento. Dopo decenni di occupazione fisica di tutti gli spazi possibili, lo stato riconosce che superare certi livelli può comportare scompensi difficilmente sanabili: la società civile necessita di un grado minimo di autonomia per non cadere nella più totale abulia assistenzialistica. Il dominio e la sua forma istituzionalizzata - lo stato - si nutrono dei fermenti, delle innovazioni, della vitalità della società civile, cioè di quell'insieme eterogeneo costituito da padroni, manager, funzionari, tecnici, operai, contadini, giovani integrati o disadattati e sconvolti. Dunque non può inaridire la sua fonte di eterna giovinezza se non al prezzo di un radicale mutamento politico, ma l'esperienza del socialismo reale sembra aver insegnato qualcosa ai governanti degli stati occidentali.
La nuova tendenza emergente - qui si giustifica il riferimento iniziale a Prodi - assegna all'intervento statale una funzione dinamica che sappia limitarsi in estensione per acquisire maggiore incisività, maggiore slancio, in definitiva maggiore penetrazione. Piuttosto che una moltitudine di imprese ingovernabili, i tecnocrati italiani ritengono più conveniente averne un numero più ridotto ma dotate di efficienza, quindi in grado di meglio condizionare l'intero contesto socio-economico.
Nota finale parzialmente positiva. In tutti i processi di trasformazione si sviluppano correnti non in sintonia con l'indirizzo prevalente. Anche nel caso in questione si assiste a formulazioni che pur sviluppandosi nell'alveo della maggiore efficienza dello stato, fuoriescono dalle linee generali e si spingono verso una più sensibile delegittimazione dello stato in quanto tale. Questi teorici del liberismo radicale e dello stato minimo rappresentano, pur con tutti i limiti rilevabili da un'angolazione anarchica, un elemento da non sottovalutare perchè se non altro contribuiscono ad attenuare l'imperante credenza della necessità dello stato.