Rivista Anarchica Online
IRI STORY
di Luciano Lanza
O mi date tremila miliardi o chiudo bottega. Questo è in sintesi l'ultimatum lanciato da Romano Prodi,
presidente dell'IRI, ai governanti. La catastrofica situazione in cui versa la grande holding pubblica è arrivata ad un punto di non-ritorno.
Le cifre del tracollo sono note: a fronte di un fatturato di 32.800 miliardi, l'Iri ha accumulato debiti per
35.000 miliardi che comportano un livello di interesse di 5.500 miliardi annui., Una tipica situazione
prefallimentare, ma, considerato che lo stato non può fallire e che la stessa sorte è riservata alle sue
imprese, l'Iri non fallirà pur continuando ad accumulare perdite che si traducono in un prelievo
indiretto dalle tasche di tutti i cittadini. L'intento di Prodi è di attuare una sostanziosa riorganizzazione di tutta la grande conglomerata e di
eliminare, vendendole, quelle imprese non redditizie o non in sintonia con gli obiettivi generali. Si
tratta in definitiva di un programma finalizzato al recupero di efficienza economica, al riequilibrio tra
costi e ricavi per non contribuire ad accrescere il sempre più enorme baratro del deficit pubblico. L'ideologia neoliberista sta progressivamente influenzando anche quelle imprese che sembravano
inserite in una logica politica e non più economica. Infatti l'impresa pubblica in Italia, e quindi in primo
luogo l'Iri, aveva accentuato negli ultimi dieci-quindici anni la sua indifferenza verso l'economicità di
gestione. La funzione dell'impresa pubblica in questo lungo periodo di recessione economica è
consistita essenzialmente nel creare stabilità sociale, mantenendo dei livelli di occupazione superiori
a quelli che si sarebbero determinati secondo la logica dell'imprenditoria privata. Per di più la
cinquantennale opera di salvataggio delle imprese abbandonate dai privati ha contribuito in sensibile
misura ad accentuare questo carattere «politico-sociale» dell'impresa pubblica. Il fenomeno si era
spinto così avanti che già da alcuni anni si riteneva non rilevante analizzare questo settore secondo
criteri economici: gli obiettivi dell'impresa pubblica, si diceva a ragione, non rientrano nel campo
dell'economia, ma in quelli più generali della politica. Ma il vento neoliberista spira sempre più forte
e i manager di stato, uomini politici a tutti gli effetti, riscoprono l'efficienza, la concorrenza e il profitto. Mutazione di non poco conto e che merita di essere valutata attentamente. C'è, infatti, un fenomeno
a carattere internazionale che sta modificando sensibilmente uno dei cardini della legittimazione del
dominio occidentale: la crisi del welfare state. L'impossibilità di continuare a riprodurre il consenso
attraverso una politica assistenzialista, stante il persistere della crisi economica e dell'alto tasso di
inflazione, ha spinto gli ideologi dello stato a formulare nuove teorie sociali che, modificando il
contesto ideologico, permettano una diversa strategia dell'intervento statale. Da qui nasce la riscoperta
e la rivalutazione dell'economia in parziale sostituzione del primato della politica. Il fenomeno non interessa solo il mondo occidentale, ma investe anche i paesi del socialismo realizzato,
soprattutto la Cina che con l'avvento al potere di Deng Xiaoping ha avviato un programma di riforme
fino a poco tempo fa impensabile nel paese-della-rivoluzione-permanente. Sembra quasi che ci si trovi
di fronte ad una di quelle epidemie influenzali che periodicamente ci affliggono. Il virus parte da un
angolo remoto del mondo e progressivamente investe l'intero globo. In questo caso, però, il virus è di
natura particolare e attacca una parte del corpo solitamente immune all'influenza: la mente. Il «virus dell'efficienza economica» sta dunque contagiando il mondo, i primi grandi malati si
chiamano Reagan e Thatcher, oggi si è impadronito di Deng e di Andropov fino a raggiungere la
mediterranea Italia. Ma il nostro clima sembra produrre validi anticorpi e infatti il virus stenta a
prodursi in forma maligna. Questo però si è impadronito delle menti costituzionalmente più
sensibili (o se preferite più deboli): gli intellettuali di sinistra. E infatti, chi più chi meno, fanno tutti
a gara nel rivedere le loro posizioni. I più cialtroni, senza il minimo senso di vergogna, sono passati
da un delirante statalismo a un forsennato liberismo. Quelli che conservano ancora un po' di buon
gusto mostrano il loro imbarazzo per le tesi sostenute fino a ieri e, abbozzata una tiepida
autocritica, si spingono nella nuova direzione divenuta moda imperante. Il lettore a questo punto si domanderà se non sto andando un po' troppo il là: spingersi fino in Cina
per analizzare una sortita del professor Prodi può sembrare infatti eccessivo. Evidentemente non
posso che rispondere negativamente all'interrogativo retorico, perchè questa inversione di tendenza
- in Italia peraltro solo ai primi passi - rappresenta qualcosa di rilevante per tutti gli irriducibili
«nemici dello stato». La riscoperta dell'efficienza e del profitto nell'impresa pubblica, insieme alle proposte di un suo
ridimensionamento, non credo vadano interpretate come una flessione dell'intervento statale
nell'economia. Sarebbe fuorviante il pensare ad una simile eventualità. Bisogna invece riconoscere
che sta modificandosi la qualità di questo intervento. Dopo decenni di occupazione fisica di tutti gli
spazi possibili, lo stato riconosce che superare certi livelli può comportare scompensi difficilmente
sanabili: la società civile necessita di un grado minimo di autonomia per non cadere nella più totale
abulia assistenzialistica. Il dominio e la sua forma istituzionalizzata - lo stato - si nutrono dei
fermenti, delle innovazioni, della vitalità della società civile, cioè di quell'insieme eterogeneo
costituito da padroni, manager, funzionari, tecnici, operai, contadini, giovani integrati o disadattati
e sconvolti. Dunque non può inaridire la sua fonte di eterna giovinezza se non al prezzo di un
radicale mutamento politico, ma l'esperienza del socialismo reale sembra aver insegnato qualcosa ai
governanti degli stati occidentali. La nuova tendenza emergente - qui si giustifica il riferimento iniziale a Prodi - assegna
all'intervento statale una funzione dinamica che sappia limitarsi in estensione per acquisire
maggiore incisività, maggiore slancio, in definitiva maggiore penetrazione. Piuttosto che una
moltitudine di imprese ingovernabili, i tecnocrati italiani ritengono più conveniente averne un
numero più ridotto ma dotate di efficienza, quindi in grado di meglio condizionare l'intero contesto
socio-economico. Nota finale parzialmente positiva. In tutti i processi di trasformazione si sviluppano correnti non in
sintonia con l'indirizzo prevalente. Anche nel caso in questione si assiste a formulazioni che pur
sviluppandosi nell'alveo della maggiore efficienza dello stato, fuoriescono dalle linee generali e si
spingono verso una più sensibile delegittimazione dello stato in quanto tale. Questi teorici del
liberismo radicale e dello stato minimo rappresentano, pur con tutti i limiti rilevabili da
un'angolazione anarchica, un elemento da non sottovalutare perchè se non altro contribuiscono ad
attenuare l'imperante credenza della necessità dello stato.
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