Rivista Anarchica Online
L'utopia alle
spalle
di Stephen Schecter
Stephen
Schecter, anarchico canadese, insegna sociologia all'Università
du Québec di Montreal. È
membro dell'Anarchos Institute. Ha pubblicato
numerosi saggi, nonché il volume The Politics of
urban liberation (edito
da Black Rose Books). Alcuni suoi saggi sono stati tradotti in
italiano e pubblicati sulla nostra rivista e su Volontà. Schecter ha
partecipato alla sessione sull'imperialismo culturale,
nell'ambito del Convegno internazionale di studi su
tendenze autoritarie e tensioni libertarie nelle società
contemporanee (Venezia, 26/29 settembre 1984).
Pubblichiamo in queste pagine, nella traduzione di Michele Buzzi, la
sua relazione originariamente intitolata The
Real Rocky Horror Picture
Show: State and Politics
in Contemporary
Society ("Il
vero Rocky horror picture show: lo stato e la
politica nella società contemporanea").
Lo Stato è morto,
viva lo Stato! Questa esclamazione, contraddittoria all'estremo,
mostra ironicamente al mondo il riflesso deformato delle sue stesse
ambiguità. In pochi posti, relativamente circoscritti, la gente è
ben nutrita, alloggia in qualcosa di meglio delle baraccopoli e
dispone di stimoli in misura largamente superiore alle reali
possibilità di fruirne. Queste sono le aree in cui lo Stato è più
sicuro e in cui, di conseguenza, i cittadini non sono soltanto in
qualche modo isolati dall'esistenza sordida, miserabile e breve della
società civile libera, ma sono anche protetti dai rudi capricci del
principe moderno. Tuttavia.. tuttavia c'è ancora del marcio in
Danimarca, mentre oltre i suoi confini la storia stessa sembra andare
all'indietro. Avremmo potuto
credere che Auschwitz segnasse un punto estremo, invalicabile; invece
oggi, in molte parti del mondo, le pratiche sviluppate dai regimi
totalitari dell'Europa centrale sono diventati standard politici
comuni. Per i dissidenti che l'Unione Sovietica non è riuscita a
internare negli ospedali psichiatrici e nei campi di lavoro, il
Partito comunista ha riesumato un trattamento più tradizionale:
l'esilio. Forse in Occidente l'esilio è considerato una sorta di
libertà. Ma non bisogna dimenticare che è anche una forma di
esclusione politica, e nella società moderna l'esclusione politica
rappresenta spesso un primo passo verso lo sterminio. Prima di essere
dichiarati non-persone dai nazisti, gli ebrei furono dichiarati
senza-stato. Oggi gli esuli e i
profughi sono in procinto di acquisire uno status politico
istituzionalizzato. Le guerre nazionali di liberazione nell'Africa
orientale hanno creato come sottoprodotto milioni di profughi. Le
loro dimore fisse sono i campi situati nel Sudan e in Somalia, e i
loro benefattori politici permanenti sono gli Alti commissariati
delle Nazioni Unite (1). Ma il caso di questi profughi non è un
esempio isolato. Attraverso un lungo
processo di annullamento reciproco, che fa perno sul nesso tra il
popolo e lo Stato, gli israeliani e i palestinesi sono riusciti a
creare un conflitto politico pressoché insolubile (2).
L'autodeterminazione giustifica ii terrorismo, l'occupazione e la
negazione dell'altrui diritto all'umanità, la cui dimensione
politica è la cittadinanza. Ma questa non è l'unica ideologia. In
paesi radicalmente differenti, come l'Iran e la Cambogia, le élite
al potere si sono poste l'obiettivo di ristrutturare con la
mobilitazione un'intera società il che naturalmente significa
ristrutturare al tempo stesso milioni di individui (3). Le
conseguenze sono note: migrazioni di massa forzate all'interno,
tortura e repressione. E la tortura dilaga, di anno in anno, di paese
in paese, superando di gran lunga gli esempi del passato e le più
pessimistiche previsioni. Il Brasile, il Cile, l'Argentina, il
Guatemala, El Salvador e l'Uruguay sono soltanto alcuni dei Paesi in
cui la tortura, l'assassinio, l'arruolamento forzato, la
colpevolizzazione e l'intimidazione di massa e persino il genocidio
a livello locale sono praticati dallo Stato in forma
istituzionalizzata (4). Di tanto in tanto
si parla della democratizzazione di questi regimi, come si parla
della liberalizzazione del sistema sovietico o della trasformazione
dell'apartheid in Sudafrica; ma anche se queste non fossero soltanto
chiacchiere, trappole ideologiche, varrebbe ancora l'osservazione
pertinente di Keynes: alla lunga, saremo tutti morti. In tempi bui come
questi, è già une conquista il fatto di citare questi spettacoli
d'orrore e di protestare. Ma che significato ha questa crescita
abnorme dello Stato, e come la si può interpretare? A un certo
livello si è tentati di definirla come un fenomeno reazionario, come
l'ultimo grido di vittoria di quella parte del mondo che vive ancora
intrappolata nell'incubo hobbesiano del sottosviluppo, dove i regimi
autoritari, proprio a causa del loro massiccio ricorso alla violenza,
sono i segni caratteristici dell'instabilità politica.
A scuola di
tortura
Secondo questa
concezione della storia moderna, lo sviluppo dello Stato democratico
e del governo costituzionale è parte del complesso istituzionale
della cittadinanza, che ha le sue radici nel sedicesimo secolo,
periodo cruciale per lo sviluppo del capitalismo. Fu un processo
lungo e sanguinoso. Il movimento "dei campi chiusi" (exclosure)
sradicò i contadini dalle campagne, spingendoli al vagabondaggio e
favorendo la creazione di officine. Per circa un secolo,
l'industrializzazione capitalistica impoverì la classe lavoratrice.
L'abolizione dell'Ancien Regime fu un evento violento e sanguinario
non soltanto per le élite tradizionali, ma anche per le masse
recentemente affrancate. Inoltre, qualcuno sostiene che, laddove la
modernizzazione giunse più tardi, anche il fascismo tardò a
manifestarsi. Nel momento in cui
questo processo di sviluppo ebbe esaurito le sue forze, circa
cinquecento anni più tardi, si era già riusciti a limitare il
potere arbitrario del sovrano. Più o meno, i cittadini del Canada,
degli Stati Uniti, dell'Europa occidentale e del Giappone oggi sono
sottoposti all'autorità della legge e vivono in uno stato
assistenziale: l'aspettativa di vita alla nascita è aumentata, la
gente non vive sui tetti, si possono spedire pacchi attraverso le
poste con ragionevole fiducia nel fatto che i funzionari doganali non
ne rubino il contenuto. Ma non è stato
sempre così. Non lo è stato per la maggior parte della storia
umana, e probabilmente non lo è tuttora per la maggior parte dei
paesi sottoposti a regimi dichiaratamente repressivi. Secondo questa
prospettiva, la preminenza dello Stato nei paesi in via di
modernizzazione, ma ancora sottosviluppati, può essere interpretata
come un fenomeno transitorio di lunga portata, caratterizzata da
forme tradizionali di controllo sociale, che prima o poi si
riveleranno incompatibili con il corso del processo di
modernizzazione e del progresso, nei quali la storia si è imbarcata.
Di fatto, secondo la concezione funzionalista della storia moderna,
il particolare complesso istituzionale della democrazia statalista è
un prerequisito di quel processo innovativo sociale e tecnologico,
nell'ambito del quale la libertà e il progresso, per quanto
ambigui, sono sinonimi e di conseguenza rappresentano la tendenza
futura (5). Questa
interpretazione della storia può essere plausibile, tuttavia i segni
sono contraddittori e inquietanti. Anche tralasciando l'ammonimento
di Keynes, i meccanismi repressivi degli stati contemporanei
presentano scarse analogie con l'apparato statale degli antichi
regimi tradizionali: sofisticati e metodologici, sono strettamente
legati agli sviluppi della tecnologia e dell'ideologia moderna. Sono
estremamente raffinati non soltanto i mezzi di tortura, ma anche le
procedure psicologiche sulle quali si fonda la pratica della tortura.
Oggi esistono scuole di tortura, per la formazione degli aguzzini
(6). Ci si può ben
immaginare quale grado di sofisticazione psicologica richieda la
formazione di un torturatore, in un mondo che ufficialmente condanna
queste pratiche. Se i nazisti indottrinavano le SS puntando
soprattutto sull'ideologia e sull'isolamento totalitario, i loro
omologhi contemporanei devono considerare rozzi e obsoleti simili
metodi, soprattutto perché non sono efficienti. In questo senso, la
tortura è diventata parte della modernità. E l'ideologia non è da
meno. Il bispensiero e la
"neolingua" descritti da Orwell sono diventati parte del
linguaggio ufficiale un po' in tutto il mondo, e la sensazione di
averli già uditi non è soltanto un'impressione. Dopo il fallimento
della rivolta operaia in Germania, nel 1953, Brecht osservò
argutamente che si poteva trarre da quegli avvenimenti una chiara
lezione: era tempo di sciogliere il popolo e di eleggerne un altro
(7). Nel 1980 il presidente dell'Uruguay definì più o meno negli
stessi termini - come una sconfitta del popolo - il fallimento del
tentativo di ratificare attraverso un referendum popolare
l'istituzionalizzazione di una dittatura militare (8). La distanza
politica che separa i due eventi è ben dimostrata dal fatto che la
battuta più recente è stata pronunciata non più da un poeta, ma da
un presidente, e nel passaggio dall'uno all'altro ha perduto anche il
sapore dell'ironia. Questo tipo di
manipolazione ideologica trasforma politicamente la tortura in una
forma di repressione terapeutica. I regimi più stabili, benché
apertamente coercitivi, come l'Unione Sovietica o la Repubblica
Sudafricana, possono dunque usare la legge e la psichiatria per
celare il fatto che l'intera società si fonda su una struttura di
terrore (9). È una
struttura congenita, se così si può dire, e la rilevanza politica
di questo armadio pieno di scheletri risiede nella capacità dei
regimi di legittimare simili pratiche in nome di istituzioni sociali
tradizionalmente legate ai concetti di assistenza sociale e di
protezione.
Khomeini docet
Stiamo assistendo a
quella che forse è la più radicale sovversione, in senso negativo,
dei processi storicamente paralleli dell'assistenzialismo e del
controllo sociale, che hanno accompagnato e giustificato lo sviluppo
dello Stato moderno (10). Se è così, il fenomeno solleva gravi
interrogativi circa la natura stessa del progresso e dell'illuminismo
(del quale, si dice, il progresso è figlio), e circa le tendenze di
quello Stato moderno in cui finora gli elementi di controllo sociale
sono stati limitati. Forse, interpretando in senso amaro e ironico la
concezione marxista della società comunista, l'URSS rappresenta la
soluzione dell'enigma della storia, e mostra alle democrazie
capitaliste il futuro delle loro stesse contraddizioni. È un futuro che
passa attraverso i confini tradizionali tra "destra" e
"sinistra". Come le società del socialismo reale hanno usurpato
la posizione progressista borghese e l'hanno interpretata nel loro
processo di legittimazione, così le società emergenti e totalitarie
del Terzo Mondo hanno convertito l'ideologia socialista in una loro
Gleichschaltung tutta particolare. Il modello
integralista dell'Iran moderno è un esempio emblematico. I suoi
portavoce e i suoi apologeti presentano questa forma nascente e
indigena di controllo statale, che lega la tradizione religiosa ai
metodi moderni di repressione, come un modello legittimato di
modernizzazione o di critica alla società occidentale atea,
materialista e - verrebbe quasi voglia di aggiungere - borghese. Di
nuovo, la musica suona familiare, ma c'è qualche nota diversa nel
ritornello: la critica è implicitamente progressista, punta sulla
scarsa trascendenza della società occidentale e cerca di offrire un
modello alternativo di modernità. "Le grandi potenze temono
l'Islam, perché esso costruisce l'uomo totale" (Imam Khomeini). Il
progetto rivoluzionario non è quello di modernizzare l'Islam, ma
quello di islamizzare la modernità: una sfida sia al materialismo,
sia al razionalismo che caratterizza l'Occidente (11). Ciò
nonostante, il ritornello è infarcito di slogan che in altri
contesti sono stati definiti nazionalsocialisti: lotta al
decadentismo, antimperialismo, espansionismo, richiamo alla
mobilitazione totale. Se il fascismo può
tornare alla ribalta, e questa volta più esplicitamente
nell'ideologia della modernizzazione, come dobbiamo interpretare
l'esperienza del nazismo (12)? La storia non deve più essere
considerata irreversibile, e la Germania hitleriana non deve più
essere considerata soltanto uno degli incidenti del capitalismo, un
sottoprodotto del ritardo nello sviluppo e della specificità
nazionale. Il fascismo diventa una svolta errata, che viene imboccata
troppo spesso; una ricaduta nella barbarie, che rischia di
condizionare il nostro futuro e che - per fagocitamento o di rimbalzo
- minaccia di esacerbare quelle tendenze che avevano prestato il
loro ambiguo carattere alle forme di progresso ipotizzate dai
precedenti e più importanti progetti di modernizzazione.
Teoria e pratica
della "terra bruciata"
Tendenze analoghe
erano già presenti, seppur in forma embrionale, già nella
Rivoluzione francese (centro focale del progetto borghese), tanto
che il problema della Rivoluzione francese è ancora oggi il problema
dello stato moderno. La rivoluzione della libertà, dell'uguaglianza,
della fraternità produsse paradossalmente uno Stato centralizzato,
fondamento di una élite amministrativa moderna, di un'ideologia
universalista, dell'imperialismo moderno e del Terrore. Il
liberalismo, benché minacciato esternamente dalla questione sociale,
fu travagliato fin dall'inizio dalle sue stesse contraddizioni
interne. I rivoluzionari volevano rovesciare l'Ancien Regime, ma
volevano anche mantenere immutato il profilo politico del rapporto
tra governanti e governati. I cittadini presero il posto dei sudditi,
ma il potere politico rimase nelle mani dello Stato, e il progetto di
libertà e democrazia si fondò sul rifiuto da parte dei
rivoluzionari di istituire nuovi rapporti politici al di fuori delle
forme statali. Con questo perfido
stratagemma, il vecchio ordine perseguitò incessantemente il regime
rivoluzionario, portandolo a conseguenze indesiderate e infine
sabotando i successivi tentativi di arrestare il processo di
disgregazione e di fondare un nuovo ordine. Val la pena di ricordare
che inizialmente Robespierre si oppose all'idea di impegnarsi in una
guerra rivoluzionaria, e giustificò questa sua presa di posizione
con un'osservazione intuitivamente profetica, anche se poi egli
stesso ne ignorò le implicazioni più democratiche. "Secondo lui,
il centro di tutti i mali era Parigi, prima che Coblenza" (13).
Eppure i mali di Parigi non erano soltanto i controrivoluzionari e la
povertà delle masse, ma anche la possibilità di una democrazia
comunitaria e federativa, che fece la sua prima comparsa sulla scena
nazionale. Tuttavia, due anni
prima il regime rivoluzionario aveva già reso esplicita la propria
posizione dando vita a una delle prime elaborazioni ideologiche
destinate a sostituire le manifestazioni politiche "dal basso":
la Festa della Federazione del 14 luglio 1790. Concepita allo scopo
di assorbire le rivoluzioni municipali e federaliste che stavano
emergendo parallelamente al movimento a Parigi e a Versailles, la
Festa della Federazione rivelò simbolicamente la trasformazione
definitiva del momento rivoluzionario del 1789 nel suo sbocco
politico e ideologico: l'unione della libertà e del popolo tramite
lo Stato nazionale (14). Una volta congelata quest'unione, divenne
sempre più difficile risolvere le successive tensioni rivoluzionarie
senza compiere un ulteriore balzo in avanti, verso la modernità e
verso il terrore. A mano a mano che
si sviluppava la dinamica rivoluzionaria, lo spettro politico si
restringeva e le guerre tra le fazioni si intensificavano. Il popolo
e il suo benessere erano costantemente invocati sia come
ricompensa, sia come legittimazione. Di conseguenza, nessuna delle
fazioni poteva permettersi di essere pacifica, perché il pacifismo
era diventato sinonimo di controrivoluzione e di tradimento. Il
popolo, opportunamente e funzionalmente escluso dal processo
politico, si vendicò indirettamente delle élite costringendole ad
avventure politiche che si conclusero disastrosamente per entrambe le
parti. Quella che era iniziata come una guerra difensiva contro la
reazione europea si trasformò in un'avventura militare
annessionista, nel tentativo di imporre una repubblica universale a
tutti i popoli europei (15).
La difficile
analisi dello Stato moderno
La libertà,
inattuabile in patria, fu esportata all'estero. Il risultato fu il
saccheggio dell'Italia da parte di Napoleone, all'epoca del
Direttorio (16): l'ideologia e l'imperialismo si unirono, anticipando
le gesta dei regimi totalitari del XX secolo, delle squadracce
fasciste che rubavano le opere d'arte all'estero e delle armate
staliniste che imponevano alle sfortunate popolazioni dell'Europa
orientale una liberazione forzata. Come in epoche posteriori, anche
agli albori della politica moderna l'incapacità di risolvere le
tensioni democratiche non si risolve esportandole all'estero (17). Le
galline cacciate dal pollaio tornarono a razzolarvi, scatenando le
insurrezioni popolari dei sanculotti parigini e dei contadini della
Vandea: insurrezioni che provocarono da parte delle élite
rivoluzionarie una reazione paragonabile, retrospettivamente, alla
barbarie contemporanea. Ad esempio, il 25 maggio 1793, quando la
Comune di Parigi si rivolse alla Convenzione per chiedere la
liberazione di alcuni suoi leader, il girondino Ismard dichiarò che
ogni ulteriore sommossa avrebbe provocato la distruzione di Parigi,
tanto che neppure una pietra della città sarebbe rimasta in piedi
sulle rive della Senna, e tutto ciò in nome degli interessi
nazionali (18). Due mesi dopo una convenzione giacobina decretò la
distruzione sistematica della Vandea: boschi, raccolti e bestiame
furono distrutti; donne, bambini e vecchi furono deportati verso
l'interno (19). Oltre un secolo più
tardi, gli stessi sistemi riapparvero nella politica hitleriana della
terra bruciata e nello sterminio stalinista delle masse contadine in
Russia. L'unica differenza era che gli stessi metodi erano
commisurati alle farneticazioni ideologiche delle élite: alle
chimere di libertà, progresso e repubblica si erano sostituiti il
razzismo e la teoria storica del bidone di immondizia. Tuttavia, le
dinamiche sottese appaiono troppo simili, e non si possono ignorare
le tendenze fasciste e comuniste già insite nel progetto libertario
originario, fondato anch'esso sulla necessità che il monopolio
statale definisse i limiti della partecipazione politica popolare. In
un certo senso, il problema della democrazia di massa era già un
problema fondamentale della Rivoluzione francese (20). Le sue basi
stataliste potevano portare soltanto alla trasformazione del re in
una nazione, dell'individuo nelle masse, della politica in ideologia
e amministrazione. Nella Rivoluzione francese, questa rivoluzione
portò al grande Terrore nel momento meno opportuno e allo spettacolo
grottesco di un parlamento anticlericale che vota il riconoscimento,
da parte del popolo francese, dell'Ente Supremo e dell'immortalità
dell'anima (21). In termini di riforme istituzionali concrete, la
Convenzione e il Direttorio crearono una serie di istituti per
l'istruzione superiore, ponendo le basi per la formazione di quella
classe tecnocratica che da allora è sempre stata indispensabile per
l'amministrazione dello Stato moderno. Anche sotto questo aspetto, la
Rivoluzione francese fu soltanto un inizio, e l'integrazione
dell'Istituto nella costituzione del Direttorio con una sezione
speciale dedicata alle scienze morali e politiche non è altro che la
prima, seppure incompleta, testimonianza dell'importanza che il
governo moderno attribuisce ai mandarini della cultura e alla loro
razionalità scientifica (22). Vista sotto questa
luce, tuttavia, la natura borghese della Rivoluzione francese va
oltre il contributo tutto sommato parziale che essa diede alla
formazione del capitalismo francese ottocentesco, e rivela un più
ampio progetto di controllo sociale, nell'ambito del quale il
capitalismo è un momento storico e lo stato un'istituzione pilota
(23). Il progetto è anche un progetto di modernità, e da ciò
deriva il suo aspetto inizialmente razionale, emancipatorio e
progressista. Tuttavia, esso ha anche un nucleo ideologico,
incentrato sulla gestione della democrazia. Ciò spiega la sua
costante evocazione ad opera delle élite della più varia
connotazione politica, e al tempo stesso spiega la sua costante
ambiguità: progresso, ma anche regresso; più autonomia, ma anche
maggiore controllo. Proprio questa
ambiguità rende difficile l'interpretazione e l'analisi dello Stato
moderno. Il dirigismo incipiente agli esordi dello Stato borghese è
cresciuto al punto che non c'è più quasi nulla di specificamente
borghese nello Stato. Secondo questa linea di pensiero, il fascismo
diventa un momento nello sviluppo dello Stato moderno, piuttosto che
un punto di regressione nello sviluppo del capitalismo, un ordine
sociale che favorisce l'emergere di una tecnoburocrazia
funzionalmente necessaria all'amministrazione di quello stesso Stato
(24).Questa concezione spiegherebbe anche come mai, in momenti
storici differenti e in situazioni politiche diverse, il progetto di
modernità abbia conservato notevoli somiglianze. Laddove si proclama
il governo del popolo, ma poi di fatto esso rimane in mano alle
élite, non stupisce che si indichi nella rivoluzione culturale il
cuore della modernizzazione.
Lo Stato
dappertutto
Sintomo evidente
della persistenza della dominazione, questa formula ideologica ha
caratterizzato regimi disparati, come quelli della Germania nazista,
della Cina maoista e dell'Iran islamico. A proposito dell'America
latina, un autore ha scritto: Indubbiamente
esiste, tra i movimenti riformisti o rivoluzionari, di ispirazione
cristiana o umanista, sotto le uniformi e i cilici, una corrente non
trascurabile che esprime la necessità di giungere a una reale
emancipazione, a una piena democrazia, a una effettiva partecipazione
e a una reale responsabilità, sia per i produttori, sia per gli
operai, sia per i contadini. Ma è soltanto una contro-corrente, che
troppo spesso si perde nella confusione della tendenza generale, la
quale mira e tende soltanto al potere statale, come unica fonte di
cambiamento e di autorità. L'origine sociale e la formazione
caratteriale di questi attivisti rende difficile stabilire a priori
quanto queste due concezioni siano inconciliabili e irriducibili. Se non ci si
limita alle parole e alle dichiarazioni d'intenti, ma si esaminano
i comportamenti e i rapporti instaurati dai singoli
membri delle nuove
avanguardie, bisogna riconoscere che tutti si
sono posti come regola generale quella di giungere a
una mobilitazione totale delle risorse e degli uomini,
di utilizzarli al massimo, di garantirne la disciplina
e la gestibilità, di estorcere loro tutto il possibile
e di organizzare un'economia di guerra. Riforme
agrarie per favorire la creazione di un
proletariato operaio, impiego razionale delle capacità produttive
per rendere possibili investimenti che rafforzino il potenziale
industriale, organizzazioni multiple per garantire la
produttività e la disciplina della forza lavoro: questi sono gli
orientamenti essenziali. Inizialmente facendo appello all'entusiasmo
e al volontariato, ma ricorrendo poi quasi subito a metodi coercitivi
ben diversi. Un programma
che si potrebbe definire socialista, poiché a
parole consente di fondere aspirazioni millenarie e
necessità imposte dalla pianificazione. Ma un metodo
che potrebbe essere definito in termini ben diversi meno cerebrali
e persino, diciamolo francamente,
meno pericolosi, se soltanto fossimo disposti a
spingere la nostra curiosità fino al punto di chiedere
chi comanda, chi gode dei benefici e chi
può disporre del plusvalore. (25) E recentemente, a
proposito dell'Etiopia, un altro autore ha scritto: Nel 1981 i
membri della COPTE (Commission on Organisation of the Ethiopian
Workers'Party - Commissione per l'Organizzazione del partito etiopico
dei lavoratori, che ha già tutte le caratteristiche di un partito)
si potevano classificare come segue: contadini, 1,2%; operai, 2,9%,
insegnanti, impiegati dell'amministrazione pubblica, membri delle
forze armate e di altri settori della società, 95%. Nell'ottobre del
1982, dopo una intensa campagna di reclutamento e una modifica nei
criteri di ammissione, le percentuali sono risultate le seguenti:
contadini, 3,3%; operai, 21,7%; intellettuali, impiegati
dell'amministrazione pubblica, membri delle forze armate e di altri
settori della società, 75%. Queste cifre parlano da sole. La COPTE sarà
trasformata in un partito in occasione del decimo anniversario della
rivoluzione, e in queste condizioni non è difficile capire chi
detiene e chi deterrà il potere ad Addis-Abeba. Non è un caso che
il celebre scrittore Bealu Girma sia stato destituito dalla carica di
segretario generale del Ministero dell'Informazione, e che il suo
ultimo libro sia stato confiscato e messo al bando: in esso egli
accusava i nuovi burocrati di desiderare soltanto donne e automobili,
e li paragonava alla "nuova classe" di Milovan Gilas. (26) Anche in Occidente
la nuova classe acquista sempre più potere e i meccanismi di
controllo aumentano. Forse questo fenomeno è più appariscente nella
politica estera degli stati capitalisti contemporanei: nell'uso delle
istituzioni monetarie internazionali allo scopo di mantenere sia la
dipendenza del Terzo Mondo, sia le tendenze bonapartiste nei suoi
confronti (27); nell'esportazione delle scuole di tortura e delle
tecniche di pacificazione che hanno ampliato e affinato i sistemi che
Hoche applicò per conto del Direttorio in Vandea (28); nel ricorso
sempre più frequente all'iperbole e all'offuscamento ideologico, per
cui "incursione" significa "invasione", "sicurezza
nazionale" significa imperialismo e le libere elezioni sono un
pretesto per la repressione (29). Questi sviluppi,
tuttavia, non sono privi di ripercussioni nella politica dei paesi
capitalisti, dove la vita sta diventando sempre più difficile, piena
di preoccupazioni. La crisi sta prendendo piede, fa crollare sogni e
rovina intere esistenze. Le persone che vivono di sussidi e i
disoccupati aumentano in continuazione. I giovani hanno scarse
prospettive di lavoro. I tassi di natalità calano. Le famiglie si
sgretolano. Le frontiere si chiudono. Lo Stato riduce i
fondi destinati all'assistenza sociale (30), ma mentre cerca di
liberarsi dell'onere assistenziale, si muove per interferire in nuovi
settori dell'attività sociale, o per stabilire nuove
regolamentazioni in aree già sottoposte al suo controllo: in campo
sessuale, nella sanità, in campo demografico, in materia di
immigrazione, nella conquista dello spazio. Nella Germania Federale
il governo ha varato una politica, in base alla quale le donne che
acconsentono a non abortire ricevono cospicui aiuti finanziari da
parte dello Stato. La politica relativamente liberale del Canada in
materia di immigrazione è mutata al punto che oggi è molto
difficile per uno straniero immigrare in quel paese, a meno di essere
ricco o altamente qualificato (31). Negli Stati Uniti il governo sta
stanziando miliardi di dollari per la ricerca sugli armamenti, con lo
scopo di portare la guerra nucleare nello spazio. Sottesa a queste ed
altre iniziative è una rivalità economica internazionale tra gli
Stati Uniti, l'Europa occidentale e il Giappone. La corsa alla
supremazia tecnologica sta favorendo lo sviluppo del militarismo e
dell'autarchia a un ritmo sempre più sostenuto (32). Il razzismo e
la violenza sono tornati a manifestarsi nelle democrazie
costituzionali, sotto forme divergenti quali i movimenti politici di
destra (il Front Nationale in Francia), i video
musicali (Thriller), l'inspiegabile aumento degli omicidi e la
televisione. Anthony Hecht ha reso bene questo clima nella sua poesia
"Ti scavalcano, Erode; ti prego, evitalo":
Stasera i miei
figli stanno gobbi davanti al loro
western, e sono felici quando, con un
pugno domenicale, il Buono butta
fuori il Cattivo.
E nelle loro fiabe il gigante
butterato e la strega son richiusi in
prigioni senza porte, e la piccola
fiammiferaia fa fortuna.
Mi sono versato da
bere. Il gigante e la
strega stanno per tagliare la
corda, dopo che i miei
figli sono andati a letto.
Su tutte le
frequenze risuonano segnali disperati; con lampi e codici
morse affollano la sfera dell'aria.
Perché i malvagi
sono diventati forti, sono tanti da farsi
gioco della morte, la loro vacca
partorisce vitelli, il loro toro
procrea.
Colui che dà loro
forza, Satana, sovrasta il
globo; lo fruga in lungo e
in largo e trova persino
Giobbe.
Eppure, da modelli
ben diversi prendono esempio i
miei figli; mezzo Dio e mezzo
Babbo Natale, ma con la mia voce
e il mio volto,
un eroe giunge a
salvare il povero,
l'accattone e il ladro, a rimettere
giudizio al mondo e a porre fine al
dolore.
E perché il loro
sonno sia tranquillo recito questa
fiaba, che un tempo non
avrebbe potuto salvarli dalla
camera a gas. (33)
Ma dietro queste
preoccupazioni forse si cela il sospetto che tutto ciò sia in
qualche modo giustificato: la crisi, l'austerità, la repressione
occulta su scala mondiale, il senso che forse la vera natura della
crisi risieda nell'inutilità dell'organizzazione sociale
contemporanea in rapporto alle conoscenze, alle risorse, alle
ricchezze e all'energia. Eppure si tratta
solo di un sospetto, di un dubbio. La reazione più diffusa e più
immediatamente percepibile è una sensazione di frustrante impotenza,
rafforzata dal fatto che le stesse élite statali e del settore
privato ammettono di non essere in grado di far fronte alle pressioni
internazionali incontrollabili. Paradossalmente, il panico che ne
deriva alimenta un desiderio di controllo, il quale a sua volta dà
forza a quelle forze sociali che rendono non impensabile o
improbabile una trasformazione in senso autoritario in questa parte
del mondo occidentale (34). In un certo senso, la stessa inutilità
dell'attuale organizzazione sociale spinge in questa direzione. L'automatizzazione
di intere fabbriche, l'introduzione dei robot, l'impiego sempre più
massiccio dei computer ha reso obsolescente il lavoro come noi lo
conoscevamo; tuttavia la società si regge ancora sul denaro, perciò
il lavoro come noi lo conoscevamo, sebbene ridondante, è pur sempre
necessario (35). Così la divisione del lavoro nelle società al
centro del capitalismo assomiglierà sempre più alla divisione del
lavoro, e delle ricompense, nell'ambito dell'ordine internazionale:
una vasta sottoclasse relativamente povera sarà governata da una
élite internazionale, la cui stessa esistenza - per non parlare dei
privilegi - dipenderà dal mantenimento di un sistema di controllo
nell'ambito del quale lo Stato, magari in forma diversa dall'attuale,
continuerà a giocare un ruolo determinante (36). Una conferma della
verosimiglianza di questo scenario è data - se si deve prestar fede
alle statistiche - dal numero sempre maggiore di persone dotate di un
titolo di studio, ma del tutto illetterate dal punto di vista
funzionale. In questa
prospettiva, l'elemento pernicioso consiste nel fatto che, pur
sopravvivendo la burocrazia, il potere si diffonda attraverso la
società, mascherando gli elementi di controllo tuttora persistenti e
creando l'impressione che lo Stato sia morto. Questo fenomeno è
stato descritto anche dai teorici dei sistemi, i quali però hanno
considerato la progressiva evoluzione attiva della società come un
fattore costitutivo della sua stessa libertà: Ciò implica, da un
lato maggiori libertà di azione per i singoli individui che fanno
parte della società, dall'altra nuovi meccanismi di controllo, che
rendono possibile il funzionamento di queste libertà a livelli
sempre più generalizzati (37). Questa è una
descrizione abbastanza calzante del modo in cui il potere opera e
viene percepito soggettivamente nella società contemporanea,
specialmente nelle rappresentazioni diffuse dai media. I dibattiti
politici tendono invariabilmente ad assumere un tono terapeutico. I
moderatori sono sempre progressisti. I partecipanti sono dogmatici e
freddi. Ma, come disse uno dei personaggi di L'uomo che cadde
sulla Terra (o qualcosa del genere): "La televisione dice molte
cose, ma non dice mai tutta la verità". Forse nessuno dice mai
tutta la verità, ma in questa particolare follia c'è un metodo, il
metodo dei maniaci dell'ordine, un tentativo di costringere la
definizione della situazione attuale entro i paradigmi di controllo
attualmente in vigore. La gente si vede
costruire dinanzi agli occhi un mondo, una struttura sociale, che
sfugge comunque al suo controllo, anche se cerca di impadronirsene, o
soltanto di partecipare. La strutturata inuguaglianza del potere e
delle risorse fa sì che il controllo sia un sogno necessariamente
riservato a pochi; tuttavia, finché la grande maggioranza avrà
accesso alla sua definizione, e cercherà la salvezza nei suoi
termini, il sistema di controllo continuerà a esistere, anche se
sembra un sistema incontrollato (38): la società come il suo stesso
sistema di azione cibernetica. Bisogna riconoscere
che lo scenario è dei più lugubri, veramente orwelliano. Richiederà
certe innovazioni e certe convergenze a livello internazionale (est e
ovest, nord e sud, aziende statali e multinazionali), necessarie a
rimettere in sesto e a ristrutturare quel processo ormai secolare,
noto come modernizzazione, ma la prospettiva non è una fantasia, se
non in senso etimologico. Tuttavia, c'è
un'altra linea possibile, più conforme alle tradizioni funzionalista
e marxista, che sono sempre state portate a immaginare - ciascuna a
suo modo, ma concordemente - un lento ma deciso sviluppo della storia
caratterizzato da sempre maggiori possibilità reali di progresso e
di libertà. Secondo questa concezione evoluzionista, le società più
complesse, più adattabili, rappresentano necessariamente il futuro,
nel quale l'autonomia e il controllo sono, e rimarranno,
indissolubilmente legati, ma il progresso, benché ambiguo, è reale,
cosi come lo è l'autonomia individuale, benché accompagnata da
nuove e più sofisticate forme di controllo. Basta guardare ai dati
relativi ai tassi di mortalità negli ultimi cinquecento anni, e alla
maggiore apertura mentale nei riguardi del sesso e dei ruoli
sessuali. Anche il controllo
e la sua concomitante razionalità scientifica hanno aspetti
positivi, poiché costituiscono la base materiale per il grado di
relativa libertà di cui godiamo, per le possibilità di linee di
sviluppo imprevedibili (i viaggi nello spazio, con tutte le loro
implicazioni) e per una condizione esistenziale nella quale l'ansia e
le preoccupazioni siano alla fine, drasticamente ridotte. Erede
politica di questa concezione è la socialdemocrazia in tutte le sue
varianti: da qui la sua strenua difesa dello Stato, costituzionale e
controllato, come elemento indispensabile in una società mediata che
si apra alla libertà; e da qui il suo realismo.
È una prospettiva
non del tutto inverosimile; tuttavia ci lascia ugualmente in dubbio,
a parte l'ovvia considerazione già espressa (all'epoca in cui essa
potrà attuarsi, saremo morti tutti), e a parte il paragone con ciò
che si potrebbe fare qui e ora per ridurre i motivi di ansia, e che
invece non viene fatto, anche a causa dello spreco al quale lo Stato
partecipa, quando addirittura non l'organizza. Il dubbio persiste
anche a causa della stessa ambiguità dei concetti di libertà e di
progresso nelle aree più liberali del mondo, e dei problemi che esse
continuamente suscitano. La possibilità di scelta è più ampia, ma
ciò non cambia nulla, perché rimane l'impressione che la scelta,
dal sesso alla politica, sia in realtà una non-scelta; e
l'abbondanza di marchingegni e di apparecchi vari, che ha
semplificato i lavori domestici, sembra parte di un processo che nel
complesso rende più difficile il compito di allevare ed educare i
figli (39). Forse ciò è
dovuto in parte alla maggiore quantità di tempo che la gente nei
paesi industrializzati dedica a se stessa e ai rapporti
interpersonali, questa dimensione sociale imperscrutabile. Ma forse è
anche una conseguenza del processo nel quale ciascuna conquista
dell'uomo diventa l'anello successivo nella catena del controllo
sociale, invece che un passo avanti verso la riorganizzazione della
vita sociale, la semplificazione dei bisogni e la liberazione dalla
loro schiavitù. Appena l'uomo riesce a liberarsi da un'attività
faticosa, subito viene indirizzato o attratto in altre, che potrà
padroneggiare e godere soltanto a prezzo di continui sacrifici,
sottomissioni e conflitti. Ciò vale sia per ciò che avviene nella
sfera psichica dell'individuo, sia per ciò che avviene tra
l'individuo e la collettività: la società della desublimazione
repressiva (40), del tempo spettacolare, nella quale "La vita
individuale non ha ancora storia. Gli pseudo-eventi che
trascorrono rapidi in spettacolari drammatizzazioni non
sono stati vissuti da coloro che ne erano
informati; inoltre si perdono nell'inflazione della loro frenetica
sostituzione ad ogni fremito della macchina
spettacolare. Per di più, ciò che è realmente
vissuto non ha relazione alcuna con il tempo ufficiale irreversibile
della società ed è in diretta contrapposizione con il ritmo
pseudo-ciclico del sottoprodotto consumabile di quest'epoca.
Quest'esperienza individuale di vita quotidiana separata resta priva
di linguaggio, senza concetti, senza possibilità di accesso critico
al proprio passato, che non è stato registrato in alcun luogo. Non
viene comunicata. Non viene compresa, e la si dimentica a vantaggio
della falsa memoria spettacolare dell'immemorabile" (41). Ecco che cosa
sembra voler dire, spesso, camminare per le strade di un centro
metropolitano del mondo sviluppato; e pare che diventi sempre più
difficile. Il disaccordo tra
le prospettive delle due teorie che, per mancanza di termini
migliori, potremmo chiamare positivista e critica, verte in parte sui
fatti e in parte sul modo di interpretarli. Ciononostante le
tendenze politiche dominanti, che entrambe le prospettive discernono,
delineano ciò che sempre più spesso il mondo contemporaneo mette al
bando; l'utopia, e il principio di speranza che lo spirito libertario
energicamente propugna. Punto focale del dibattito politico sulla
natura della Stato è il dubbio circa la possibilità di una società
senza Stato, ma dedita alla libertà e, sì, anche al progresso.
Questa questione è alla base del dibattito tra socialdemocrazia e
anarchismo, tra realpolitik e utopia. Eppure, con tutto il loro
realismo e il loro empirismo, il positivismo e la socialdemocrazia
sembrano dimenticare che lo Stato contemporaneo si è sviluppato
storicamente sottomettendo e integrando gli elementi utopici della
democrazia (42), mentre le soluzioni che essi propongono sembrano
riprodurre pari pari i problemi dai quali si voleva uscire (43). Forse non abbiamo
nulla di meglio da offrire, ma forse non è da ingenui ritenere che
soltanto una trasformazione radicale della struttura
dell'organizzazione sociale porti in sé la prospettiva di un
miglioramento paragonabile all'entità dell'impegno. Forse oggi più
che mai, "considerate le possibilità utopiche concrete, la
dialettica è l'ontologia dello stato sbagliato delle cose" (44). Fortunatamente ci
sono persone e gruppi che continuano a protestare, che rifiutano di
accettare le cose come stanno e cercano di impedire in tutti i modi
che il passato sia cancellato dal presente, perché soltanto così
potrà esserci un futuro. Sono, tra le tante, le persone che formano
Amnesty International, quelle che danno vita al movimento pacifista,
che portano avanti la lotta per i diritti della donna, che lavorano
nel Terzo Mondo, che continuano a porre domande sbagliate sullo stato
sbagliato delle cose e che cercano nelle risposte una misura di
verità che non vacilli dinanzi all'immensità del compito che li
attende. Forse queste
persone condividono l'affermazione secondo la quale "la critica
dell'ideologia... è fondamentale" (45) e cercano di viverla
affrontando le loro stesse contraddizioni. Fare di più è compito
dell'azione politica, e chiarire l'obiettivo è compito della teoria.
(traduzione di
Michele Buzzi)
1) United
Nations High Commision for Refugees, Refugees,
gennaio 1984, Ginevra.
2) Cfr. N.
Caplan, Futile
Diplomacy,
2 voll., Londra,
Cass, 1983, 1984.
3) Per il
Guatemala, cfr. America's Watch,
"Extermination in Guatemala",
New Work Review of Books, e
giugno 1983, pagg. 13-16.
Per l'Uruguay cfr. Le Monde
Diplomatique, dicembre
1983, pagg. 9-13. Per
l'Argentina cfr. Le Monde
Diplomatique, ottobre
1983, pagg. 22-27. Cfr. anche Amnesty
International, Rapport 1981.
EFAI,
Parigi, 1982 e Amnesty
International, Les
"disparus",
Seuil, Parigi, 1981.
4) Per l'Iran
cfr. gli articoli su La
Revolution lslamique Iranienne,
Le Monde Diplomatique,
aprile 1984, pag. 12-18; per
la Cambogia cfr. N. Chomsky e H. Hernan, The
Political Economy of Human Rights, e voll., Montreal, Black
Rose Books, 1979, specialmente il secondo volume, anche se il saggio
cerca soprattutto di precisare il ruolo della stampa occidentale, e
non pretende di offrire un resoconto esaustivo degli avvenimenti in
Cambogia.
5) Anche se da
punti di vista teorici e politici assai diversi, c'è una notevole
concordanza circa il luogo e il periodo in cui si verificò la
trasformazione verso la modernità. Cfr. ad esempio: I. Wallerstein,
The Modern World System,
Academic Press, New York e Londra, 1974, e T. Parsons, Social
System and the Evolution of Action Theory, Free Press,
Gleoncoe, Illinois, 1977. A proposito dell'equazione
modernità-progresso, benché ambiguo e riluttante, cfr. F. Braudel,
Capitalism and Material Life,
1400-1800, Londra, 1973, e P. Chaunu, La
Civilisation de l'Europe des lumieres, Champs Flammarion,
Parigi, 1982. Per osservazioni critiche sulla natura del progresso e
della modernizzazione, cfr. E. P. Thompson, The
Making of the English Working Class, Penguin 1968, e B.
Moore Jr. The Social Origins of
Dictatorship and Democracy, Boston, 1966.
6) Chomsky e Herman,
op. cit., capitolo 2.
7) Citato in H.
Arendt, "Bertold Brecht", in Arendt, Men
in Dark Times, Jonathan Cape, Londra, 1970, pag. 213.
8) E. G. Bermejo.
"La decennie honeuse", Le Monde
Diplomatique, dicembre
1983, pag. 11.
9) Cfr. Amnesty
International, Rapport 1981, op. cit. pagg. 33-39 per la Repubblica
Sudafricana e pagg. 383-392 per l'Urss.
10) Cfr. ad
esempio J. Donzelot, La police
des familles, Paris, Minuit, 1977 per una descrizione di
questo processo.
11) J. L.
Herbert, "La force mobilisatrice d'une spiritualité" in Le
Monde Diplomatique,
aptile 1984, pag. 17.
12) Per un esame
di questa questione cfr. P. Aycoberry, La question nazie, Seuil,
Parigi, 1979.
13) F. Furet e D.
Richet, La Revolution Francaise,
Marabout, Verviens, Belgio, 1979, pag. 149.
14) Ibid. pagg.
112-113
15) Ibid. pagg.
184-185
16) Ibid. pagg.
382-383
17) Cfr. le
osservazioni della Arendt sul modo in cui l'avventura imperialista
europea del diciannovesimo secolo assunse un carattere di vendetta
contro i paesi esportatori, in H. Arendt, The
Origin of Totalitarianism, New York, 1951.
18) Furet e
Richet, op. cit. pag. 198.
19) Ibid. pag.
225.
20) Cfr. H.
Sklar, Trilateralism,
Black Rose Books, Montreal, 1980, e soprattutto A. Wolfe, "Capitalism
Shows Its Face: Giving Up On Democracy", pagg. 295-307,
per un'analisi del rapporto della Forza Trilaterale sulla Crisi della
Democrazia, che indica nell'"eccesso di democrazia" un problema
fondamentale dell'età contemporanea.
21) Furet e
Richet, op. cit. pag. 248.
22) Ibid. pagg.
467-470.
23) Per una
trattazione di questo argomento da un punto di vista veramente
radicale, cfr. G. Debord, The
Society of Spectacle, Black and Read, Detroit, 1977, Champ
Libre, 1971, al tempo stesso, la mia interpretazione della
Rivoluzione francese deve molto a F. Furet, Penser
la Revolution Francaise, Gallimard, Parigi, 1978, la cui
analisi della Rivoluzione offre un'acutissima valutazione del
rapporto fra rivoluzione e ideologia e solleva quasi in ogni pagina
importanti interrogativi circa la natura della politica moderna.
24) L. Lanza,
"Fascism and Techno-burocracy", in Our
Generation, Montreal, vol. 12, n. 1 estate 1977, pagg.
45-57. Per un dibattito più approfondito sulla tecnoburocrazia, cfr.
Un collectif de recherche anarchiste, Le
nouveaux patrons: onze etudes sur la techno-burocratie,
Ginevra, Editions Noir, 1979. tradotto dall'italiano, I nuovi
padroni, Edizioni Antistato, Milano, 1978.
25) L. Mercier
Vega, La revolution par l'etat,
Payot, Parigi, 1978, pagg. 10-11.
26) O. Kapeliouk,
"Quand le paysan est tenu à l'ecart des décision politiques",
in Le Monde Diplomatique, aprile 1984, pag. 11.
27) Cfr. ad
esempio G. Corn "Une fructuose renegotation des dettes", in Le
Monde Diplomatique, settembre 1983, pag. 3; F. Clairmonte, "Le
pouvoir méconnu", ibid. pag. 2; Chomsky e Herman, op. cit..
28) Furet e
Richet, op. cit., pag. 339, e l'ideologia della pacificazione così
ampiamente presente nella condizione della guerra in Vietnam da parte
degli americani.
29) L'invasione
della Cambogia fu un'incursione. Il nome del carcere più importante
per detenuti politici in Uruguay è Libertad. Cfr. anche Chomsky e
Herman, op. cit., soprattutto il vol. 2.
30) E. Shragge,
"A Libertarian response to the Welfare State", in Our Generation,
vol. 15 n.ro 4, primavera 1983, pagg. 36-47.
31) Il governo
della Repubblica Federale Tedesca rispedirebbe volentieri in Turchia
una buona parte dei lavoratori immigrati, e anche la maggioranza dei
tedeschi sarebbe favorevole all'espulsione dei lavoratori stranieri,
ai quali viene attribuita la responsabilità della disoccupazione.
Cfr. L. Vekilli, "Turken raus?", in Le Monde Diplomatique,
dicembre 1983.
32) P. Chamsol,
"Cette guerre que null ne veut...", Le Monde Diplomatique,
aprile 1984, pagg. 1, 26-27.
33) A. Hecht, The
Hard Hours, Atheneum, New York, 1978, pagg. 67-68.
34) Per una di
queste versioni, cfr. R. Heilbroner, An
Inquiry into the Human Prospect, Norton, New Yok, 1979.
35)Per una prima
valutazione delle possibilità di una riduzione del lavoro, cfr.
Adret, Travailler duex heures
par jour, Seuil, Parigi, 1977.
36) Cfr. N.
Laurin-Frenette, "Les Intellectuels et l'Etat", in Sociologie
ed societes, vol. XV, n.ro 1, aprile 1983, pagg. 121-129,
per una iniziale e importante valutazione dei rapporti attuali tra
gli intellettuali e lo Stato entro gli schemi dominanti di potere e
di controllo.
37) Parsons, op.
cit., pag. 130.
38) H. Marcuse,
L'uomo a una dimensione,
Torino, Einaudi, 1968.
39) Cfr.
Laurin-Frenette, "Féminism et Anarchisme - quelques elements
theoriques et historiques pour une analyse de la relation entre le
Mouvement des femmes ed l'Etat", in Y. Cohen (a cura di), Femmes
et politique, Le Jour, Montreal, 1981, pag. 167. Per una
versione integrale di questo articolo, cfr. Our
Generation, vol. 15, n.ro 2, estate 1982.
40) H. Marcuse,
op. cit.
41) G. Debord,
op. cit. sezione 157.
42) M. Bookchin,
The Ecology of Freedom,
Chesire Press, Palo Alto, California, 1982, (edizione italiana:
L'ecologia della libertà,
Edizioni Antistato, Milano, 1984), specialmente i capp. 7 e 8.
43) Per un
esempio di quello che la "sinistra" ha da offrire, cfr. R.
Debray, La Puissance et le
Reves, Gallimard, Paris 1984; e per una critica
interessante cfr. C. De Brie, "Vers une Realpolitik de Gauche",
in Le Monde Diplomatique, aprile 1984, pag. 28.
44) T. Adorno,
Negative Dialectis,
New York, Seabury Press, 1973, pag. 11.
45) Ibid., pag.
148.
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