Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 157
estate 1988


Rivista Anarchica Online

Dignità vo cercando
di Agostino Manni

In queste due lettere dalle carceri militari (rispettivamente di Bari e di S. Maria Capua Vetere), l'obiettore totale Agostino Manni racconta le vicende di altri detenuti: storie del Sud, di miseria, di ignoranza. Ma anche storie della brutalità e dell'arroganza del sistema carcerario, della sua logica, delle sue assurde regole.

Piscitelli Pier Paolo: nato in provincia di Bari, 22 anni, sposato, muratore; quasi due anni di pena sospesa per 4 diserzioni successive, in attesa di giudizio per la quinta. Tra un processo e l'altro ha già scontato diversi mesi di carcere militare. Nel frattempo si è separato dalla moglie, ed è "scappato" come si dice dalle nostre parti - con un'altra donna, una ragazza di 17 anni che adesso vive in casa del padre di lui ed è incinta. Quasi certamente al prossimo giudizio subirà una condanna sufficiente a fargli scontare anche tutta la pena sospesa: anni di carcere militare. Oltre a questo deve ancora fare 9 mesi di naja.
Così ha pensato a quella che per lui, nei fatti, è la sola alternativa al carcere: farsi dare la "riforma", attraverso uno dei tanti articoli (come il famoso art. 41.: "crisi depressive"). E per convincere le autorità sanitarie dei suoi inesistenti problemi psicologici per ben due volte si è scolato bicchieri di detersivo per piatti; col solo risultato di aggiungere, al già lungo curriculum della sua scheda biografica, una denuncia per "procurata lesione".
Versienti Luigi: 21 anni, contadino, nato in provincia di Brindisi, una condanna a 21 mesi di reclusione diventata definitiva alla quarta diserzione. Ne ha scontati sette: quando uscirà dal carcere dovrà ancora svolgere 10 mesi di servizio militare.
Intanto si è procurato una brutta frattura ad una caviglia, giocando a pallone nel cortile. Zoppica malamente ma la sola terapia praticatagli consiste nella somministrazione di pillole di calcio: niente fisioterapia, nessuna attività di riabilitazione. Avrebbe voluto inoltrare una domanda per l'affidamento in prova al servizio sociale, ma le autorità del carcere - non avendo a disposizione il personale necessario per il disbrigo della pratica (psicologi, educatori, psichiatri, criminologi) e non volendo prendersi il fastidio di un trasferimento - gli hanno fatto credere che per farlo bisognava attendere di aver scontato almeno metà della pena, quando invece basta che sia trascorso un solo mese dalla condanna definitiva. Intanto lui marcisce in galera. Non sa leggere né scrivere; le sole cose che lo aiutano a far passare il tempo sono le carte, la radio, il biliardino e, la sera, la televisione.
Non sa leggere né scrivere anche Angelo Masiello: della provincia di Matera, disoccupato, due diserzioni, da 20 giorni in attesa di giudizio. Ha già scontato tre anni di carcere civile per una rapina ad un distributore compiuta a 18 anni (ora ne ha quasi 23), per la quale il Tribunale di Matera lo ha condannato, in primo grado, a 7 anni e mezzo di reclusione. Sette anni e mezzo di vita per aver rapinato un distributore.
È arrivato qui dopo la seconda diserzione. Dopo una breve licenza non è più rientrato in caserma; dice che, poco prima di prendere il treno per raggiungere la destinazione (Trapani, a due passi da casa!), ha saputo che sua madre era ammalata e non è più partito. "Avevano bisogno di me", dice, "non potevo andare via".
Aveva bisogno di lui anche sua moglie, che adesso è incinta e campa raccogliendo finocchi per 25.000 lire al giorno (la stessa miseria che davano a lui, nei sette mesi in cui ha lavorato , tra il carcere e la caserma).
Qui a Bari l'hanno messo in cella con tre testimoni di Geova, i più bigotti di tutto il carcere; così il tempo non gli passa mai, e in soli 20 giorni è diventato nervoso come una bestia. Oltretutto ha paura che al processo non gli venga concessa la sospensione condizionale della pena a causa dei suoi precedenti penali; e questo non fa che aumentare il suo nervosismo.
È già successo ad un altro, Elia Ranieri: 25 anni, della provincia di Foggia, precedenti penali per furto e spaccio di stupefacenti. È l'ottavo figlio di una famiglia di 14 persone e in questi giorni è felice perché i suoi familiari, dopo averla chiesta per anni, hanno ottenuto una casa popolare nel paese.
Quando lavora "onestamente" fa il pizzaiolo. A causa dei suoi precedenti, nonostante fosse la prima diserzione, ha dovuto scontare la condanna e si è fatto i suoi bei sette mesi di carcere militare.
Qualche giorno fa Angelo mi ha chiesto se avevo qualcosa in contrario a che si facesse trasferire nella mia cella; gli ho detto che non c'era problema (oltre a tutto ci vivo da solo) , e che anzi ero contento, così avrei potuto insegnargli a leggere e a scrivere nei giorni che mancavano alla data del processo. Era felice. E io che lo fosse.
Non ha quasi più denti (e non ha ancora 23 anni), a causa della cioccolata che ha divorato nel carcere civile. Ha il corpo quasi interamente coperto da una infinità di tatuaggi: dice che era questo un modo per passare il tempo, nei tre anni che ha trascorso lì. Ora però li odia, questi segni che "sporcano" il suo corpo; glieli ha fatti odiare la gente, che non ci mette certo molto a indovinare il suo passato quando li vede. Certe volte li guarda con rabbia, come se volesse strapparseli insieme alla pelle, come se volesse grattarseli via a sangue. Non deve essere facile, per lui, vivere in mezzo ai pregiudizi. L'altra mattina si è messo "a rapporto" dal tenente per ottenere il trasferimento nella mia cella, e io dietro a lui, per sostenere la sua richiesta.
Fuori dall'ufficio, l'ho sentito che supplicava; e ho sentito la solita arroganza dell'ufficiale, quando si rivolge ai detenuti "comuni". A me dà del "lei" e parla con gentilezza: ma per Angelo non c'è stato lo stesso niente da fare: non hanno voluto che venisse in cella con me.

Un meccanismo perverso
Qui a Bari mi tengono lontano dai detenuti comuni; forse hanno paura che i miei discorsi di ribellione possano far presa su di loro. Dei testimoni non hanno paura: la loro obbedienza verso l'autorità e prescritta dalle bibbie. ("Dai a Cesare quel che è di Cesare...") e loro seguono alla lettera i principi di quel libro nero che portano sempre sotto il braccio.
"Non voglio insegnargli la rivoluzione - ho detto al tenente - voglio solo che impari a scrivere, così che possa mandare una lettera alla sua donna senza dover subire l'umiliazione di dettarla a qualcun altro". Ma non c'è stato nulla da fare: ho solo ottenuto che lo trasferissero in un'altra cella, dove c'è un altro disertore col quale almeno può giocare a carte e scherzare un po'.
Non soffro per la mia condizione. La conflittualità quasi quotidiana dei primi giorni mi inorgogliva; e ho la consapevolezza di essere un "problema" per le autorità del carcere, un "caso" difficile da gestire.
Questo mi dà delle "garanzie", e mi permette di vivere in una situazione di fatto "privilegiata" rispetto agli altri detenuti, anche se conquistarmela mi è costato già un paio di denunce: indosso abiti civili, non svolgo servizi di nessun tipo, ho ottimi rapporti con i soldati, non conosco l'arroganza che caratterizza l'atteggiamento dei militari nei confronti degli altri detenuti.
Conosco invece benissimo i miei "diritti"; quei pochi che ho e che devo riaffermare giorno per giorno, contro le abitudini autoritarie e le prepotenze che i militari hanno imposto in questo carcere, forti del servilismo irritante dei "testimoni" e dell'ignoranza dei "comuni". Un'ignoranza che fa paura: ignoranza dei propri diritti, ignoranza delle proprie condizioni, ignoranza delle cause come delle conseguenze dei propri comportamenti.
Questi giovani sono come "catturati" in un meccanismo giuridico perverso, dal quale difficilmente qualcuno di loro può venire fuori in un modo diverso da quello di accettare alla fine, dopo il carcere, di fare il soldato, o di farsi riformare come "pazzo" . Chi può tirarli fuori di qui, chi può migliorare la loro situazione, se hanno dovuto aspettare che arrivassi io solo per vedersi restituire il pallone che - dopo l'incidente di Versienti - le autorità avevano sequestrato?.
Non soffro per la mia condizione: che anzi guardo con una buona dose di ironia, costretto - come sono - a rischiare mesi e mesi di galera per vedermi riconosciuta la libertà di vestire come mi pare e piace, e a lottare per poter avere uno schifo di pallone, per togliere un po' della ruggine che mi sta bloccando le ossa. Non è per me che sto male. Ma quando ho visto Piscitelli sdraiato per terra che si lamentava e si premeva forte lo stomaco dopo aver bevuto mezzo litro di detersivo, ho dovuto davvero mordermi le mani, e sforzarmi di trovare qualche rara buona ragione per non odiare questo mondo più di quanto già lo detesti.
E mi è successo di pensare che, in fondo, noi siamo dei "privilegiati" di fronte a questa gente; perché abbiamo avuto una "fortuna" che loro non hanno e che rende la nostra vita profondamente diversa dalla loro e più "facile" da vivere. Abbiamo avuto la fortuna di "sapere", di poter conquistare se non il controllo certamente la consapevolezza delle nostre azioni e dei pensieri che li determinano. Cosicché il più delle volte, certamente non sempre, abbiamo la possibilità di "scegliere" da quale parte schierarci, per che cosa lottare; e di sapere che, o in uno schifoso pallone o in una misera camicia, o in una meravigliosa utopia sociale, è sempre la nostra dignità di uomini liberi quello che stiamo ostinatamente cercando.

Quando l'oppressione è più forte
molti si perdono d'animo
ma in lui cresce il coraggio (...)
Egli organizza la sua lotta
Per il soldino in più, per il tè caldo,
per (la conquista) l'abolizione dello stato.
Domanda alla proprietà:
da dove vieni?
Alle opinioni domanda:
a chi servite?
Dove sempre si tace,
egli parlerà.
Dove regna l'oppressione e gli si parla di destino
dirà forte i nomi (...)
Quando lo cacciano, là dove va
va la rivolta.

Bertold Brecht


All'indomani del suo trasferimento dal carcere militare di Bari-Palese a quello di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dov'è tuttora detenuto, Agostino Manni ci ha inviato questa "integrazione" sugli sviluppi delle vicende di alcuni suoi compagni di galera a Bari-Palese..

Alle ultime elezioni amministrative mio padre ha fatto il presidente di seggio.
Non ha simpatia per nessun partito; per lui la politica è solo "una cosa sporca". Soltanto dice che "qualche soldo in più non fa mai male".
Mia madre mi ha raccontato di averlo visto tornare a casa in lacrime, un giorno, perché in un seggio accanto al suo, durante lo spoglio delle schede, ne hanno trovata una con la scritta "Agostino, perché sei dentro?". Immagino che continuino a chiederselo anche Angelo, e Piscitelli, e tutti gli altri, "perché sono dentro".
Si trovano tutti ancora nel carcere militare di Bari: dopo il mio trasferimento a Santa Maria Capua Vetere, un testimone di Geova, al quale avevo affidato questo incarico, mi ha dato notizie sulle loro vicende giudiziarie. Non l'ho chiesto direttamente a loro perché avrebbero pensato che "portava male"; e poi Angelo non sa scrivere, e Piscitelli faceva troppa fatica anche lui, con la penna in mano.
Purtroppo è andata come immaginavo io: Masiello è stato condannato a 5 mesi, senza il beneficio della sospensione condizionale della pena. A Piscitelli ne hanno dati 21, anche a lui senza condizionale, per il cumulo delle pene precedenti.
Quando potranno vederli, i loro figli saranno già cresciuti ; nel frattempo consumeranno mazzi di carte sudate e bestemmieranno il Dio che i loro compagni di cella aspettano con ansia.
Elia, invece, non sta più a Bari. Il giorno dopo che sono arrivato qui, appena giunto nel reparto detenuti (dopo un giorno di isolamento, e di ricatti - inutili - affinché accettassi di indossare la divisa carceraria), mi sono sentito chiamare da una voce che mi sembrava di conoscere: era lui. L'hanno scarcerato da Bari il giorno di Pasqua, con l'obbligo di presentarsi al corpo il giorno dopo. Sette mesi di carcere e neanche qualche ora di libertà, prima di rientrare in caserma. Ma ci è andato lo stesso.
Solo che lì, quando si è reso conto che - a differenza di quanto gli era stato promesso a Bari - nessuno aveva intenzione di ricoverarlo in ospedale, affinché fossero avviate le pratiche per la riforma, ha messo in atto una "strana forma" di protesta: si è rifiutato di indossare la divisa.
Gli hanno dato 2 mesi per "rifiuto di obbedienza". Al processo il Pubblico Ministero ha chiesto una condanna più pesante, dicendo che era stato evidentemente influenzato dal contatto con gli obiettori durante la precedente carcerazione e che per questo doveva essere punito più severamente.
È stato scarcerato da Santa Maria Capua Vetere ai primi di giugno: la sua nuova destinazione era Trieste, ma doveva passare da Padova per una vecchia causa civile.
Prima di andare via, ha detto che quando saremo liberi "dovremo incontrarci ancora, per fondare un comitato anarchico a Vieste", il suo paese. Ha detto proprio così.
Io ho riso e gli ho promesso che lo faremo. "Anche se, per questo, non hai nessun bisogno di me gli ho detto - ti prometto che lo faremo". Quando saremo liberi.

Agostino Manni