Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 157
estate 1988


Rivista Anarchica Online

Radiografia di una crisi
di Andrea Papi

Ha perso voti, certo, ma soprattutto non ha più un'identità "forte". Il PCI è alla ricerca disperata di un nuovo simbolismo di redenzione. I conti con il passato: solo "errori" o frutto inevitabile di scelte consapevoli?

Un argomento che durante l'estate ha molto appassionato i cronisti nostrani riguarda quello che sta avvenendo del e nel PCI. Un interesse comprensibile, dal momento che la sorte a breve scadenza dell'attuale secondo partito nazionale sarà decisiva dei futuri assetti politici di casa nostra.
Non si può tenere escluso perennemente dal governo circa un quarto dell'elettorato, tenuto come in salamoia in una forzata opposizione che non sente e non vuole da almeno quindici anni. È potenzialmente una mina vagante, in grado di procurare serie difficoltà ai giochi dell'alta politica del palazzo, anche se, a dire il vero, da qualche decennio nulla farebbe sospettare il sorgere di una pericolosa opposizione comunista alle scelte dei vari governi che si sono succeduti, se non qualche scaramuccia subito rientrata regolarmente. Molto si è detto e, probabilmente, si continuerà a dire sulla crisi ammessa in cui versa il partito di Occhetto. Come quasi sicuramente assisteremo ad altri sommovimenti ed altri colpi di scena. Il meccanismo di revisione in atto tra i comunisti italiani sta rompendo uno ad uno tutti gli argini ideologici entro cui si era asserragliato nei decenni, tentando di costruirsi una barriera di sicurezza che, come tutte le ideologie, col tempo ha dovuto fare i conti con la realtà e la propria storia.
Non si tratta solo di crisi del consenso elettorale, anche se i riflettori dei media e dello stesso partito in questione sembrano puntati su questo in particolare. Si tratta soprattutto di una crisi di identità politica e ideologica, di uno sradicamento sempre più radicale dall'identità delle origini, dai cardini fondanti su cui è sorto. In altre parole, per l'immaginario collettivo non rappresenta più il simbolo della lotta di classe, del socialismo realizzato quale paradiso in terra, della riscossa dei poveri e dei diseredati, i quali fino a ieri lo sentivano come il punto di riferimento per una nuova società fondata sull'uguaglianza e la giustizia sociale.
Il PCI è alla ricerca disperata di un nuovo simbolismo di redenzione, che lo dovrebbe riscattare agli occhi di chi pretende ancora di rappresentare.

Sudditanza totale
È necessario richiamare alla mente per sommi capi le ragioni storiche per cui nacque il P.C.d'I. (allora si autodenominò con questa sigla), che col congresso di Livorno nel 1921 sancì lo scisma dal PSI, da tempo nell'aria. Sorse così come ala rivoluzionaria che si era solidamente formata all'interno del socialismo parlamentare riformista.
La scissione dal PSI, su ordine di Mosca, servì a creare in Italia un terminale bolscevico. La situazione sovversiva, che era sfociata nell'occupazione delle fabbriche, aveva fatto giustamente supporre a Lenin che l'Italia fosse il paese d'Europa più vicino alla rivoluzione dopo quella avvenuta in Russia nel '17.
Diveniva strategicamente indispensabile avere un partito specifico, solidamente organizzato su basi marxiste-leniniste, che, sulle orme di quello sovietico, al momento opportuno fosse in grado di prendere il potere e di tenerlo saldamente. Così il PCI sorse come braccio di Mosca, riproduttore sul suolo nazionale dei principi e dei metodi bolscevichi. La sua base teorica era il marxismo-leninismo, la sua strategia la rivoluzione per la presa del potere, il suo collegamento sul piano internazionale il socialismo realizzato in URSS.
Questa sua sudditanza a Mosca è rimasta praticamente totale fino al dopoguerra. Togliatti infatti, dopo esser riuscito a liberarsi di Bordiga, Tasca, Silone e in un certo senso anche di Gramsci, il quale morendo in carcere non poté che essere una vittima del fascismo, divenne uno dei fedelissimi di Stalin, arrivando persino a ricoprire incarichi internazionali per conto del Comintern, come appunto fu per la Spagna durante il periodo della rivoluzione del '36.
Dopodiché, sempre attraverso il capo indiscusso Togliatti, pur rimanendo fedele teoricamente all'impianto delle origini, dapprima in modo ambiguamente poco chiaro, poi in modo sempre più trasparente, cercò di impostare una via nazionale al socialismo, che abbandonava la strategia rivoluzionaria per tentare di prendere il potere attraverso il consenso elettorale. Ma fino all'ormai noto strappo berlingueriano continuò a presentare l'esperienza in atto in URSS come una specie di paradiso in terra, il punto di riferimento per il tipo di società che veniva proposto.
Oggi il PCI è costretto, oltre che a difendersi, a rinnegare in parte il suo passato. Sulla spinta della perestrojka gorbacioviana, che sta cercando di rifare un'immagine decente alla potenza dell'URSS, col condannare i crimini staliniani e col rimettere in discussione i fondamenti politici ed economici con i quali la dittatura bolscevica ha regnato per settant'anni, anche i comunisti di casa nostra devono criticare quelli che, con un eufemismo, chiamano "errori" del passato. Ma il fatto è che più che di errori si tratta di scelte consapevoli, perpetrate all'insegna dell'opportunismo e del più bieco autoritarismo. Oggi il comunismo marxista internazionale si trova sconfitto su tutti i fronti e lo è ancor di più quello italiano che, pur essendo da decenni il secondo partito, non solo non è riuscito ad andare al potere, ma neppure è stato in grado di far parte di una qualsiasi coalizione governativa. Non considera più il marxismo come l'unica e vera chiave di lettura della realtà, ma come un'interpretazione della storia che si è dimostrata molto fallace.
In economia accetta il mercato, la proprietà privata e per buona parte riconosce validi i presupposti del liberalismo. Ha abbandonato definitivamente la strategia rivoluzionaria e, pur continuando a riconoscere nella classe operaia un interlocutore privilegiato, non la identifica più come il centro motore della storia, mentre tenta di rivolgersi con sempre maggior insistenza alle classi medie e alla tecnocrazia dominante. Inoltre non addita più il cosiddetto socialismo realizzato dei paesi dell'est quale paradiso in terra cui guardare come futura meta sociale da eguagliare. In altre parole, non si riconosce più, né sostanzialmente né marginalmente, nell'identità politica e culturale per cui era sorto. Si trova perciò espropriato del livello simbolico di identificazione a cui per decenni avevano aderito grandi masse di diseredati e di oppressi, caricandolo di un'idealità di liberazione che nei fatti non gli è mai appartenuta.
Il PCI deve quindi rimodellarsi, perché non sa più cos'è. Dal momento dello strappo ufficiale da Mosca, nel tentativo abortito di mettere in piedi il berlingueriano eurocomunismo, ha praticamente passato il suo tempo a spiegare cosa non è, nel tentativo sudatissimo di convincere gli elettori e gli altri uomini politici che era un partito affidabile per andare al governo. Ma non gli è andata molto bene. Dopo tanta fatica è finalmente riuscito a far credere che non vuole più la rivoluzione, che non esproprierà i ricchi e che, se entrasse nelle stanze dei bottoni, tutto rimarrebbe come prima senza gli sconvolgimenti temuti. Ma contemporaneamente si trova di fronte alla necessità esistenziale di spiegare cosa vuole e, soprattutto, perché è indispensabile.
Ma dopo aver scelto di non voler più pervenire al comunismo, che è l'ideale per cui era sorto, non è facile spiegare dove si vuole arrivare. Tutti i tentativi fatti finora sono veramente stati poco convincenti: il compromesso storico, l'eurocomunismo, la terza via, il partito delle mani pulite, il governo di unità nazionale.
Tutte formule senz'altro indispensabili per il partito comunista, ma del tutto inutili per quelli che già gestiscono il potere e devono essere convinti. Con l'ultimo congresso di fine luglio, nonostante le premesse trovatosi nuovamente escluso dalla DC nella nuova lottizzazione delle riforme istituzionali, e contemporaneamente messo da parte dal PSI, che desidera vederlo ancora più bastonato e ammansito, si è trovato costretto a rispolverare l'opposizione "per una società veramente democratica e per una nuova sinistra alternativa". Il problema è che, costretto dai fallimenti storici a dire cosa non è più, ha rinnegato i presupposti di fondo del suo esistere, mentre non riesce a trovar la formula che ne giustifichi ancora l'esistenza. Può ormai solo dire che è il secondo partito ed ha un consenso enorme. Ma la tendenza dimostrata nelle ultime consultazioni, se non cambia il vento, sembra eludere anche questa carta.

Il nostro antibolscevismo
Personalmente sono convinto che il declino del PCI , anzi del bolscevismo internazionale, sia un bene. Con esso viene a cadere un'ambiguità di fondo, rappresentata dai principi stessi del marxismo, in cui si sono trovati invischiati i movimenti di emancipazione e di liberazione da oltre un secolo. Cioè che la via per pervenire a una forma sociale più libera e più giusta debba per forza passare attraverso le pratiche coattive e oppressive dello stato.
Come avevano previsto gli anarchici, la famosa fase di transizione, che avrebbe portato all'estinzione dello stato, si è risolta in un enorme bluff. Invece di estinguersi lo stato si è rafforzato, diventando la più potente dittatura mai messa in opera, quella burocratica. Adesso questa strategia sta dichiarando il fallimento. Ma i suoi fautori, invece di rivedere con saggezza l'errore strategico che li ha portati al fallimento, stanno dando ragione a quello che una volta era considerato il nemico, il capitalismo. Evidentemente il punto di vista che loro interessava più di ogni altro è quello del dominio. Fallita la strada autoritaria verso l'emancipazione, invece di imboccare finalmente quella della libertà, che si muove contro tutti i poteri compresi quelli capitalistici, preferiscono conservare l'autorità per dichiarare il non senso della rivoluzione e che questo sistema è l'unico possibile.
Io credo al contrario che il loro fallimento apra nuovi spazi di intervento. Il modello occidentale in ripresa, impregnato com'è di militarismo, di tecnologie antiecologiche, di autoritarismo e ingiustizia sociale, di una burocrazia sempre più asfissiante e sofisticata, generatore di enormi disuguaglianze sociali ed economiche, non può essere considerato a lungo il migliore dei mondi possibile. Si genereranno nuove utopie e nuove idealità, alla ricerca di una società più consona ai bisogni degli esseri umani.
Questa volta la via dell'autoritarismo, considerato in una falsa funzione di emancipazione, data appunto l'esperienza già vissuta dal bolscevismo, non dovrebbe più essere riproposta. Come si può vedere, il nostro radicale antibolscevismo ha ragioni opposte a quelle dei conservatori di vario grado, che stanno esultando nel veder languire il partito comunista. A loro serve per dire che bisogna agire per conservare il presente stato di cose. A noi per riaffermare la validità degli strumenti di libertà, che rifuggono ogni forma di dittatura e oppressione, per riuscire finalmente a soppiantare ciò che loro vogliono conservare.
Perché il presente sopravvive con l'oppressione, lo sfruttamento, le guerre, il genocidio ecologico e la supremazia per mezzo del denaro e delle armi di una minoranza di tecnocrati militaristi che impongono la loro volontà a tutti gli altri.