Rivista Anarchica Online
Radiografia di una crisi
di Andrea Papi
Ha perso voti, certo, ma
soprattutto non ha più un'identità "forte". Il PCI è alla ricerca
disperata di un nuovo simbolismo di redenzione. I conti con il passato: solo
"errori" o frutto inevitabile di scelte consapevoli?
Un argomento che durante l'estate ha
molto appassionato i cronisti nostrani riguarda quello che sta
avvenendo del e nel PCI. Un interesse comprensibile, dal momento che
la sorte a breve scadenza dell'attuale secondo partito nazionale sarà
decisiva dei futuri assetti politici di casa nostra.
Non si può tenere escluso
perennemente dal governo circa un quarto dell'elettorato, tenuto come
in salamoia in una forzata opposizione che non sente e non vuole da
almeno quindici anni. È
potenzialmente una mina vagante, in grado di procurare serie
difficoltà ai giochi dell'alta politica del palazzo, anche se,
a dire il vero, da qualche decennio nulla farebbe sospettare il
sorgere di una pericolosa opposizione comunista alle scelte dei vari
governi che si sono succeduti, se non qualche scaramuccia subito
rientrata regolarmente. Molto si è detto e, probabilmente, si
continuerà a dire sulla crisi ammessa in cui versa il partito
di Occhetto. Come quasi sicuramente assisteremo ad altri sommovimenti
ed altri colpi di scena. Il meccanismo di revisione in atto tra i
comunisti italiani sta rompendo uno ad uno tutti gli argini
ideologici entro cui si era asserragliato nei decenni, tentando di
costruirsi una barriera di sicurezza che, come tutte le ideologie,
col tempo ha dovuto fare i conti con la realtà e la propria
storia. Non si tratta solo di crisi del
consenso elettorale, anche se i riflettori dei media e dello stesso
partito in questione sembrano puntati su questo in particolare. Si
tratta soprattutto di una crisi di identità politica e
ideologica, di uno sradicamento sempre più radicale
dall'identità delle origini, dai cardini fondanti su cui è
sorto. In altre parole, per l'immaginario collettivo non rappresenta
più il simbolo della lotta di classe, del socialismo
realizzato quale paradiso in terra, della riscossa dei poveri e dei
diseredati, i quali fino a ieri lo sentivano come il punto di
riferimento per una nuova società fondata sull'uguaglianza e
la giustizia sociale.
Il PCI è alla ricerca disperata
di un nuovo simbolismo di redenzione, che lo dovrebbe riscattare agli
occhi di chi pretende ancora di rappresentare.
Sudditanza totale
È necessario richiamare alla
mente per sommi capi le ragioni storiche per cui nacque il P.C.d'I.
(allora si autodenominò con questa sigla), che col congresso
di Livorno nel 1921 sancì lo scisma dal PSI, da tempo
nell'aria. Sorse così come ala rivoluzionaria che si era
solidamente formata all'interno del socialismo parlamentare
riformista. La scissione dal PSI, su ordine di
Mosca, servì a creare in Italia un terminale bolscevico. La
situazione sovversiva, che era sfociata nell'occupazione delle
fabbriche, aveva fatto giustamente supporre a Lenin che l'Italia
fosse il paese d'Europa più vicino alla rivoluzione dopo
quella avvenuta in Russia nel '17.
Diveniva strategicamente indispensabile
avere un partito specifico, solidamente organizzato su basi
marxiste-leniniste, che, sulle orme di quello sovietico, al momento
opportuno fosse in grado di prendere il potere e di tenerlo
saldamente. Così il PCI sorse come braccio di Mosca,
riproduttore sul suolo nazionale dei principi e dei metodi
bolscevichi. La sua base teorica era il marxismo-leninismo, la sua
strategia la rivoluzione per la presa del potere, il suo collegamento
sul piano internazionale il socialismo realizzato in URSS.
Questa sua sudditanza a Mosca è
rimasta praticamente totale fino al dopoguerra. Togliatti infatti,
dopo esser riuscito a liberarsi di Bordiga, Tasca, Silone e in un
certo senso anche di Gramsci, il quale morendo in carcere non poté
che essere una vittima del fascismo, divenne uno dei fedelissimi di
Stalin, arrivando persino a ricoprire incarichi internazionali per
conto del Comintern, come appunto fu per la Spagna durante il periodo
della rivoluzione del '36.
Dopodiché, sempre attraverso il
capo indiscusso Togliatti, pur rimanendo fedele teoricamente
all'impianto delle origini, dapprima in modo ambiguamente poco
chiaro, poi in modo sempre più trasparente, cercò di
impostare una via nazionale al socialismo, che abbandonava la
strategia rivoluzionaria per tentare di prendere il potere attraverso
il consenso elettorale. Ma fino all'ormai noto strappo berlingueriano
continuò a presentare l'esperienza in atto in URSS come una
specie di paradiso in terra, il punto di riferimento per il tipo di
società che veniva proposto. Oggi il PCI è costretto, oltre
che a difendersi, a rinnegare in parte il suo passato. Sulla spinta
della perestrojka gorbacioviana, che sta cercando di rifare
un'immagine decente alla potenza dell'URSS, col condannare i crimini
staliniani e col rimettere in discussione i fondamenti politici ed
economici con i quali la dittatura bolscevica ha regnato per
settant'anni, anche i comunisti di casa nostra devono criticare
quelli che, con un eufemismo, chiamano "errori" del
passato. Ma il fatto è che più che di errori si tratta
di scelte consapevoli, perpetrate all'insegna dell'opportunismo e del
più bieco autoritarismo. Oggi il comunismo marxista
internazionale si trova sconfitto su tutti i fronti e lo è
ancor di più quello italiano che, pur essendo da decenni il
secondo partito, non solo non è riuscito ad andare al potere,
ma neppure è stato in grado di far parte di una qualsiasi
coalizione governativa. Non considera più il marxismo come
l'unica e vera chiave di lettura della realtà, ma come
un'interpretazione della storia che si è dimostrata molto
fallace.
In economia accetta il mercato, la
proprietà privata e per buona parte riconosce validi i
presupposti del liberalismo. Ha abbandonato definitivamente la
strategia rivoluzionaria e, pur continuando a riconoscere nella
classe operaia un interlocutore privilegiato, non la identifica più
come il centro motore della storia, mentre tenta di rivolgersi con
sempre maggior insistenza alle classi medie e alla tecnocrazia
dominante. Inoltre non addita più il cosiddetto socialismo
realizzato dei paesi dell'est quale paradiso in terra cui guardare
come futura meta sociale da eguagliare. In altre parole, non si
riconosce più, né sostanzialmente né
marginalmente, nell'identità politica e culturale per cui era
sorto. Si trova perciò espropriato del livello simbolico di
identificazione a cui per decenni avevano aderito grandi masse di
diseredati e di oppressi, caricandolo di un'idealità di
liberazione che nei fatti non gli è mai appartenuta.
Il PCI deve quindi rimodellarsi, perché
non sa più cos'è. Dal momento dello strappo ufficiale
da Mosca, nel tentativo abortito di mettere in piedi il
berlingueriano eurocomunismo, ha praticamente passato il suo tempo a
spiegare cosa non è, nel tentativo sudatissimo di convincere
gli elettori e gli altri uomini politici che era un partito
affidabile per andare al governo. Ma non gli è andata molto
bene. Dopo tanta fatica è finalmente riuscito a far credere
che non vuole più la rivoluzione, che non esproprierà i
ricchi e che, se entrasse nelle stanze dei bottoni, tutto rimarrebbe
come prima senza gli sconvolgimenti temuti. Ma contemporaneamente si
trova di fronte alla necessità esistenziale di spiegare cosa
vuole e, soprattutto, perché è indispensabile.
Ma dopo aver scelto di non voler più
pervenire al comunismo, che è l'ideale per cui era sorto, non
è facile spiegare dove si vuole arrivare. Tutti i tentativi
fatti finora sono veramente stati poco convincenti: il compromesso
storico, l'eurocomunismo, la terza via, il partito delle mani pulite,
il governo di unità nazionale.
Tutte formule senz'altro indispensabili
per il partito comunista, ma del tutto inutili per quelli che già
gestiscono il potere e devono essere convinti. Con l'ultimo
congresso di fine luglio, nonostante le premesse trovatosi nuovamente
escluso dalla DC nella nuova lottizzazione delle riforme
istituzionali, e contemporaneamente messo da parte dal PSI, che
desidera vederlo ancora più bastonato e ammansito, si è
trovato costretto a rispolverare l'opposizione "per una società
veramente democratica e per una nuova sinistra alternativa". Il
problema è che, costretto dai fallimenti storici a dire cosa
non è più, ha rinnegato i presupposti di fondo del suo
esistere, mentre non riesce a trovar la formula che ne giustifichi
ancora l'esistenza. Può ormai solo dire che è il
secondo partito ed ha un consenso enorme. Ma la tendenza dimostrata
nelle ultime consultazioni, se non cambia il vento, sembra eludere
anche questa carta.
Il nostro antibolscevismo
Personalmente sono convinto che il
declino del PCI , anzi del bolscevismo internazionale, sia un bene.
Con esso viene a cadere un'ambiguità di fondo, rappresentata
dai principi stessi del marxismo, in cui si sono trovati invischiati
i movimenti di emancipazione e di liberazione da oltre un secolo.
Cioè che la via per pervenire a una forma sociale più
libera e più giusta debba per forza passare attraverso le
pratiche coattive e oppressive dello stato.
Come avevano previsto gli anarchici, la
famosa fase di transizione, che avrebbe portato all'estinzione dello
stato, si è risolta in un enorme bluff. Invece di estinguersi
lo stato si è rafforzato, diventando la più potente
dittatura mai messa in opera, quella burocratica. Adesso questa
strategia sta dichiarando il fallimento. Ma i suoi fautori, invece di
rivedere con saggezza l'errore strategico che li ha portati al
fallimento, stanno dando ragione a quello che una volta era
considerato il nemico, il capitalismo. Evidentemente il punto di
vista che loro interessava più di ogni altro è quello
del dominio. Fallita la strada autoritaria verso l'emancipazione,
invece di imboccare finalmente quella della libertà, che si
muove contro tutti i poteri compresi quelli capitalistici,
preferiscono conservare l'autorità per dichiarare il non senso
della rivoluzione e che questo sistema è l'unico possibile.
Io credo al contrario che il loro
fallimento apra nuovi spazi di intervento. Il modello occidentale in
ripresa, impregnato com'è di militarismo, di tecnologie
antiecologiche, di autoritarismo e ingiustizia sociale, di una
burocrazia sempre più asfissiante e sofisticata, generatore di
enormi disuguaglianze sociali ed economiche, non può essere
considerato a lungo il migliore dei mondi possibile. Si genereranno
nuove utopie e nuove idealità, alla ricerca di una società
più consona ai bisogni degli esseri umani.
Questa volta la via dell'autoritarismo,
considerato in una falsa funzione di emancipazione, data appunto
l'esperienza già vissuta dal bolscevismo, non dovrebbe più
essere riproposta. Come si può vedere, il nostro radicale
antibolscevismo ha ragioni opposte a quelle dei conservatori di vario
grado, che stanno esultando nel veder languire il partito comunista.
A loro serve per dire che bisogna agire per conservare il presente
stato di cose. A noi per riaffermare la validità degli
strumenti di libertà, che rifuggono ogni forma di dittatura e
oppressione, per riuscire finalmente a soppiantare ciò che
loro vogliono conservare.
Perché il presente sopravvive
con l'oppressione, lo sfruttamento, le guerre, il genocidio ecologico
e la supremazia per mezzo del denaro e delle armi di una minoranza di
tecnocrati militaristi che impongono la loro volontà a tutti
gli altri.
|