Rivista Anarchica Online
Dignità vo cercando
di Agostino Manni
In queste due lettere dalle carceri
militari (rispettivamente di Bari e di S. Maria Capua Vetere),
l'obiettore totale Agostino Manni racconta le vicende di altri
detenuti: storie del Sud, di miseria, di ignoranza. Ma anche storie della brutalità
e dell'arroganza del sistema carcerario, della sua logica, delle sue
assurde regole.
Piscitelli Pier Paolo: nato in
provincia di Bari, 22 anni, sposato, muratore; quasi due anni di pena
sospesa per 4 diserzioni successive, in attesa di giudizio per la
quinta. Tra un processo e l'altro ha già scontato diversi mesi
di carcere militare. Nel frattempo si è separato dalla moglie,
ed è "scappato" come si dice dalle nostre parti -
con un'altra donna, una ragazza di 17 anni che adesso vive in casa
del padre di lui ed è incinta. Quasi certamente al prossimo
giudizio subirà una condanna sufficiente a fargli scontare
anche tutta la pena sospesa: anni di carcere militare. Oltre a questo
deve ancora fare 9 mesi di naja.
Così ha pensato a quella che per
lui, nei fatti, è la sola alternativa al carcere: farsi dare
la "riforma", attraverso uno dei tanti articoli (come il
famoso art. 41.: "crisi depressive"). E per convincere le
autorità sanitarie dei suoi inesistenti problemi psicologici
per ben due volte si è scolato bicchieri di detersivo per
piatti; col solo risultato di aggiungere, al già lungo
curriculum della sua scheda biografica, una denuncia per "procurata
lesione". Versienti Luigi: 21 anni,
contadino, nato in provincia di Brindisi, una condanna a 21 mesi di
reclusione diventata definitiva alla quarta diserzione. Ne ha
scontati sette: quando uscirà dal carcere dovrà ancora
svolgere 10 mesi di servizio militare.
Intanto si è procurato una
brutta frattura ad una caviglia, giocando a pallone nel cortile.
Zoppica malamente ma la sola terapia praticatagli consiste nella
somministrazione di pillole di calcio: niente fisioterapia, nessuna
attività di riabilitazione. Avrebbe voluto inoltrare una
domanda per l'affidamento in prova al servizio sociale, ma le
autorità del carcere - non avendo a disposizione il personale
necessario per il disbrigo della pratica (psicologi, educatori,
psichiatri, criminologi) e non volendo prendersi il fastidio di un
trasferimento - gli hanno fatto credere che per farlo bisognava
attendere di aver scontato almeno metà della pena, quando
invece basta che sia trascorso un solo mese dalla condanna
definitiva. Intanto lui marcisce in galera. Non sa leggere né
scrivere; le sole cose che lo aiutano a far passare il tempo sono le
carte, la radio, il biliardino e, la sera, la televisione.
Non sa leggere né scrivere anche
Angelo Masiello: della provincia di Matera, disoccupato, due
diserzioni, da 20 giorni in attesa di giudizio. Ha già
scontato tre anni di carcere civile per una rapina ad un distributore
compiuta a 18 anni (ora ne ha quasi 23), per la quale il Tribunale di
Matera lo ha condannato, in primo grado, a 7 anni e mezzo di
reclusione. Sette anni e mezzo di vita per aver rapinato un
distributore.
È arrivato qui dopo la seconda
diserzione. Dopo una breve licenza non è più rientrato
in caserma; dice che, poco prima di prendere il treno per raggiungere
la destinazione (Trapani, a due passi da casa!), ha saputo che sua
madre era ammalata e non è più partito. "Avevano
bisogno di me", dice, "non potevo andare via".
Aveva bisogno di lui anche sua moglie,
che adesso è incinta e campa raccogliendo finocchi per 25.000
lire al giorno (la stessa miseria che davano a lui, nei sette mesi in
cui ha lavorato , tra il carcere e la caserma).
Qui a Bari l'hanno messo in cella con
tre testimoni di Geova, i più bigotti di tutto il carcere;
così il tempo non gli passa mai, e in soli 20 giorni è
diventato nervoso come una bestia. Oltretutto ha paura che al
processo non gli venga concessa la sospensione condizionale della
pena a causa dei suoi precedenti penali; e questo non fa che
aumentare il suo nervosismo.
È
già successo ad un altro, Elia Ranieri: 25 anni, della
provincia di Foggia, precedenti penali per furto e spaccio di
stupefacenti. È
l'ottavo figlio di una famiglia di 14 persone e in questi giorni è
felice perché i suoi familiari, dopo averla chiesta per anni,
hanno ottenuto una casa popolare nel paese.
Quando lavora "onestamente"
fa il pizzaiolo. A causa dei suoi precedenti, nonostante fosse la
prima diserzione, ha dovuto scontare la condanna e si è fatto
i suoi bei sette mesi di carcere militare.
Qualche giorno fa Angelo mi ha chiesto
se avevo qualcosa in contrario a che si facesse trasferire nella mia
cella; gli ho detto che non c'era problema (oltre a tutto ci vivo da
solo) , e che anzi ero contento, così avrei potuto insegnargli
a leggere e a scrivere nei giorni che mancavano alla data del
processo. Era felice. E io che lo fosse.
Non ha quasi più denti (e non ha
ancora 23 anni), a causa della cioccolata che ha divorato nel carcere
civile. Ha il corpo quasi interamente coperto da una infinità
di tatuaggi: dice che era questo un modo per passare il tempo, nei
tre anni che ha trascorso lì. Ora però li odia, questi
segni che "sporcano" il suo corpo; glieli ha fatti odiare
la gente, che non ci mette certo molto a indovinare il suo passato
quando li vede. Certe volte li guarda con rabbia, come se volesse
strapparseli insieme alla pelle, come se volesse grattarseli via a
sangue. Non deve essere facile, per lui, vivere in mezzo ai
pregiudizi. L'altra mattina si è messo "a rapporto"
dal tenente per ottenere il trasferimento nella mia cella, e io
dietro a lui, per sostenere la sua richiesta.
Fuori dall'ufficio, l'ho sentito che
supplicava; e ho sentito la solita arroganza dell'ufficiale, quando
si rivolge ai detenuti "comuni". A me dà del "lei"
e parla con gentilezza: ma per Angelo non c'è stato lo stesso
niente da fare: non hanno voluto che venisse in cella con me.
Un meccanismo perverso
Qui a Bari mi tengono lontano dai
detenuti comuni; forse hanno paura che i miei discorsi di ribellione
possano far presa su di loro. Dei testimoni non hanno paura: la loro
obbedienza verso l'autorità e prescritta dalle bibbie. ("Dai
a Cesare quel che è di Cesare...") e loro seguono alla
lettera i principi di quel libro nero che portano sempre sotto il
braccio.
"Non voglio insegnargli la
rivoluzione - ho detto al tenente - voglio solo che impari a
scrivere, così che possa mandare una lettera alla sua donna
senza dover subire l'umiliazione di dettarla a qualcun altro".
Ma non c'è stato nulla da fare: ho solo ottenuto che lo
trasferissero in un'altra cella, dove c'è un altro disertore
col quale almeno può giocare a carte e scherzare un po'.
Non soffro per la mia condizione. La
conflittualità quasi quotidiana dei primi giorni mi
inorgogliva; e ho la consapevolezza di essere un "problema"
per le autorità del carcere, un "caso" difficile da
gestire.
Questo mi dà delle "garanzie",
e mi permette di vivere in una situazione di fatto "privilegiata"
rispetto agli altri detenuti, anche se conquistarmela mi è
costato già un paio di denunce: indosso abiti civili, non
svolgo servizi di nessun tipo, ho ottimi rapporti con i soldati, non
conosco l'arroganza che caratterizza l'atteggiamento dei militari nei
confronti degli altri detenuti.
Conosco invece benissimo i miei
"diritti"; quei pochi che ho e che devo riaffermare giorno
per giorno, contro le abitudini autoritarie e le prepotenze che i
militari hanno imposto in questo carcere, forti del servilismo
irritante dei "testimoni" e dell'ignoranza dei "comuni".
Un'ignoranza che fa paura: ignoranza dei propri diritti, ignoranza
delle proprie condizioni, ignoranza delle cause come delle
conseguenze dei propri comportamenti.
Questi giovani sono come "catturati"
in un meccanismo giuridico perverso, dal quale difficilmente qualcuno
di loro può venire fuori in un modo diverso da quello di
accettare alla fine, dopo il carcere, di fare il soldato, o di farsi
riformare come "pazzo" . Chi può tirarli fuori di
qui, chi può migliorare la loro situazione, se hanno dovuto
aspettare che arrivassi io solo per vedersi restituire il pallone che
- dopo l'incidente di Versienti - le autorità avevano
sequestrato?. Non soffro per la mia condizione: che
anzi guardo con una buona dose di ironia, costretto - come sono - a
rischiare mesi e mesi di galera per vedermi riconosciuta la libertà
di vestire come mi pare e piace, e a lottare per poter avere uno
schifo di pallone, per togliere un po' della ruggine che mi sta
bloccando le ossa. Non è per me che sto male. Ma quando ho
visto Piscitelli sdraiato per terra che si lamentava e si premeva
forte lo stomaco dopo aver bevuto mezzo litro di detersivo, ho dovuto
davvero mordermi le mani, e sforzarmi di trovare qualche rara buona
ragione per non odiare questo mondo più di quanto già
lo detesti.
E mi è successo di pensare che,
in fondo, noi siamo dei "privilegiati" di fronte a questa
gente; perché abbiamo avuto una "fortuna" che loro
non hanno e che rende la nostra vita profondamente diversa dalla loro
e più "facile" da vivere. Abbiamo avuto la fortuna
di "sapere", di poter conquistare se non il controllo
certamente la consapevolezza delle nostre azioni e dei pensieri che
li determinano. Cosicché il più delle volte, certamente
non sempre, abbiamo la possibilità di "scegliere" da
quale parte schierarci, per che cosa lottare; e di sapere che, o in
uno schifoso pallone o in una misera camicia, o in una meravigliosa
utopia sociale, è sempre la nostra dignità di uomini
liberi quello che stiamo ostinatamente cercando.
Quando l'oppressione è più
forte
molti si perdono d'animo
ma in lui cresce il coraggio (...)
Egli organizza la sua lotta
Per il soldino in più, per il tè
caldo,
per (la conquista) l'abolizione dello
stato.
Domanda alla proprietà:
da dove vieni?
Alle opinioni domanda:
a chi servite?
Dove sempre si tace, egli parlerà.
Dove regna l'oppressione e gli si parla
di destino
dirà forte i nomi (...)
Quando lo cacciano, là dove va
va la rivolta.
Bertold Brecht
All'indomani del suo trasferimento
dal carcere militare di Bari-Palese a quello di Santa Maria Capua
Vetere (Caserta), dov'è tuttora detenuto, Agostino Manni ci ha
inviato questa "integrazione" sugli sviluppi delle vicende
di alcuni suoi compagni di galera a Bari-Palese..
Alle ultime elezioni amministrative
mio padre ha fatto il presidente di seggio.
Non ha simpatia per nessun partito; per
lui la politica è solo "una cosa sporca". Soltanto
dice che "qualche soldo in più non fa mai male".
Mia madre mi ha raccontato di averlo
visto tornare a casa in lacrime, un giorno, perché in un
seggio accanto al suo, durante lo spoglio delle schede, ne hanno
trovata una con la scritta "Agostino, perché sei
dentro?". Immagino che continuino a chiederselo anche Angelo, e
Piscitelli, e tutti gli altri, "perché sono dentro".
Si trovano tutti ancora nel carcere
militare di Bari: dopo il mio trasferimento a Santa Maria Capua
Vetere, un testimone di Geova, al quale avevo affidato questo
incarico, mi ha dato notizie sulle loro vicende giudiziarie. Non l'ho
chiesto direttamente a loro perché avrebbero pensato che
"portava male"; e poi Angelo non sa scrivere, e Piscitelli
faceva troppa fatica anche lui, con la penna in mano.
Purtroppo è andata come
immaginavo io: Masiello è stato condannato a 5 mesi, senza il
beneficio della sospensione condizionale della pena. A Piscitelli ne
hanno dati 21, anche a lui senza condizionale, per il cumulo delle
pene precedenti.
Quando potranno vederli, i loro figli
saranno già cresciuti ; nel frattempo consumeranno mazzi di
carte sudate e bestemmieranno il Dio che i loro compagni di cella
aspettano con ansia.
Elia, invece, non sta più a
Bari. Il giorno dopo che sono arrivato qui, appena giunto nel reparto
detenuti (dopo un giorno di isolamento, e di ricatti - inutili -
affinché accettassi di indossare la divisa carceraria), mi
sono sentito chiamare da una voce che mi sembrava di conoscere: era
lui. L'hanno scarcerato da Bari il giorno di Pasqua, con l'obbligo di
presentarsi al corpo il giorno dopo. Sette mesi di carcere e neanche
qualche ora di libertà, prima di rientrare in caserma. Ma ci è
andato lo stesso.
Solo che lì, quando si è
reso conto che - a differenza di quanto gli era stato promesso a Bari
- nessuno aveva intenzione di ricoverarlo in ospedale, affinché
fossero avviate le pratiche per la riforma, ha messo in atto una
"strana forma" di protesta: si è rifiutato di
indossare la divisa.
Gli hanno dato 2 mesi per "rifiuto
di obbedienza". Al processo il Pubblico Ministero ha chiesto una
condanna più pesante, dicendo che era stato evidentemente
influenzato dal contatto con gli obiettori durante la precedente
carcerazione e che per questo doveva essere punito più
severamente.
È
stato scarcerato da Santa Maria Capua Vetere ai primi di giugno: la
sua nuova destinazione era Trieste, ma doveva passare da Padova per
una vecchia causa civile.
Prima di andare via, ha detto che
quando saremo liberi "dovremo incontrarci ancora, per fondare un
comitato anarchico a Vieste", il suo paese. Ha detto proprio
così.
Io ho riso e gli ho promesso che lo
faremo. "Anche se, per questo, non hai nessun bisogno di me gli
ho detto - ti prometto che lo faremo". Quando saremo liberi.
Agostino Manni
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