Rivista Anarchica Online
Mass-media a colori
di Francesco Ranci
Un razzismo strisciante può
passare anche attraverso l'uso retorico di certe categorie utilizzate
dalla stampa nei titoli e nei commenti sugli immigrati. Riflettere su questo può
anche essere utile per individuare un razzismo ipocrita e uno
sincero.
Un "cambio di marcia"
nell'impegno da parte della principale stampa quotidiana, sul tema
dell'immigrazione e del presunto razzismo si può far
risalire già al penultimo autunno scorso. Con questo recupero
di articoli ormai vecchi, vorrei dare senso al concetto di "presunto
razzismo": è chiaro che, dopo quasi due anni in cui la
stampa invoca il razzismo, qualcuno comincia a capire che può
finire in prima pagina più facilmente un"razzista" o
un "anti-razzista", piuttosto che un "papista" o
un "antipapa", o altri.
Nelle "cronache italiane" del
Corriere della Sera 11/11/'88, troviamo un pezzo intitolato
"Sboccia il sindacato dei derelitti", contiene un'indagine
approssimativa sui lavoratori provenienti dal Terzo Mondo, è
condito con frasi come "una questione solo apparentemente
marginale", "Rimaner distratti sul caso dei 'neri
d'Italia', tuttavia, presto non sarà più
possibile", "Domande che serpeggiano, ogni giorno più
rivelatrici di inquietudine e veleno", "dietro di loro si
muovono milioni d'altri diseredati", insomma, l'articolo
sollecita una nuova consapevolezza, e nel far questo affronta da un
punto di vista contrattuale un problema che si vuole spesso e
volentieri caricare di vari misticismi e moralismi , tra cui
razzismo, cristianesimo, democraticismo borghese, e chi più ne
ha... Lo "sbocciare" del "sindacato dei derelitti",
che suona letteralmente un po' mortificante, si traduce
nell'occhiello con una formulazione meno metaforica, internamente più
omogenea, nonché più neutra, "Si moltiplicano le
associazioni di africani, orientali, sudamericani venuti a cercare
lavoro". E' chiaro allora come, nel titolo, dalla metafora dello
sbocciare vadano presi più gli aspetti quantitativi, che non
quelli qualitativi (negati da "derelitti"). E' insomma una
primavera che può incantare, intenerire, ma che soprattutto
deve preoccupare e intimorire, mettere a disagio i non-derelitti. Se
passiamo al sommario, infatti, troviamo subito: "Un esercito di
un milione di immigrati", dove spicca la compattezza, piuttosto
fittizia nel caso, suggerita dal termine "esercito", al
singolare, cioè gli immigrati visti come un unico blocco
aggressivo, mosso da interessi contrapposti radicalmente a quelli di
noi locali. Tutta una serie di espressioni come "assedio",
"invasione", etc., ricorrenti nella stampa, si possono
ricondurre a questa paura più o meno marcata ("Caccia al
lavoro non più nero" è un curioso titolo dove la
paura viene attutita grazie al doppio senso di "nero":
"illegale" e ""razza diversa"). Si passa poi
alla sviolinata, estetizzante e coscienziosa: "Gente venuta
d'oltremare che invoca i primi elementari diritti civili – La
S.r.L. di manovali senegalesi a Genova e i contadini zairesi
nell'Agro Aversano – Le stesse rivendicazioni dei nostri
concittadini che sbarcavano 80 anni fa a New York – Un problema
che esploderà nel '92", che si conclude enunciando la
contrapposizione di interessi, quella "vera", quella fra
extra-comunitari ed Europa unita.
Razzismo e cattivo gusto
Il tema del razzismo è
affrontato esplicitamente solo nell'articolo, dopo che il lettore è
già ben indirizzato, e mediante la tecnica, frequentemente
usata, di presentare lo stereotipo dell'opinione condannabile,
che può essere anonima, o del tassista, della vecchietta che
passa, etc., su cui il giornalista medesimo che l'ha coniata può
sfogare la sua indignazione morale e culturale.
Primo esempio: "Ma questi africani
non portano via il posto ai nostri giovani in cerca d'occupazione?";
Maurizio Breda, non contento di aver già definito tale dubbio
"ipocrita" e "dettato dalla disinvolta ignoranza del
problema", aggiunge da parte sua una "ovvia risposta
negativa, perché non esiste più nessuno di noi che
accetti di fare certi lavori, a certe condizioni e a certi salari".
Come dire che proprio sulle spalle altrui ci si arrampica, se no che
vita è?
Secondo esempio: "Bisogna fermare
sul bagnasciuga gli immigrati, altrimenti dove andranno a finire
l'Italia e gli italiani?", e questo viene definito un dubbio "di
segno nettamente peggiore, razzista alla Le Pen", cui "non
vale neppure la pena di tentare di rispondere". Ma visti i voti
che prende Le Pen varrebbe forse la pena di rispondere, (dicendo
magari che dell'Italia e degli italiani si può
benissimo fare a meno). La distinzione fra i due livelli di razzismo,
ipocrita e sincero, tuttavia, non è da buttare.
Su "La Repubblica"
(10/12/'88) un fatto descritto così: "un negozio di
abbigliamento femminile ha assunto il cittadino senegalese Issan
Niang, di 35 anni, per indossare un costume africano", viene
preceduto dal titolo "vu' cumprà finisce in vetrina
nel centro di Pescara", e dall'inquietante sommario "Senegalese
trasformato in manichino vivente", e infine dalle frasi "chi
vuol comprare un vu' cumprà?".
Mancava soltanto questa nell'elenco
degli episodi di razzismo, o quanto meno di cattivo gusto, che stanno
accompagnando il fenomeno dell'immigrazione in Italia. Mancava, ma
puntualmente è arrivata....
Ma la pretesa contiguità fra
razzismo e cattivo gusto denota almeno l'ipocrisia del perbenista di
sinistra, che si considera superiore (non considera nemmeno
l'eventualità di prescindere da questa differenza razziale) e
però considera brutto rinunciare alla finzione
dell'uguaglianza sociale. Chi tanto grida al razzismo, spesso, è
proprio il razzista medesimo (non certo chi il razzismo non sa
nemmeno che cosa sia).
Più recentemente, su "Il
Giornale", (26/3/1990) sotto il titolo "I lumbard
rigirano a Pontida: referendum contro i vu' cumprà",
ossia "per abrogare la legge Martelli che apre le porte agli
immigrati extra europei" (ove si sorvola sulla implausibilità
dell'aprire una porta a chi ha già varcato la soglia, in
omaggio a un "apre le porte" ancor più metaforico),
si legge una divertente dichiarazione dell'europarlamentare Francesco
Speroni: "Non siamo razzisti e non vogliamo mandare via nessuno,
ma non possiamo accettare che migliaia di negri rubino il posto ai
lombardi solo per far piacere ad Agnelli che vuol pagare poco gli
operai". Un'argomentazione sostanzialmente ineccepibile dal
punto di vista sindacale e umano, con un'ammiccante concessione
stilistica al patrimonio storico della sinistra, nella frase fatta
conclusiva; ma che nel suo negare di essere razzista non è
del tutto convincente (avesse detto "immigrati" sarebbe
stato nei confini di un più sicuro schema
demografico-economico, nel quale potrebbe rimanere solo se sostenesse
che a fare gli operai ci vengono solo, o quasi solo, negri; e
tuttavia non differenziando, fra negri e negri, continua a mantenere
valida almeno la contiguità fra negro e sottopagato).
È appunto con l'uso retorico di
certe categorie, che spesso circola il cosiddetto razzismo
strisciante. Un uso in cui si comunica un significato
simboleggiandolo in modo volutamente impreciso: ad esempio
simboleggiandone solo una parte, anche per dare la possibilità
al destinatario di estendere a piacere i confini del tutto a cui
applicare il giudizio di valore sottinteso (i lavoratori che
arrivano, negri o non negri: sono negri), o viceversa, indicando
esplicitamente un tutto, da cui si trae la parte effettivamente
designata (i negri che arrivano sono quelli poveri, ma non stiamo a
specificare, il fatto grave è che sono negri). Il fatto che
Speroni non abbia usato una figura retorica ben precisa non significa
che il suo riferimento ai negri non sia retorico, visto che non è
considerabile come tale in almeno due modi.
"Morire nel fuoco"
Un razzismo strisciante si può
riscontrare anche nell'uso in definitiva improprio di parole
straniere, in titoli come "Nei gran bazar della Romania"
(occhiello "La nazionale di calcio a Marsiglia assediata
da mercanti e profittatori soprattutto italiani", vale a dire: i
mercanti fanno mercato, mentre i mercanti e profittatori fanno bazar,
Corriere 29/1/'90). L'accenno agli italiani (profittatori),
come già quello precedente di Repubblica (razzisti), si
contrappongono alle argomentazioni contrarie all'immigrazione per
ragioni vetero-patriottiche, non a quelle stile Lega Lombarda, né
a quelle stile Europa '92. I sospetti riguardano anche un titolo come
"Firenze: quei quattro marocchini devono morire nel fuoco"
(Corriere 30/3/'90) dove Firenze dovrebbe rappresentare solo
il luogo, ma i due punti e la frase seguente lo rendono una specie di
soggetto che afferma.
Si può anche individuare, nelle
cronache, un uso più insistito di riferimenti ai colori, per
evidenziare contrapposizioni o semplicemente per catturare
l'attenzione, sulla scia dei sempre più considerati fattacci
di cronaca che coinvolgono italiani e stranieri di colore, o presunti
tali in virtù del colore (da "Quel nero non ha colpe"
a "Città bianca tonaca nera", titolo sulla ripresa
delle vocazioni a Bergamo, che, magari, in un altro frangente avrebbe
ricevuto un'impostazione priva di riferimenti cromatici, esempi
tratti da Repubblica).
Nello stesso Corriere 30/3/'90,
sia il sommario che l'editoriale riportano (nel contesto dell'eterno
dipanarsi della crisi di Governo) che i demitiani "denunciano il
rischio di 'scolorire' le ragioni dello scudo crociato".
È vero che una continuità fra colori ed emozioni è
sempre a portata di penna, e da qui agli ideali e alla politica il
passo è breve. Se è concessa una divagazione, un famoso
storico del linguaggio dice che "Secondo le tradizioni
indoiraniche, la società è organizzata in tre classi di
attività: preti, guerrieri, coltivatori. Nell'India vedica
queste classi si chiamano "colori", Varna. In Iran,
esse si chiamano pistra, "mestiere" il cui senso
etimologico è però "colore". Bisogna prendere
la parola nella sua accezione letterale: si tratta proprio di colori.
E' a causa del colore dei loro vestiti che in Iran si distinguevano
le tre classi - il bianco per i preti, il rosso per i guerrieri, il
blu per i coltivatori - secondo un simbolismo profondo che proviene
da antiche classificazioni note in molte cosmologie, che associano
l'esercizio di un'attività fondamentale con un certo colore
legato anch'esso a un punto cardinale" (E. Benviste, "Il
vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 1969-1976"). Ma è anche vero che il gergo
politico, il quotidiano esercizio di allusioni e metacomunicazioni
del potere, è fra i maggiormente inclini a raccogliere, fra
stereotipi in vigore nel linguaggio ordinario, quelli che hanno una
capacità valorizzante, in positivo o in negativo, che sembra
più fresca e intatta (almeno per categorie come giovani,
distratti, vacui, etc.). Perciò il richiamo allo ""scolorire"
- già usato sicuramente da altri, fra cui Andreotti alla fine
degli anni '70 senza alcun riferimento a problemi di razzismo -
potrebbe aver avuto successo nei confronti di una possibile
alternativa come "indebolire", "non far valere fino in
fondo", "accantonare", "sacrificare", etc.,
anche in conseguenza dei fatti di Firenze e di polemica governativa
sull'immigrazione.
Il colore dello scudo crociato è,
naturalmente, il bianco.
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