Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 173
maggio 1990


Rivista Anarchica Online

Mass-media a colori
di Francesco Ranci

Un razzismo strisciante può passare anche attraverso l'uso retorico di certe categorie utilizzate dalla stampa nei titoli e nei commenti sugli immigrati. Riflettere su questo può anche essere utile per individuare un razzismo ipocrita e uno sincero.

Un "cambio di marcia" nell'impegno da parte della principale stampa quotidiana, sul tema dell'immigrazione e del presunto razzismo si può far risalire già al penultimo autunno scorso. Con questo recupero di articoli ormai vecchi, vorrei dare senso al concetto di "presunto razzismo": è chiaro che, dopo quasi due anni in cui la stampa invoca il razzismo, qualcuno comincia a capire che può finire in prima pagina più facilmente un"razzista" o un "anti-razzista", piuttosto che un "papista" o un "antipapa", o altri.
Nelle "cronache italiane" del Corriere della Sera 11/11/'88, troviamo un pezzo intitolato "Sboccia il sindacato dei derelitti", contiene un'indagine approssimativa sui lavoratori provenienti dal Terzo Mondo, è condito con frasi come "una questione solo apparentemente marginale", "Rimaner distratti sul caso dei 'neri d'Italia', tuttavia, presto non sarà più possibile", "Domande che serpeggiano, ogni giorno più rivelatrici di inquietudine e veleno", "dietro di loro si muovono milioni d'altri diseredati", insomma, l'articolo sollecita una nuova consapevolezza, e nel far questo affronta da un punto di vista contrattuale un problema che si vuole spesso e volentieri caricare di vari misticismi e moralismi , tra cui razzismo, cristianesimo, democraticismo borghese, e chi più ne ha... Lo "sbocciare" del "sindacato dei derelitti", che suona letteralmente un po' mortificante, si traduce nell'occhiello con una formulazione meno metaforica, internamente più omogenea, nonché più neutra, "Si moltiplicano le associazioni di africani, orientali, sudamericani venuti a cercare lavoro". E' chiaro allora come, nel titolo, dalla metafora dello sbocciare vadano presi più gli aspetti quantitativi, che non quelli qualitativi (negati da "derelitti"). E' insomma una primavera che può incantare, intenerire, ma che soprattutto deve preoccupare e intimorire, mettere a disagio i non-derelitti. Se passiamo al sommario, infatti, troviamo subito: "Un esercito di un milione di immigrati", dove spicca la compattezza, piuttosto fittizia nel caso, suggerita dal termine "esercito", al singolare, cioè gli immigrati visti come un unico blocco aggressivo, mosso da interessi contrapposti radicalmente a quelli di noi locali. Tutta una serie di espressioni come "assedio", "invasione", etc., ricorrenti nella stampa, si possono ricondurre a questa paura più o meno marcata ("Caccia al lavoro non più nero" è un curioso titolo dove la paura viene attutita grazie al doppio senso di "nero": "illegale" e ""razza diversa"). Si passa poi alla sviolinata, estetizzante e coscienziosa: "Gente venuta d'oltremare che invoca i primi elementari diritti civili – La S.r.L. di manovali senegalesi a Genova e i contadini zairesi nell'Agro Aversano – Le stesse rivendicazioni dei nostri concittadini che sbarcavano 80 anni fa a New York – Un problema che esploderà nel '92", che si conclude enunciando la contrapposizione di interessi, quella "vera", quella fra extra-comunitari ed Europa unita.

Razzismo e cattivo gusto
Il tema del razzismo è affrontato esplicitamente solo nell'articolo, dopo che il lettore è già ben indirizzato, e mediante la tecnica, frequentemente usata, di presentare lo stereotipo dell'opinione condannabile, che può essere anonima, o del tassista, della vecchietta che passa, etc., su cui il giornalista medesimo che l'ha coniata può sfogare la sua indignazione morale e culturale.
Primo esempio: "Ma questi africani non portano via il posto ai nostri giovani in cerca d'occupazione?"; Maurizio Breda, non contento di aver già definito tale dubbio "ipocrita" e "dettato dalla disinvolta ignoranza del problema", aggiunge da parte sua una "ovvia risposta negativa, perché non esiste più nessuno di noi che accetti di fare certi lavori, a certe condizioni e a certi salari". Come dire che proprio sulle spalle altrui ci si arrampica, se no che vita è?
Secondo esempio: "Bisogna fermare sul bagnasciuga gli immigrati, altrimenti dove andranno a finire l'Italia e gli italiani?", e questo viene definito un dubbio "di segno nettamente peggiore, razzista alla Le Pen", cui "non vale neppure la pena di tentare di rispondere". Ma visti i voti che prende Le Pen varrebbe forse la pena di rispondere, (dicendo magari che dell'Italia e degli italiani si può benissimo fare a meno). La distinzione fra i due livelli di razzismo, ipocrita e sincero, tuttavia, non è da buttare.
Su "La Repubblica" (10/12/'88) un fatto descritto così: "un negozio di abbigliamento femminile ha assunto il cittadino senegalese Issan Niang, di 35 anni, per indossare un costume africano", viene preceduto dal titolo "vu' cumprà finisce in vetrina nel centro di Pescara", e dall'inquietante sommario "Senegalese trasformato in manichino vivente", e infine dalle frasi "chi vuol comprare un vu' cumprà?".
Mancava soltanto questa nell'elenco degli episodi di razzismo, o quanto meno di cattivo gusto, che stanno accompagnando il fenomeno dell'immigrazione in Italia. Mancava, ma puntualmente è arrivata....
Ma la pretesa contiguità fra razzismo e cattivo gusto denota almeno l'ipocrisia del perbenista di sinistra, che si considera superiore (non considera nemmeno l'eventualità di prescindere da questa differenza razziale) e però considera brutto rinunciare alla finzione dell'uguaglianza sociale. Chi tanto grida al razzismo, spesso, è proprio il razzista medesimo (non certo chi il razzismo non sa nemmeno che cosa sia).
Più recentemente, su "Il Giornale", (26/3/1990) sotto il titolo "I lumbard rigirano a Pontida: referendum contro i vu' cumprà", ossia "per abrogare la legge Martelli che apre le porte agli immigrati extra europei" (ove si sorvola sulla implausibilità dell'aprire una porta a chi ha già varcato la soglia, in omaggio a un "apre le porte" ancor più metaforico), si legge una divertente dichiarazione dell'europarlamentare Francesco Speroni: "Non siamo razzisti e non vogliamo mandare via nessuno, ma non possiamo accettare che migliaia di negri rubino il posto ai lombardi solo per far piacere ad Agnelli che vuol pagare poco gli operai". Un'argomentazione sostanzialmente ineccepibile dal punto di vista sindacale e umano, con un'ammiccante concessione stilistica al patrimonio storico della sinistra, nella frase fatta conclusiva; ma che nel suo negare di essere razzista non è del tutto convincente (avesse detto "immigrati" sarebbe stato nei confini di un più sicuro schema demografico-economico, nel quale potrebbe rimanere solo se sostenesse che a fare gli operai ci vengono solo, o quasi solo, negri; e tuttavia non differenziando, fra negri e negri, continua a mantenere valida almeno la contiguità fra negro e sottopagato).
È appunto con l'uso retorico di certe categorie, che spesso circola il cosiddetto razzismo strisciante. Un uso in cui si comunica un significato simboleggiandolo in modo volutamente impreciso: ad esempio simboleggiandone solo una parte, anche per dare la possibilità al destinatario di estendere a piacere i confini del tutto a cui applicare il giudizio di valore sottinteso (i lavoratori che arrivano, negri o non negri: sono negri), o viceversa, indicando esplicitamente un tutto, da cui si trae la parte effettivamente designata (i negri che arrivano sono quelli poveri, ma non stiamo a specificare, il fatto grave è che sono negri). Il fatto che Speroni non abbia usato una figura retorica ben precisa non significa che il suo riferimento ai negri non sia retorico, visto che non è considerabile come tale in almeno due modi.

"Morire nel fuoco"
Un razzismo strisciante si può riscontrare anche nell'uso in definitiva improprio di parole straniere, in titoli come "Nei gran bazar della Romania" (occhiello "La nazionale di calcio a Marsiglia assediata da mercanti e profittatori soprattutto italiani", vale a dire: i mercanti fanno mercato, mentre i mercanti e profittatori fanno bazar, Corriere 29/1/'90). L'accenno agli italiani (profittatori), come già quello precedente di Repubblica (razzisti), si contrappongono alle argomentazioni contrarie all'immigrazione per ragioni vetero-patriottiche, non a quelle stile Lega Lombarda, né a quelle stile Europa '92. I sospetti riguardano anche un titolo come "Firenze: quei quattro marocchini devono morire nel fuoco" (Corriere 30/3/'90) dove Firenze dovrebbe rappresentare solo il luogo, ma i due punti e la frase seguente lo rendono una specie di soggetto che afferma.
Si può anche individuare, nelle cronache, un uso più insistito di riferimenti ai colori, per evidenziare contrapposizioni o semplicemente per catturare l'attenzione, sulla scia dei sempre più considerati fattacci di cronaca che coinvolgono italiani e stranieri di colore, o presunti tali in virtù del colore (da "Quel nero non ha colpe" a "Città bianca tonaca nera", titolo sulla ripresa delle vocazioni a Bergamo, che, magari, in un altro frangente avrebbe ricevuto un'impostazione priva di riferimenti cromatici, esempi tratti da Repubblica).
Nello stesso Corriere 30/3/'90, sia il sommario che l'editoriale riportano (nel contesto dell'eterno dipanarsi della crisi di Governo) che i demitiani "denunciano il rischio di 'scolorire' le ragioni dello scudo crociato". È vero che una continuità fra colori ed emozioni è sempre a portata di penna, e da qui agli ideali e alla politica il passo è breve. Se è concessa una divagazione, un famoso storico del linguaggio dice che "Secondo le tradizioni indoiraniche, la società è organizzata in tre classi di attività: preti, guerrieri, coltivatori. Nell'India vedica queste classi si chiamano "colori", Varna. In Iran, esse si chiamano pistra, "mestiere" il cui senso etimologico è però "colore". Bisogna prendere la parola nella sua accezione letterale: si tratta proprio di colori. E' a causa del colore dei loro vestiti che in Iran si distinguevano le tre classi - il bianco per i preti, il rosso per i guerrieri, il blu per i coltivatori - secondo un simbolismo profondo che proviene da antiche classificazioni note in molte cosmologie, che associano l'esercizio di un'attività fondamentale con un certo colore legato anch'esso a un punto cardinale" (E. Benviste, "Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 1969-1976").
Ma è anche vero che il gergo politico, il quotidiano esercizio di allusioni e metacomunicazioni del potere, è fra i maggiormente inclini a raccogliere, fra stereotipi in vigore nel linguaggio ordinario, quelli che hanno una capacità valorizzante, in positivo o in negativo, che sembra più fresca e intatta (almeno per categorie come giovani, distratti, vacui, etc.). Perciò il richiamo allo ""scolorire" - già usato sicuramente da altri, fra cui Andreotti alla fine degli anni '70 senza alcun riferimento a problemi di razzismo - potrebbe aver avuto successo nei confronti di una possibile alternativa come "indebolire", "non far valere fino in fondo", "accantonare", "sacrificare", etc., anche in conseguenza dei fatti di Firenze e di polemica governativa sull'immigrazione.
Il colore dello scudo crociato è, naturalmente, il bianco.