Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 173
maggio 1990


Rivista Anarchica Online

Per esempio la Cascina Rosa
di AA. VV.

La Cascina Rosa è un fabbricato fatiscente alla periferia milanese, occupato da una folta comunità di immigrati dal Marocco. Negli ultimi mesi la Cascina è stata al centro delle cronache locali per una serie di proteste contro l'insediamento da parte di cittadini autodefinitosi indignati. Presentiamo tre articoli che, da diverse prospettive, rivelano come - al di là della retorica e della demagogia - il confronto con gli immigrati si trasforma sempre più spesso in affronto.

Quel sottilissimo filo

Non è facile per nulla trovare uno spazio incolto, un'oasi vergine in cui potersi distendere coi pensieri e magari illudersi di essere soli, di essere i primi. Il terreno è stato battuto completamente, le oasi prosciugate: non solo ma, a mio parere, tutto è stato maltrattato, rovinato, diretto e omologato.
Sto parlando del terreno fertile offerto dal problema "immigrazione", dal problema "razzismo".
E io in questo momento non me la sento (per probabile incapacità) di emergere in tale difficile campo: di insinuarmi alla ricerca di nuove sorgenti originali chiarificatrici esplicative: mi butto incosciente nella semplice narrazione, nel racconto di ciò che ho visto e provato (e inevitabilmente rielaborato) , senza pretese di avere dalla mia la verità. Come dire: sorvolo dolcemente il paesaggio. Era da tempo che in me giaceva sopito, di volta in volta stuzzicato, un desiderio di chiarezza, più che altro una necessità. Le parole mi uscivano tranquillamente dalla testa, dalla bocca; è molto facile inveire contro il razzismo, indignarsene. Ma tutte queste parole non solo non servono a chi il razzismo lo subisce, ma neanche lo possono sfiorare. Eppure non trovavo modo di sentire più vicino il problema, sentirlo sulla pelle.
Ed ecco che in una ordinaria mattinata d'università una amica (assolutamente ignara dell'effetto che avrebbe sortito) mi stordisce con una domanda: "Senti, ma da quando ci sono tutti quei marocchini tu non hai paura a passare davanti alla Cascina Rosa?"... Sdeng! Lo so che non c'è razzismo dietro ad una tale domanda, non QUELLO forte, plateale, storico; ma di QUESTO tipo di razzismo pare non ci sia alcuna traccia se non sui libri o tutt'al più negli articoli dei giornali. Piuttosto quel subdolo e sottilissimo senso di intolleranza, di fastidio, sintomo evidente di chiusura e ignoranza e tutto sommato anche di pigrizia e noia, mi è apparso vivido e pauroso nella sua candida capacità di impossessarsi dell'istinto e del cervello umani.
Avevo trovato un sottilissimo filo a cui appigliarmi, seppur così circoscritto: la Cascina Rosa. Avere
un contatto diretto con queste persone che malgrado i loro sforzi per farsi accettare, incutono ancora un'inspiegabile paura.
Sono stata accolta con tanta gentilezza assieme ad altri amici. Il mondo in cui sono entrata barcollando su di un'asse di legno adibita a passerella, mi è apparso estremamente povero, un'immagine di miseria, disagio, precarietà; il mondo in cui sono entrata mi è apparso estremamente ricco di colori, suoni, sapori e odori. L'allegria e l'ospitalità innate di queste persone dalle tradizioni così forti, dalla religiosità così sentita, passa sopra il freddo, il disagio, la povertà, l'isolamento e la solitudine.
Presto i sorrisi un po' forzati, inevitabili nei primi istanti di ogni conoscenza, specie se inaspettata, hanno lasciato spazio a sguardi sinceramente interessanti, a ibridi linguistici costruiti insieme per farsi capire e a sonore risate prive di qualsiasi residuo di formalità, accompagnate da cibi tradizionali, da suoni e parole che evocavano tutta l'arsura e la spontaneità di un'Africa non poi tanto lontana, da riti e usanze tipiche e ovviamente da quell'incomprensione e incredulità comprensibili di fronte alla spaccatura enorme tra due mondi diversi messi a confronto.
Ho chiesto loro più volte una opinione personale su Milano, sui suoi abitanti, sulle loro condizioni... e i più rispondevano (quasi non volessero sbilanciarsi od offendermi) che stavano bene e gli italiani erano brava gente... nessun problema, tranne che per trovare un lavoro. Ma come? Io mi arrabbiavo, perché certa umiltà la trovo pericolosa quanto il sentimento contrario. Ma ben presto veniva meno la diffidenza ed emergeva chiaro lo scontento: in fondo non si sta così bene e se si volesse si potrebbe trovare insieme delle soluzioni...Qualcuno poi ha finalmente alzato il tono di voce e con rabbia (sempre smorzata dal buonumore) ha rivendicato quel minimo di diritti che spetterebbero ad ogni essere umano. Io ho raccolto al volo questo soffio di realismo cercando di dargli una forma, ma alcune loro parole l'hanno poi precisata molto chiaramente: "Noi siamo venuti qui dal Marocco per trovare lavoro, ossia per concentrare tutte le nostre forze ed energie e metterle a disposizione degli italiani; non vogliamo altro se non rispetto e condizioni di vita umane".
Sembrerebbe la formula perfetta soprattutto per farsi accettare da questo popolo così pieno di sé, così odiosamente esigente qual'è quello italiano, ma c'è qualcosa che non mi piace, qualcosa di fondamentalmente errato. L'idea biecamente utilitaristica che ci sta sotto, del dare per avere, del vivere uno scambio paritetico di cultura umana come uno scambio vantaggioso o meno di merci, sinceramente mi disgusta.
Se il problema maggiore è quello di concedere i "nostri" diritti agli stranieri, io dico che il vero problema è di riuscire a cancellare parole come "nostro" e "straniero".
Ecco, mi è sfuggito un accenno alla parvenza di indagine socio-culturale, l'unico, da cui mi ritraggo velocemente in attesa che maturi in me in forma propositiva. Nel frattempo imparo nuovi e affascinanti risvolti umani, imparo a dare alla cultura un valore non gerarchizzante, alla natura un carattere non univoco. Anche perché la paura non basti più a giustificare l'intolleranza.

Annalisa Bertolo

 

Umidità e diffidenza

Largo Murani, capolinea della 61. Un lungo muro di mattoni sbiaditi coperti da rampicanti annuncia una realtà cui mal si adegua il suo nome da favola: Cascina Rosa.
E' da quattro mesi dimora della più grande comunità marocchina a Milano: circa 550 persone di cui solo 3 donne, sposate naturalmente. Raccolgo le sensazioni per tentare di rendere l'idea di questo posto.
Oltre il cancello c'è praticamente solo un grande cortile incorniciato da ruderi di edifici; sulla destra un pezzo sano della vecchia casa, una stanza abbastanza grande che fa da cucina e punto di aggregazione (sala comune). Le stanze ricavate da ciò che resta degli edifici originari, sono spesso piccolissime, occupate da materassi, un tavolino, qualche sedia.
Qualche roulotte staziona nel cortile.
Najib abita con altri tre ragazzi in un loculo di circa 6 mq, ci fa sedere sui materassi, offre da bere e da fumare, suona la chitarra e canta. Una canzone racconta di una donna amata che nella fantasia dell'innamorato assume diverse nazionalità.
Un po' in francese, un po' in italiano stentato parlano del loro paese ed emergono, coi sentimenti, i problemi dell'emigrazione: il Marocco è bello, bellissimo e vario nei loro racconti, ma non ha lavoro. Qualcuno parla della famiglia: "Io ho tre sorelle bellissime dai nomi affascinanti come paesi lontani: se vieni a casa mia te le faccio conoscere". Un ragazzo di 19 anni è sdraiato sul letto e mi racconta per ore della sua famiglia, della sua grande casa a Rabat, del fratello ingegnere, di suo padre che lavora per il re. "In Marocco abitavo in una casa bellissima, nella mia camera avevo TV e telefono e guarda come mi tocca vivere qui. Ho scelto di viaggiare, mica l'ho fatto per necessità. Ma l'Italia non ci vuole".
In tutti la nostalgia del caldo e del calore, contro quest'umidità e diffidenza che penetra i muri e gli sguardi. Nelle parole di molti Milano è una città inospitale, si lavora meglio a Bergamo o Brescia, la polizia si accanisce contro chi non ha la licenza - tutti gli ambulanti - e porta dentro chi non ha documenti. Rakik è furbo e parla bene l'italiano perché - dice – è la prima cosa da imparare, per integrarti e per difenderti. Della polizia non si fida affatto: "Una volta mi hanno arrestato, preso la merce e buttato giù dalla macchina fuori città, di notte. Il più delle volte si tengono tutto quello che ti sequestrano. Però qualche volta mi sono anche divertito. Quando mi arrestavano perché ero senza documenti, mi chiedevano il nome, e io rispondevo la prima cosa che mi veniva in mente, in arabo. Sono registrato con parecchi nomi di frutta e verdura e di calciatori marocchini famosi". Adesso vende le sigarette e davanti ai poliziotti scappa, anche se minacciano di sparare.
Nordine ha un bel sorriso sotto occhi e capelli corvini, ci mostra le foto di quando era portiere in una squadra di calcio. Anche adesso gioca ogni volta che alcuni studenti di ingegneria organizzano partite amichevoli Italia-Marocco. Abita a Casablanca, come molti. A Casablanca vuole tornare se non trova subito lavoro. Ma non ci spera molto, dice l'espressione del suo volto. "E' difficile, sappiamo che molti italiani sono senza lavoro. Ma abbiamo diritto a pari dignità, anche perché siamo nella stessa condizione degli italiani all'estero 30 anni fa". Come dire che l'immigrazione è un dato di fatto, non una dissertazione politico ideologica, e bisogna prenderne atto con misure adeguate.
Inutile - dicono loro - continuare a scriverne: "Chiacchiere senza base non costruiscono case" motteggia uno che preferisce l'anonimato. Ogni giorno c'è almeno un articolo per giornale sugli extracomunitari, ma poi non cambia niente.
"Oltre alle condizioni di vita precarie, i primi tempi c'erano anche gli attacchi dei razzisti, che facevano una spedizione al giorno per rovesciarci addosso tutto l'astio possibile".
Condizioni igieniche e sociali che non si lasciano domare dall'assistenza fornita da due o tre volontari della Caritas, comunque utili, ma del tutto insufficienti.
Al Comune, che sgrana un miliardo dietro l'altro per 1o stadio sempre più grande, che sia all'altezza della grande Milano mondiale, infiorettata da festini stile Jovanotti e plateali richiami all'ordine sotto l'egida della dinastia craxiana, a questo Comune i marocchini non devono niente. Quello che hanno qui a Cascina Rosa se lo sono presi praticamente da soli.
Così i muri fatiscenti e sempre umidi sono stati tappezzati da coperte, tende, materassi per fermare il gelo, cartone sui pavimenti, arredamento da discarica e abiti smessi, quelli che periodicamente si raccattano nelle portinerie per i poveri appunto. E infine la decorazione: posters di sconosciuti bellocci dei giornalini per teenager, pannelli pubblicitari di cartone, dischi attaccati alle pareti con lo scotch, qualche pin up in bikini. Quello che manca di più sono i servizi igienici: una doccia e due cessi per 550 persone. Tutto il resto è stato allestito con mezzi propri. C'è perfino una moschea, rivestita di plastica nera e tappeti. La religione musulmana permea la loro vita quotidiana e la preghiera scandisce per 5 volte la giornata.
Difficile per me, per noi, comprendere la loro religiosità infervorata fatta di riti secolari e massime inconfutabili racchiuse nei sacri ghirigori del Corano. Poi arriva , ad aprile, il Ramadan, digiuno diurno da cibo, bevande, fumo, sesso. Il digiuno si interrompe di notte per dare spazio a cene collettive e festeggiamenti che durano più meno fino alla mattina. Siamo stati ospiti di due ,"veglie" a base di un ottimo cous-cous. Vorrei imparare a cucinarlo. "E' difficile - mi dice Rakik - bisogna cuocerlo a vapore, poi lavorarlo molto con le mani per renderlo morbido".
Najib ci offre la tipica cena di interruzione del digiuno: zuppa di formaggio, caffellatte, pane dolce e cous-cous. Mangiamo e scherziamo insieme, ormai ci si capisce abbastanza bene, anche perché molti di loro stanno imparando l'italiano.
"Domani vado a Bolzano a chiedere il permesso di soggiorno" mi dice Mustafa. Già, a Bolzano ci sono pochi marocchini quindi è più facile ottenere i documenti.
La loro ospitabilità, così grande in queste povere condizioni, si estende fino alle loro terre; ci invitano nelle loro case bianche fresche sotto l'arsura di agosto; se mi piace il cous-cous "devi provare quello di mia mamma!" dicono. "Facciamo un viaggio assieme quest'estate, meglio se in 15 o 20 persone" dice un ragazzo riccioluto che ride sempre, poi confronta la matematica marocchina con quella italiana.
Dentro i muri colorati non ci accorgiamo del tempo che passa; è arrivato in silenzio un tramonto senza sole. Inizia il conto alla rovescia: anche oggi sta per scadere il tempo del digiuno. Già arrivano profumini invitanti dalle varie "case". Il cuoco del momento impasta la farina con l'acqua per fare il pane. Naturalmente ci invita a mangiare, ma fissiamo per un altro giorno. Fuori, dopo la pioggia s'è formato nel cortile un grande lago che rende difficile raggiungere l'uscita. Su una passerella barcollante di assi, mattoni, materassi e fango ci stringiamo forte le mani.

Elisabetta Minini

 

Una favela a Milano

Prima che venisse occupata dai marocchini che oggi la abitano Cascina Rosa era un rudere di quattro mura retaggio, nel pieno centro di Città Studi, di quella realtà contadina lombarda progressivamente assorbita dall'esplosione urbanistica del milanese.
Nessuno a qualsiasi livello della società politica, aveva pensato a preservare il cascinale dall'abbandono, dall'incuria che ce l'ha consegnata come oggi possiamo vederla, restituita alla vita sociale da questo gruppo di immigrati che ne hanno fatto un piccolo villaggio, praticamente monosessuale, dagli aspetti altamente contraddittori.
Se da una parte visitandola si ha l'impressione che l'aggregazione, l'affinità culturale, la ricerca di conservare le proprie abitudini rendano possibile la solidarietà sociale in qualsiasi stato, risulta tuttavia evidente che le condizioni strutturali sono paragonabili a quelle delle favelas brasiliane, dei sobborghi delle megacapitali del terzo mondo o, tanto per restare in Italia, di alcuni quartieri palermitani o napoletani.
Cascina Rosa era, e materialmente è ancora, un quadrato di mura fradice, perimetro che racchiude qualche costruzione pericolante, un cortile dove quando piove si forma un vero e proprio lago, destinata a morire in un bagno di cemento più funzionale all'economia della città. E forse era giusto così, visto che l'attuale realtà urbana ha così poco interesse a testimoniare la storia contadina e proletaria, a mostrarne la realtà al di fuori di quadretti iconografici di stampo pietistico o nostalgico-pubblicitario. Tutto questo però, prima che arrivassero i marocchini, che di quelle quattro mura hanno fatto, senza particolari meriti, un ospizio nel quale vivono più di cinquecento persone, nelle forme e con le consuetudini sociali e religiose alle quali da secoli sono soggetti. Non è qui il caso di giudicare, con metro occidentale, tali forme e tali consuetudini, ma è bene ricordare che di fronte alla radicale diversità dei nostri atteggiamenti esse rappresentano l'individualità, la esplicita affermazione di ciò che si è, di come si è cresciuti e vissuti fino ad oggi. E per farlo i marocchini non hanno chiesto l'aiuto (o la sponsorizzazione) a nessuno, hanno isolato le poche stanze ancora in piedi, hanno portato delle roulotte, le hanno attrezzate con materassi, arredi di fortuna, piccole cucine e così via; hanno persino un piccolissimo pronto soccorso, e un altrettanto piccolo luogo di preghiera, oltre ad una sala di ritrovo.
Tuttavia non sarà mai, Cascina Rosa, una piccola Casbah milanese. L'immigrazione in Italia ha ragioni storiche diverse rispetto a paesi come Francia e Spagna, e non è interessata all'insediamento stabile; chi oggi viene a Milano dal Marocco lo fa per guadagnarsi qualche soldo e tornare nel proprio paese con qualche risparmio e poi avviare un'attività. Si tratta per lo più di giovani, che spesso hanno studiato, ma che non trovano sbocchi decenti in un'economia oligarchica totalmente asservita agli stranieri, ed insensibile a qualsiasi tentativo di ridistribuzione delle ricchezze.
Najib, Mohammed, Nordì, Khalif, alcuni amici marocchini che vivono a Cascina Rosa sono diplomati, studenti oppositori della monarchia, quasi tutti hanno un mestiere. Najib è infermiere, Khalif è calligrafo, pittore e mosaicista. Eppure si accontentano di vivere ai margini dell'opulenta economia dell'Italia, della capitalistica Italia. Si accontentano di vivere delle briciole, che per loro sono piccole pepite, di distribuire volantini pubblicitari per 40.000 lire al giorno ad esempio, oppure di rischiare con attività illecite come il contrabbando di sigarette (con un guadagno medio tra le cinquanta e le centomila lire) controllato dai circoli mafiosi (italiani) che finalmente hanno trovato chi si espone per loro. Si accontentano di vivere in luoghi dove noi non terremmo neppure i nostri cagnolini, di renderli vivibili nei limiti del possibile, dormendo in locali non riscaldati, con cinque gradi nella stanza, senza docce e sanitari, e conservando comunque una dignità che li rende capaci di essere piacevoli e ospitalissimi padroni di casa, qualora qualcuno vinca i pregiudizi e divenga loro amico, come a noi è successo. E in queste condizioni c'è pure chi muore, com'è successo sabato 17 marzo a un giovane colpito da crisi cardiaca. Chissà, forse sarebbe morto lo stesso, ma di sicuro non lo hanno potuto salvare con la loro roulotte (ferma) pronto soccorso.
E dire che per partecipare della ricchezza occidentale non solo accettano qualsiasi tipo di lavoro venga loro offerto, ma cercano pure di adeguare il loro comportamento alle nostre leggi. Alla Cascina Rosa vige un regolamento di autodisciplina, una forma gerarchica basata sull'autorità dell'anziano o dei personaggi più carismatici, come è tipico delle culture islamiche. Chi vive nella Cascina, ad esempio, non può commerciare hashish, anche se impedire a un marocchino di fumare è come togliere il caffè a noi italiani, anche se nella cultura araba ciò non costituisce reato.
I marocchini della Cascina, in realtà, non danno più fastidio di quanto non ne diano tutti gli altri cittadini milanesi presi indistintamente, tra i quali si nasconde il politico corrotto, il delinquente, ma anche chi vive in buona fede o più semplicemente da onesto. Eppure subiscono continuamente attentati dai "vicini di quartiere", manifestazioni, più o meno prezzolate, di intolleranza .
E' di alcune domeniche fa la manifestazione del Fronte della Gioventù contro l'insediamento di Cascina Rosa, con insulti, sputi e slogan nazisti. Poco più recente il lancio di bottiglie Molotov. Legalitaria, invece, ma totalmente ignorante della realtà e probabilmente strumentale, l'iniziativa di raccolta delle firme per sgomberare la Cascina e restituirla al demanio del Comune, per non ben specificati scopi sociali e culturali.
Un consiglio, a coloro i quali intendono cacciare i marocchini, vorrei proprio darlo: vadano a vedere come il Comune ha lasciato la Cascina per anni, vadano a conoscere le loro condizioni di vita, senza pietà ma senza pregiudizio, e forse capiranno che se i marocchini non si lavano i piedi o puzzano è perché non hanno bidet o comodi lavabo, e neppure docce comuni, e che comunque troverebbero il modo di farlo se in cascina arrivasse l'acqua.
Capirebbero anche, forse, che se il Comune e la stessa cittadinanza possono permettersi di obliare qualche centinaio di metri quadrati per lasciarli marcire, in attesa del momento più opportuno per la redditizia speculazione da mercato, qualcosa non va nel sistema di distribuzione della ricchezza, certo, non solo a Milano e non solo in Italia.

Francesco Scarpelli



Noi marocchini della Cascina Rosa chiediamo che...

Innanzitutto vorrei salutare tutta l'equipe del giornale e augurargli un'ottima riuscita.
Veramente non so da che parte cominciare questo articolo perché un sacco di idee mi si affollano in testa: stiamo passando un momento difficile, malgrado il clima sociale ci consenta di scrivere.
Come quasi tutti sanno, la maggioranza dei marocchini a Milano vive attualmente alla Cascina Rosa di via Vanzetti. Ci sono approssimativamente più di 550 immigrati, quasi tutti in una situazione regolare di fronte alla nuova legge Martelli con il permesso di soggiorno.
In questo campeggio illegale occupato dai marocchini possiamo constatare la mancanza di quasi tutti i servizi essenziali alla vita di una persona: per esempio la mancanza d'acqua, di elettricità, di servizi igienici, e docce rende la vita insopportabile: questo rende miserevole anche l'aspetto degli occupanti. Tutto ciò è attualmente contraddittorio in un paese democratico membro della CEE.
Da qui si pone la seguente domanda: gli immigrati non avrebbero il diritto di vivere in condizioni umane?
Non siamo qui per chiedere la carità, né per avere la pietà dagli altri.
Noi siamo una forza, un'energia che partecipa direttamente e indirettamente allo sviluppo dell'economia italiana: perché tra noi ci sono degli impiegati, degli operai, dei commercianti, degli studenti e dei liberi professionisti.
I marocchini della Cascina Rosa hanno dei responsabili volontari che gestiscono il funzionamento sia dell'interno che dell'esterno della Cascina. Ad esempio si occupano del servizio di pulizia, di vigilanza notturna e delle relazioni e dei contatti con le autorità interessate e competenti. Qualcuno ci aiuta seriamente, come il servizio di Pronto Soccorso della Caritas o l'aiuto di quella brava persona del sig. Fratellitori.
Noi non ci immischiamo negli affari interni del Paese, perché la politica italiana non ci interessa: noi siamo qua per guadagnarci onestamente da vivere, fornendo le nostre energie e le nostre forze. Ciò che chiediamo ai responsabili del comune di Milano, così come alle autorità italiane, è di affrontare CON NOI la situazione da un punto di vista oggettivo e reale.
Sappiamo bene che esistono degli alloggi comunali e siamo disposti a pagare l'affitto e se necessario a vivere in gruppi, ma non nelle stesse condizioni di via Vepra e che attualmente si trovano al centro di accoglienza ex-Martinitt, perché la nostra libertà non ha prezzo e le nostre abitudini e tradizioni devono essere accettate e rispettate dagli italiani.
Attraverso l'intermediazione del vostro giornale, di cui ringrazio i collaboratori, desidero arrivare a tutte le associazioni che sono sensibili al nostro problema direttamente e indirettamente.

Abu Iman Salah