Rivista Anarchica Online
ALBE teatro in bianco/nero
di le Albe
Dakar-Rimini-Dakar
Noi siamo tre senegalesi che lavorano
con tre italiani sulla scena. Noi non avevamo mai fatto teatro prima
e non avevamo pensato all'opportunità di farlo. Grande parte
della nostra cultura è la danza, il cantare e suonare, ma non
pensavamo che queste cose potevamo farle davanti ad una platea
bianca. Dopo un anno di lavoro la gente ha cominciato a chiederci se
avevamo mai fatto teatro e quando rispondevamo "no" la
gente non ci credeva e i giornalisti mi chiedevano "cosa vuol
dire fare teatro qui davanti ad una platea bianca?", rispondevo
"è importante perché finché i bianchi non
conoscono la cultura nostra non possono sapere chi siamo".
A noi fare teatro è servito per
tante cose: imparare la lingua, conoscere la cultura italiana e fare
un lavoro onesto. Noi tre senegalesi prima di partire per il Senegal
avevamo una grande paura di come i nostri genitori avrebbero
considerato il nostro lavoro in teatro.
Quando siamo arrivati all'aeroporto di
Dakar "Yoff", dopo un anno e mezzo in Italia, l'aeroporto
era cambiato ai miei occhi. Subito ho visto mio babbo con 4 fratelli.
I fratelli hanno cominciato a ridere, vuol dire che erano contenti di
vedermi. Mio babbo con la faccia tristissima subito mi ha ricordato
le lettere che gli scriveva mio zio, perché ho uno zio che
vive in Italia, a Rimini. Lui mi ha aiutato a venire in Italia.
Quando ho cominciato a lavorare con le Albe mio zio non voleva perché
pensava che con questo lavoro non sarei riuscito a mandare i soldi
giù per far vivere la mia famiglia. In quel momento facevo il
venditore ambulante, ma non sono mai stato un bravo venditore. Sempre
mio zio mi diceva che da sei anni lui vive in Italia e "i
bianchi non sono bravi: ti fregano sempre o ti fanno lavorare molto e
ti pagano poco; continua a fare il venditore incha alla saviendra"
che vuol dire "la fortuna ti verrà".
Gli ho detto: "Guarda per me
questo è un lavoro, devo farlo", mi ha detto "Se tu
fai questo lavoro non ci conosciamo più, poi manderò
delle lettere a tuo babbo e gli dirò che non sei più
sotto la mia protezione". Gli ho risposto: "Va bene, fai
quello che ti pare a me piace questo lavoro e devo farlo". Lui
mi ha detto: "Prendi tutti i tuoi bagagli e vattene".
Dopo due mesi che avevo litigato con
mio zio ricevetti una lettera che veniva da mio babbo e mi diceva:
"Ho ricevuto la lettera da tuo zio, mi dice che non sei più
sotto la sua protezione, mi dice che hai cominciato a fare delle cose
brutte in Italia perché bevi il vino, mangi il maiale, etc...
sei un musulmano, non dimenticare mai la tua religione"; però
non sapeva che lavoro stavo facendo. Quando l'ho visto in aeroporto
con la sua faccia triste ho pensato che lui era arrabbiato con me.
Dopo due giorni a casa mio babbo ha cominciato a chiedere: ."Che
lavoro fai? e perché sei tornato così presto? Tuo zio
ha fatto sei anni in Italia e non è ancora ritornato". Ho
risposto: "Il lavoro che faccio è l'attore di teatro,
sono ritornato perché abbiamo un progetto che si chiama
Ravenna-Dakar e siamo invitati a una settimana culturale. Dobbiamo
recitare al Teatro Nazionale Daniel Sorano e all'Università di
Dakar".
Subito ha cominciato a sorridere il
giorno che ho portato le carte d'invito allo spettacolo per i miei
amici e la mia famiglia. Me ne ha chiesta una anche per lui. Erano
quindici carte d'invito, ma non erano abbastanza perché tutti
i miei amici del quartiere avevano la curiosità di vedermi in
scena. Gli altri non credevano che io facessi l'attore perché
dicevano che non ho le qualità d'attore. E anche loro avevano
visto il Teatro Sorano solo alla televisione ma non c'erano mai
andati. È stata la prima volta per me e anche per loro.
Il 9 gennaio, giorno dello spettacolo,
tre ore prima dell'inizio, erano lì 8 amici e 7 fratelli miei
davanti alla porta del teatro. Hanno visto lo spettacolo. Il giorno
dopo tutti mi hanno detto: "Siete bravi, bravissimi"; anche
persone che prima non conoscevo mi fermavano per strada e mi dicevano
"È lui che recitava ieri al Sorano, è bravissimo".
I miei fratelli mi dicevano: "Adesso sei diventato un bravo
attore, se ti pagano bene è un buon mestiere". Mio babbo
mi diceva: "Ho sentito che sei stato bravo ieri al Sorano",
perché lui non era venuto; aveva degli impegni, ma i miei
fratelli gli hanno raccontato tutto lo spettacolo. Era molto più
contento di me, così io adesso sono più tranquillo a
fare il mio lavoro, perché per noi è importantissimo
lavorare tranquillamente.
Fare teatro mi è servito per
tante cose: imparare la lingua, conoscere la cultura italiana, fare
un lavoro onesto, ma anche conoscere meglio la mia cultura
senegalese. In questo viaggio con i miei compagni ho visto delle cose
che non avevo mai visto prima. Ho conosciuto anche delle
persone importanti della mia cultura senegalese. Per esempio Ousmane
Sembene, una persona conosciuta in tutto il mondo. A scuola avevo
studiato i suoi romanzi ma non lo avevo mai visto. Questa volta a
Dakar ho parlato con lui. Mi ha dato dei consigli e il coraggio di
continuare a fare l'attore.
Sono andato anche in Casamance, un
posto dove c'è la cultura senegalese originale. Lì ho
studiato tante cose che non sapevo, ho visto anche tante cose che non
avevo mai visto e non pensavo neanche di vedere. Come per esempio
l'antica religione africana con i feticci.
Adesso siamo ritornati; dopo lo
spettacolo "Lunga vita all'albero" noi tre senegalesi
metteremo in scena uno spettacolo tutto nostro.
Grazie.
Mandiaye Ndiaye
Il colonialismo sulla pelle
Caro Nico,
abitiamo in Rue Assane Ndoye, in pieno
centro a Dakar, accanto a una piccola moschea: i giorni sono ritmati
musicalmente dal belare di una capra nel cortile qui accanto, dalle
nenie del muezzin e dal nuovo lp di Youssou Ndour che ti fanno
ascoltare ovunque. Youssou Ndour è la star nazionale, famoso
come il presidente del Senegal Abdou Diouf: appena arrivati abbiamo
avuto la fortuna di assistere a un suo concerto al Theatre Sorano,
strapieno di mille e passa giovani senegalesi. Un po' concerto rock,
un po' festa di villaggio, le mamme che mettono i bambini sul palco a
ballare, e a dare la mano a Youssou "voce d'angelo", una
frenesia morbida e collettiva che offre il senso e la vibrazione
della danza, anche se rigidamente costretta nella platea di un
teatro.
Che cosa abbiamo fatto in questo
periodo iniziale di permanenza? il nostro dovere. Abbiamo partecipato
a Afriqu-Italie, settimana di dialogo tra cultura italiana e
senegalese, portando Siamo asini o pedanti? al Theatre
National Daniel Sorano (il più prestigioso di tutta l'Africa
occidentale francofona, non solo del Senegal) e all'Università
di Dakar.
Posso dirvi con franchezza: grande
successo in entrambe le tappe, ma con sfumature e atmosfere
differenti. Al Sorano ad applaudirci c'erano l'Ambasciatore d'Italia
a Dakar, autorità di diversi paesi e intellettuali africani ed
europei; all'università, nel campus di basket all'aperto, un
pubblico composto esclusivamente di studenti. Risultato:
divertimento e apprezzamenti colti al Sorano, sganasciamento e
applausi a scena aperta e grida e battere di mani all'Università.
Commedia dell'arte di fine millennio. Al centro Mor-Arlecchino e le
sue trascinanti invenzioni-improvvisazioni in wolof , dialetto
dominante in Senegal.
Dakar ci ha accolto con un sole estivo,
ma da qualche giorno, con grande sorpresa degli stessi senegalesi,
piove. Cielo coperto, da nuvole scure. Siamo assaliti da una marea di
sensazioni, immagini, emozioni, pensieri, sguardi, odori. Tutto molto
violento, estremo. Venendo qui si ha l'impressione di passare un
confine, un muro invisibile ma reale. Dakar è una metropoli la
cui superficie è europea, una vernice di Francia sopra un
contesto totalmente esploso. Le vie del centro ricordano un quadro di
Brueghel o Bosch: lebbrosi, paralitici, nani, venditori ambulanti,
piccoli truffatori, madri mendicanti con i bambini nelle scatole di
cartone, lustrascarpe. Noi qui rappresentiamo la potenza dell'uomo
bianco.
Caro Nico, che il colonialismo non
fosse finito lo sapevamo già da Ravenna, ma qui lo senti sulla
pelle. La tua. La tua pelle di uomo bianco che, nel mezzo di tanta
miseria, è il simbolo della ricchezza e della forza. Il
Senegal è un vulcano: l'85 % della popolazione è sotto
il livello di guardia, più del 10% vive così così,
quel che resta è ricchissimo perché divora i soldi
della cooperazione Nord-sud. Esploderà, ma non si sa né
come né quando. E se il Senegal è la Svizzera
dell'Africa, immaginiamoci il resto di questo continente strangolato.
Intanto proprio oggi si è
festeggiato l'arrivo della Parigi-Dakar, una festa di volgarità
e di prepotenza esibizionistica, macchine e camion e motociclette che
vomitano arroganza e catrame su una città inerme. Che
tristezza.
Caro Nico, qui tutti ci consigliano di
aspettare a trinciare giudizi su una realtà molto distante
dalla nostra e complessa, quel che ti scrivo te lo scrivo di getto,
raccontandoti a frammenti quel che abbiamo vissuto fino ad oggi. Ci
sentiamo puntolini bianchi in una marea nera. Il quadro ottico è
radicalmente cambiato: perché è anche una
questione cromatica. I primi giorni ci guardavamo tra noi e la
nostra pelle ci sembrava "strana". Ci percepiamo
"differenti", perché la norma cromatica cui si era
abituati qui è capovolta. E' questione, si direbbe in
palcoscenico, di fondale. Qui non c'è solo miseria e
abbrutimento, c'è anche eleganza e bellezza. I senegalesi,
uomini e donne, hanno un portamento altero, i corpi sono morbidi e
sensualmente fieri. L'Islam qui certo non potrebbe imporre il chador,
sarebbe un delitto all'ambiente, al morbido intrecciarsi tra il
calore dei corpi e la carezza del sole, del vento.
Ma non è solo il nostro sguardo
che è cambiato: anche quello degli attori senegalesi delle
Albe non è più lo stesso. Sono orgogliosi di aver
recitato alla "Scala" del loro Senegal, sono delusi di non
ritrovare più il Senegal che avevano lasciato alla partenza.
Non è il paese che è mutato, sono i loro occhi di
emigrati ad aver visto altri mondi. Quando andavo in Place de
l'Indipendance, mi dice Mandyaie, mi sembrava la più bella del
mondo, adesso tutto mi appare brutto, povero, squallido . La vernice
di Francia non riesce ad occultare più di tanto. Questo
viaggio, che per noi è di scoperta, per Mandyaie e compagni è
un ritorno, ci trova tutti, per ragioni diverse, "spaesati":
su questo si riflette ogni giorno, mettendo in comune le nostre
esperienze di viaggiatori, emigranti del teatro. Questa, penso, è
la ragione profonda del perché siamo venuti qui: ricambiare la
visita ai nostri amici africani, farsi emigranti, non per bisogno, ma
per ricerca artistica, politica, sapienziale. Capovolgere lo sguardo.
Dopo aver ospitato nello spazio teatrale quei figli d'Africa che sono
sbarcati nelle nostre città a cercare pane e lavoro, diventare
oggi ospiti di quella Madre Africa da cui si sono separati. Dopo aver
lavorato insieme a Iba Babou e compagni per due anni, alberi
sradicati dalla foresta e trapiantati sulle spiagge dell'Adriatico,
arrivare oggi qui e rivederli nella foresta da cui sono stati
divelti. Dopo essersi inventati l'Africa in Romagna, scoprirla qui,
oggi, per la prima volta.
Gli alberi a Dakar sono, come in ogni
metropoli del mondo, assediati dal cemento. Ma spesso vedi radici che
spaccano l'asfalto, baobab attorniati dalle baracche che protendono
le braccia al cielo, pare che gridano di rabbia e di gioia di vivere
insieme. Gli stessi sentimenti proviamo noi, noi che qui siamo, come
tutti i bianchi a Dakar, "dollari ambulanti" agli occhi dei
cittadini neri.
Che cosa intendiamo fare nel tempo che
ci resta? Uscire da Dakar. Prima, però, incontrare scrittori,
teatranti, cineasti. Abbiamo già parlato con Sembene Ousmane,
grande vecchio del cinema africano, il cui Camp de Thiaroye è
stato applaudito all'ultima Biennale di Venezia. Abbiamo già
incontrato altri intellettuali, ogni incontro è utile nel
metter a fuoco che cosa significa essere artisti impegnati sul
terreno dell'etica e della politica in una terra dalle lacerazioni
violente, in bilico tra miseria d'altri tempi e lo sbarco dei
giapponesi, tra la pesante eredità del passato coloniale e la
drammatica prigione di una indipendenza solo formale. Dimenticavo:
Mor-Arlecchino non può più festeggiare a Diourbel la
nascita della sua bambina e l'arrivo delle Albe romagnole. A Diourbel
da tempo non piove, allora il marabutto musulmano ha vietato le feste
fino alla prossima pioggia. Se vieni giù con una troupe della
RAI, la festa di Arlecchino che torna al suo paese non si può
più fare. L'Islam non impone il chador alle senegalesi, ma
certo anche qui non scherza. E allora?
Ti proponiamo un possibile schema di
"riprese". Due tempi: Dakar e la Casamance.
Primo tempo: le Albe in giro per
Dakar con Sembene Ousmane che fa loro da cicerone, e gli spiega la
"sua" Dakar (Sembene è uno dei più importanti
romanzieri di questo secolo nell'Africa francofona). Oppure,
variante: le Albe bianche a casa delle Albe nere.
Secondo tempo: in febbraio il
CoSpe, organismo non governativo, presente in Casamance, ci ha
invitato lì a scambiare le "maschere" di Asini
(l'Arlecchino nero, Fatima asino che parla, l'Uomo d'affari bianco,
lo zampognaro Giordano) con i gruppi di teatro di strada che
affollano i villaggi della Casamance, il "granaio" del
Senegal, una regione eccezionalmente ricca di vegetazione e di
antiche religioni tradizionali, dove animismo e cattolicesimo
convivono: rispettandosi a distanza o fondendosi, una terra dove il
ritmo dell'Africa è differente dal cupo suono metropolitano di
Dakar.
E' uno schema che va arricchito di
sfumature: dipende da quello che pensi si possa raccontare, dipende
dalla RAI, da quanto interessano queste faccende, da quanti minuti la
televisione ci vuole giocare sopra.
Al di là di questo, mi affido a
te: noi siamo qui, entusiasti e straniti, arricchiti nel cuore e
spaesati nella testa (o forse è il contrario), e ti
aspettiamo.
Per adesso, un abbraccio forte
Marco Martinelli Gabrieli
Il razzismo? Non esiste
Rispondiamo all'angoscia di Giorgio
Bocca e di quanti si chiedono se gli italiani sono razzisti.
Per noi la verità è
semplice e dimostrabile: il razzismo non esiste. In Italia e in
Europa, alle soglie dei 2000, in un continente attraversato da
milioni di immigrati che cercano lavoro e dignità umana, il
razzismo non esiste. E la fondatezza di tale verità è
dimostrata in maniera schiacciante dai seguenti tre esempi.
1. Primo esempio, in forma di racconto
immaginario ma verosimile.
Immaginatevi la casa del presidente
della Lega Lombarda, in una splendente giornata di primavera. Io non
conosco il signore in questione, ma suppongo che lavori da qualche
parte, probabilmente è impiegato di banca o in un ufficio
statale. Mi immagino che tenga famiglia: all'una circa torna a casa,
saluta la moglie e i bambini, "ciao cara", "ciao caro,
fai presto che la minestra si fredda". La famigliola fa per
mettersi a tavola quando trilla il campanello. "Chi diavolo è
a quest'ora?". I bambini corrono ad aprire e restano a bocca
aperta. "Papà, papà, corri, corri...", "chi
è che rompe... " borbotta il Presidente della Lega
Lombarda imprecando in dialetto lombardo filologicamente purissimo.
Arrivato alla porta, la visione lo inebetisce: sapete chi c'è
davanti al cancello della villetta del Presidente della Lega, alto e
sorridente?
Ruud Gullit!
Il lombardo purosangue non crede ai
suoi occhi: "Zimba Gullit a casa mia?"
Ora facciamo l'ipotesi peggiore: che il
Presidente della Lega Lombarda sia anche un interista accanito. Bene:
voi pensate che chiuda la porta in faccia a quell'olandese un po'
scuro? Rispondete onestamente: Gullit varcherà o non varcherà
quella soglia?
Io credo di sì, anzi, ne sono
certo. E credo anche che il Siur Presidente aggiungerebbe un posto a
tavola anche per un nero. E chiacchiere e sorrisi, e "Ruud ne
vuoi ancora?" e "Ruud un cognachino?" e "Ruud se
torni domenica ci fa piacere facciamo venire anche i parenti".
Conclusione: il Presidente della Lega Lombarda non è un
razzista, perché non guarda al colore della pelle.
2. In Italia c'è un campione del
mondo di pugilato che si chiama Kalambay.
A me il pugilato non piace, ma sere fa
sono rimasto incollato davanti alla televisione a guardare un
incontro in cui l'italiano Kalambay le suonava di santa ragione a un
bianco, un inglese mi pare. Kalambay ha il passaporto e la
nazionalità italiana, ma in verità è zairese: la
sua pelle è esplicitamente nera.
L'incontro si svolgeva in Italia e la
folla acclamava il difensore del tricolore bianco-rosso-verde:
"Ka-lam-bay ! Ka-lam-bay!".
Mi sono chiesto: quelli che acclamano a
gran voce, possibile siano tutti abbonati a Nigrizia? Tutti quei
tifosi assatanati di pugni, possibile siano tutti iscritti
all'associazione dell'Arci "Africa insieme"?. Onestamente
non è possibile. Conclusione: gli sportivi italiani non sono
razzisti, perché acclamano un atleta nero.
3. Il terzo esempio ci sposta in terra
di Francia, ma restiamo pur sempre attaccati allo sport considerando
la figura di un grande lottatore: Jean Marie Le Pen. Intervistato
dalla televisione italiana , Le Pen ha confessato di non sentirsi un
razzista, uno che odia i neri, no, ha detto, "io sono solo un
papà, che si preoccupa dell'avvenire dei suoi figli come tutti
i papà di questo mondo", e ha continuato "io tengo
quattro milioni di figli francesi disoccupati, mi capisce
Biagi, quattro milioni mica bruscolini! Cosa dovrei fare, mi dica
Lei. E voi papà che mi state ascoltando, voi non odiate i
figli degli altri, ma pensate prima di tutto ai vostri, no? Così
anch'io, ai quattro milioni di immigrati neri che - guarda la
coincidenza! - tolgono il pane di bocca e il lavoro ai miei quattro
milioni di cuccioli parigini, cosa debbo dire? Che se ne vadano, e
senza offesa! Io non ce l'ho con voi, amici neri, per il colore della
vostra pelle, ma dovete tornare a casa vostra, all'ombra dei baobab,
dai vostri papà".
L'argomentazione di Le Pen era
ineccepibile, e di forte portata mass-mediologica: mio nonno è
sbottato dicendo ""L'a rason!" (traduzione "ha
ragione!").
Le Pen buon padre di famiglia è
l'ultimo esempio che voglio portare a dimostrazione dell'assunto
iniziale: in Italia e in Europa, in questo confusissimo fine secolo-
fine millennio, il razzismo non esiste.
Marco Martinelli Gabrieli
Un'Europa della poesia da
ricostruire
Noi siamo una compagnia teatrale di
Ravenna. Ci chiamiamo Albe.
Dal 1987 lavoriamo in scena insieme a
giovani immigrati senegalesi, intrecciando drammaturgia bianca e
danza nera, lavoro d'attore e musicalità africane, dialetto
della nostra terra e dialetti del Sud del modo.
Con i nostri spettacoli interetnici e
afro-romagnoli non abbiamo disegnato l'ennesima caricatura della
"mia", "tua", "nostra" Africa: abbiamo
al contrario cercato di mettere a fuoco la "loro" Europa,
il diritto degli immigrati di conquistare il vecchio continente in
termini di dignità e solidarietà.
Molti parlano in termini giuridici a
proposito di leggi e permesso di soggiorno, altri mettono in luce
gli aspetti politici ed economici e le cause che costringono la gente
ad abbandonare la propria terra alla ricerca di pane e lavoro.
A noi preme sottolineare l'aspetto
culturale della relazione tra popoli costretti dalla Storia a
condividere lo stesso territorio: l'immigrazione non va vista solo in
termini di problemi da risolvere, ma anche nella luce di una reale
opportunità di reciproco arricchimento religioso, culturale,
artistico. Le civiltà ricche di arte e pensiero sono sempre
state civiltà meticce: è un invito al meticciato
artistico e di idee
quello che le Albe rivolgono a chi opera sul terreno della
comunicazione e della produzione artistica e di idee.
Il pianeta è oggi come l'Atene
classica del V secolo: una minoranza di uomini liberi vive, consuma e
si "diverte" alle spalle e sulle spalle di una maggioranza
di schiavi. Oggi come allora si parla di democrazia: è una
finzione retorica, e lo sarà finché il muro che separa
il Nord dal Sud del mondo, un muro costruito da meccanismi di rapina,
non verrà abbattuto.
Aristotele, il teorico della democrazia
Ateniese, definiva lo schiavo "una proprietà senz'anima":
i teorici di questa democrazia planetaria di fine millennio non la
pensano molto diversamente.
Per quel che ci riguarda, non
dimentichiamo le anime e i cervelli: non limitiamoci a ragionare in
termini giuridici e amministrativi: c'è anche un'Europa della
poesia da costruire, un'Europa meticcia, ricca delle diverse arti e
sapienza di tutti i suoi cittadini, antichi e nuovi.
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