Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 173
maggio 1990


Rivista Anarchica Online

ALBE teatro in bianco/nero
di le Albe

Dakar-Rimini-Dakar

Noi siamo tre senegalesi che lavorano con tre italiani sulla scena. Noi non avevamo mai fatto teatro prima e non avevamo pensato all'opportunità di farlo. Grande parte della nostra cultura è la danza, il cantare e suonare, ma non pensavamo che queste cose potevamo farle davanti ad una platea bianca. Dopo un anno di lavoro la gente ha cominciato a chiederci se avevamo mai fatto teatro e quando rispondevamo "no" la gente non ci credeva e i giornalisti mi chiedevano "cosa vuol dire fare teatro qui davanti ad una platea bianca?", rispondevo "è importante perché finché i bianchi non conoscono la cultura nostra non possono sapere chi siamo".

A noi fare teatro è servito per tante cose: imparare la lingua, conoscere la cultura italiana e fare un lavoro onesto. Noi tre senegalesi prima di partire per il Senegal avevamo una grande paura di come i nostri genitori avrebbero considerato il nostro lavoro in teatro.

Quando siamo arrivati all'aeroporto di Dakar "Yoff", dopo un anno e mezzo in Italia, l'aeroporto era cambiato ai miei occhi. Subito ho visto mio babbo con 4 fratelli. I fratelli hanno cominciato a ridere, vuol dire che erano contenti di vedermi. Mio babbo con la faccia tristissima subito mi ha ricordato le lettere che gli scriveva mio zio, perché ho uno zio che vive in Italia, a Rimini. Lui mi ha aiutato a venire in Italia. Quando ho cominciato a lavorare con le Albe mio zio non voleva perché pensava che con questo lavoro non sarei riuscito a mandare i soldi giù per far vivere la mia famiglia. In quel momento facevo il venditore ambulante, ma non sono mai stato un bravo venditore. Sempre mio zio mi diceva che da sei anni lui vive in Italia e "i bianchi non sono bravi: ti fregano sempre o ti fanno lavorare molto e ti pagano poco; continua a fare il venditore incha alla saviendra" che vuol dire "la fortuna ti verrà".

Gli ho detto: "Guarda per me questo è un lavoro, devo farlo", mi ha detto "Se tu fai questo lavoro non ci conosciamo più, poi manderò delle lettere a tuo babbo e gli dirò che non sei più sotto la mia protezione". Gli ho risposto: "Va bene, fai quello che ti pare a me piace questo lavoro e devo farlo". Lui mi ha detto: "Prendi tutti i tuoi bagagli e vattene".

Dopo due mesi che avevo litigato con mio zio ricevetti una lettera che veniva da mio babbo e mi diceva: "Ho ricevuto la lettera da tuo zio, mi dice che non sei più sotto la sua protezione, mi dice che hai cominciato a fare delle cose brutte in Italia perché bevi il vino, mangi il maiale, etc... sei un musulmano, non dimenticare mai la tua religione"; però non sapeva che lavoro stavo facendo. Quando l'ho visto in aeroporto con la sua faccia triste ho pensato che lui era arrabbiato con me. Dopo due giorni a casa mio babbo ha cominciato a chiedere: ."Che lavoro fai? e perché sei tornato così presto? Tuo zio ha fatto sei anni in Italia e non è ancora ritornato". Ho risposto: "Il lavoro che faccio è l'attore di teatro, sono ritornato perché abbiamo un progetto che si chiama Ravenna-Dakar e siamo invitati a una settimana culturale. Dobbiamo recitare al Teatro Nazionale Daniel Sorano e all'Università di Dakar".

Subito ha cominciato a sorridere il giorno che ho portato le carte d'invito allo spettacolo per i miei amici e la mia famiglia. Me ne ha chiesta una anche per lui. Erano quindici carte d'invito, ma non erano abbastanza perché tutti i miei amici del quartiere avevano la curiosità di vedermi in scena. Gli altri non credevano che io facessi l'attore perché dicevano che non ho le qualità d'attore. E anche loro avevano visto il Teatro Sorano solo alla televisione ma non c'erano mai andati. È stata la prima volta per me e anche per loro.

Il 9 gennaio, giorno dello spettacolo, tre ore prima dell'inizio, erano lì 8 amici e 7 fratelli miei davanti alla porta del teatro. Hanno visto lo spettacolo. Il giorno dopo tutti mi hanno detto: "Siete bravi, bravissimi"; anche persone che prima non conoscevo mi fermavano per strada e mi dicevano "È lui che recitava ieri al Sorano, è bravissimo". I miei fratelli mi dicevano: "Adesso sei diventato un bravo attore, se ti pagano bene è un buon mestiere". Mio babbo mi diceva: "Ho sentito che sei stato bravo ieri al Sorano", perché lui non era venuto; aveva degli impegni, ma i miei fratelli gli hanno raccontato tutto lo spettacolo. Era molto più contento di me, così io adesso sono più tranquillo a fare il mio lavoro, perché per noi è importantissimo lavorare tranquillamente.

Fare teatro mi è servito per tante cose: imparare la lingua, conoscere la cultura italiana, fare un lavoro onesto, ma anche conoscere meglio la mia cultura senegalese. In questo viaggio con i miei compagni ho visto delle cose che non avevo mai visto prima. Ho conosciuto anche delle persone importanti della mia cultura senegalese. Per esempio Ousmane Sembene, una persona conosciuta in tutto il mondo. A scuola avevo studiato i suoi romanzi ma non lo avevo mai visto. Questa volta a Dakar ho parlato con lui. Mi ha dato dei consigli e il coraggio di continuare a fare l'attore.

Sono andato anche in Casamance, un posto dove c'è la cultura senegalese originale. Lì ho studiato tante cose che non sapevo, ho visto anche tante cose che non avevo mai visto e non pensavo neanche di vedere. Come per esempio l'antica religione africana con i feticci.

Adesso siamo ritornati; dopo lo spettacolo "Lunga vita all'albero" noi tre senegalesi metteremo in scena uno spettacolo tutto nostro.

Grazie.

Mandiaye Ndiaye

Il colonialismo sulla pelle

Caro Nico,
abitiamo in Rue Assane Ndoye, in pieno centro a Dakar, accanto a una piccola moschea: i giorni sono ritmati musicalmente dal belare di una capra nel cortile qui accanto, dalle nenie del muezzin e dal nuovo lp di Youssou Ndour che ti fanno ascoltare ovunque. Youssou Ndour è la star nazionale, famoso come il presidente del Senegal Abdou Diouf: appena arrivati abbiamo avuto la fortuna di assistere a un suo concerto al Theatre Sorano, strapieno di mille e passa giovani senegalesi. Un po' concerto rock, un po' festa di villaggio, le mamme che mettono i bambini sul palco a ballare, e a dare la mano a Youssou "voce d'angelo", una frenesia morbida e collettiva che offre il senso e la vibrazione della danza, anche se rigidamente costretta nella platea di un teatro.

Che cosa abbiamo fatto in questo periodo iniziale di permanenza? il nostro dovere. Abbiamo partecipato a Afriqu-Italie, settimana di dialogo tra cultura italiana e senegalese, portando Siamo asini o pedanti? al Theatre National Daniel Sorano (il più prestigioso di tutta l'Africa occidentale francofona, non solo del Senegal) e all'Università di Dakar.

Posso dirvi con franchezza: grande successo in entrambe le tappe, ma con sfumature e atmosfere differenti. Al Sorano ad applaudirci c'erano l'Ambasciatore d'Italia a Dakar, autorità di diversi paesi e intellettuali africani ed europei; all'università, nel campus di basket all'aperto, un pubblico composto esclusivamente di studenti. Risultato: divertimento e apprezzamenti colti al Sorano, sganasciamento e applausi a scena aperta e grida e battere di mani all'Università. Commedia dell'arte di fine millennio. Al centro Mor-Arlecchino e le sue trascinanti invenzioni-improvvisazioni in wolof , dialetto dominante in Senegal.

Dakar ci ha accolto con un sole estivo, ma da qualche giorno, con grande sorpresa degli stessi senegalesi, piove. Cielo coperto, da nuvole scure. Siamo assaliti da una marea di sensazioni, immagini, emozioni, pensieri, sguardi, odori. Tutto molto violento, estremo. Venendo qui si ha l'impressione di passare un confine, un muro invisibile ma reale. Dakar è una metropoli la cui superficie è europea, una vernice di Francia sopra un contesto totalmente esploso. Le vie del centro ricordano un quadro di Brueghel o Bosch: lebbrosi, paralitici, nani, venditori ambulanti, piccoli truffatori, madri mendicanti con i bambini nelle scatole di cartone, lustrascarpe. Noi qui rappresentiamo la potenza dell'uomo bianco.
Caro Nico, che il colonialismo non fosse finito lo sapevamo già da Ravenna, ma qui lo senti sulla pelle. La tua. La tua pelle di uomo bianco che, nel mezzo di tanta miseria, è il simbolo della ricchezza e della forza. Il Senegal è un vulcano: l'85 % della popolazione è sotto il livello di guardia, più del 10% vive così così, quel che resta è ricchissimo perché divora i soldi della cooperazione Nord-sud. Esploderà, ma non si sa né come né quando. E se il Senegal è la Svizzera dell'Africa, immaginiamoci il resto di questo continente strangolato.

Intanto proprio oggi si è festeggiato l'arrivo della Parigi-Dakar, una festa di volgarità e di prepotenza esibizionistica, macchine e camion e motociclette che vomitano arroganza e catrame su una città inerme. Che tristezza.

Caro Nico, qui tutti ci consigliano di aspettare a trinciare giudizi su una realtà molto distante dalla nostra e complessa, quel che ti scrivo te lo scrivo di getto, raccontandoti a frammenti quel che abbiamo vissuto fino ad oggi. Ci sentiamo puntolini bianchi in una marea nera. Il quadro ottico è radicalmente cambiato: perché è anche una questione cromatica. I primi giorni ci guardavamo tra noi e la nostra pelle ci sembrava "strana". Ci percepiamo "differenti", perché la norma cromatica cui si era abituati qui è capovolta. E' questione, si direbbe in palcoscenico, di fondale. Qui non c'è solo miseria e abbrutimento, c'è anche eleganza e bellezza. I senegalesi, uomini e donne, hanno un portamento altero, i corpi sono morbidi e sensualmente fieri. L'Islam qui certo non potrebbe imporre il chador, sarebbe un delitto all'ambiente, al morbido intrecciarsi tra il calore dei corpi e la carezza del sole, del vento.

Ma non è solo il nostro sguardo che è cambiato: anche quello degli attori senegalesi delle Albe non è più lo stesso. Sono orgogliosi di aver recitato alla "Scala" del loro Senegal, sono delusi di non ritrovare più il Senegal che avevano lasciato alla partenza. Non è il paese che è mutato, sono i loro occhi di emigrati ad aver visto altri mondi. Quando andavo in Place de l'Indipendance, mi dice Mandyaie, mi sembrava la più bella del mondo, adesso tutto mi appare brutto, povero, squallido . La vernice di Francia non riesce ad occultare più di tanto. Questo viaggio, che per noi è di scoperta, per Mandyaie e compagni è un ritorno, ci trova tutti, per ragioni diverse, "spaesati": su questo si riflette ogni giorno, mettendo in comune le nostre esperienze di viaggiatori, emigranti del teatro. Questa, penso, è la ragione profonda del perché siamo venuti qui: ricambiare la visita ai nostri amici africani, farsi emigranti, non per bisogno, ma per ricerca artistica, politica, sapienziale. Capovolgere lo sguardo. Dopo aver ospitato nello spazio teatrale quei figli d'Africa che sono sbarcati nelle nostre città a cercare pane e lavoro, diventare oggi ospiti di quella Madre Africa da cui si sono separati. Dopo aver lavorato insieme a Iba Babou e compagni per due anni, alberi sradicati dalla foresta e trapiantati sulle spiagge dell'Adriatico, arrivare oggi qui e rivederli nella foresta da cui sono stati divelti. Dopo essersi inventati l'Africa in Romagna, scoprirla qui, oggi, per la prima volta.

Gli alberi a Dakar sono, come in ogni metropoli del mondo, assediati dal cemento. Ma spesso vedi radici che spaccano l'asfalto, baobab attorniati dalle baracche che protendono le braccia al cielo, pare che gridano di rabbia e di gioia di vivere insieme. Gli stessi sentimenti proviamo noi, noi che qui siamo, come tutti i bianchi a Dakar, "dollari ambulanti" agli occhi dei cittadini neri.
Che cosa intendiamo fare nel tempo che ci resta? Uscire da Dakar. Prima, però, incontrare scrittori, teatranti, cineasti. Abbiamo già parlato con Sembene Ousmane, grande vecchio del cinema africano, il cui Camp de Thiaroye è stato applaudito all'ultima Biennale di Venezia. Abbiamo già incontrato altri intellettuali, ogni incontro è utile nel metter a fuoco che cosa significa essere artisti impegnati sul terreno dell'etica e della politica in una terra dalle lacerazioni violente, in bilico tra miseria d'altri tempi e lo sbarco dei giapponesi, tra la pesante eredità del passato coloniale e la drammatica prigione di una indipendenza solo formale. Dimenticavo: Mor-Arlecchino non può più festeggiare a Diourbel la nascita della sua bambina e l'arrivo delle Albe romagnole. A Diourbel da tempo non piove, allora il marabutto musulmano ha vietato le feste fino alla prossima pioggia. Se vieni giù con una troupe della RAI, la festa di Arlecchino che torna al suo paese non si può più fare. L'Islam non impone il chador alle senegalesi, ma certo anche qui non scherza. E allora?

Ti proponiamo un possibile schema di "riprese". Due tempi: Dakar e la Casamance.

Primo tempo: le Albe in giro per Dakar con Sembene Ousmane che fa loro da cicerone, e gli spiega la "sua" Dakar (Sembene è uno dei più importanti romanzieri di questo secolo nell'Africa francofona). Oppure, variante: le Albe bianche a casa delle Albe nere.

Secondo tempo: in febbraio il CoSpe, organismo non governativo, presente in Casamance, ci ha invitato lì a scambiare le "maschere" di Asini (l'Arlecchino nero, Fatima asino che parla, l'Uomo d'affari bianco, lo zampognaro Giordano) con i gruppi di teatro di strada che affollano i villaggi della Casamance, il "granaio" del Senegal, una regione eccezionalmente ricca di vegetazione e di antiche religioni tradizionali, dove animismo e cattolicesimo convivono: rispettandosi a distanza o fondendosi, una terra dove il ritmo dell'Africa è differente dal cupo suono metropolitano di Dakar.

E' uno schema che va arricchito di sfumature: dipende da quello che pensi si possa raccontare, dipende dalla RAI, da quanto interessano queste faccende, da quanti minuti la televisione ci vuole giocare sopra.

Al di là di questo, mi affido a te: noi siamo qui, entusiasti e straniti, arricchiti nel cuore e spaesati nella testa (o forse è il contrario), e ti aspettiamo.

Per adesso, un abbraccio forte

Marco Martinelli Gabrieli

Il razzismo? Non esiste

Rispondiamo all'angoscia di Giorgio Bocca e di quanti si chiedono se gli italiani sono razzisti.

Per noi la verità è semplice e dimostrabile: il razzismo non esiste. In Italia e in Europa, alle soglie dei 2000, in un continente attraversato da milioni di immigrati che cercano lavoro e dignità umana, il razzismo non esiste. E la fondatezza di tale verità è dimostrata in maniera schiacciante dai seguenti tre esempi.

1. Primo esempio, in forma di racconto immaginario ma verosimile.

Immaginatevi la casa del presidente della Lega Lombarda, in una splendente giornata di primavera. Io non conosco il signore in questione, ma suppongo che lavori da qualche parte, probabilmente è impiegato di banca o in un ufficio statale. Mi immagino che tenga famiglia: all'una circa torna a casa, saluta la moglie e i bambini, "ciao cara", "ciao caro, fai presto che la minestra si fredda". La famigliola fa per mettersi a tavola quando trilla il campanello. "Chi diavolo è a quest'ora?". I bambini corrono ad aprire e restano a bocca aperta. "Papà, papà, corri, corri...", "chi è che rompe... " borbotta il Presidente della Lega Lombarda imprecando in dialetto lombardo filologicamente purissimo. Arrivato alla porta, la visione lo inebetisce: sapete chi c'è davanti al cancello della villetta del Presidente della Lega, alto e sorridente?
Ruud Gullit!
Il lombardo purosangue non crede ai suoi occhi: "Zimba Gullit a casa mia?"

Ora facciamo l'ipotesi peggiore: che il Presidente della Lega Lombarda sia anche un interista accanito. Bene: voi pensate che chiuda la porta in faccia a quell'olandese un po' scuro? Rispondete onestamente: Gullit varcherà o non varcherà quella soglia?

Io credo di sì, anzi, ne sono certo. E credo anche che il Siur Presidente aggiungerebbe un posto a tavola anche per un nero. E chiacchiere e sorrisi, e "Ruud ne vuoi ancora?" e "Ruud un cognachino?" e "Ruud se torni domenica ci fa piacere facciamo venire anche i parenti". Conclusione: il Presidente della Lega Lombarda non è un razzista, perché non guarda al colore della pelle.

2. In Italia c'è un campione del mondo di pugilato che si chiama Kalambay.

A me il pugilato non piace, ma sere fa sono rimasto incollato davanti alla televisione a guardare un incontro in cui l'italiano Kalambay le suonava di santa ragione a un bianco, un inglese mi pare. Kalambay ha il passaporto e la nazionalità italiana, ma in verità è zairese: la sua pelle è esplicitamente nera.

L'incontro si svolgeva in Italia e la folla acclamava il difensore del tricolore bianco-rosso-verde: "Ka-lam-bay ! Ka-lam-bay!".

Mi sono chiesto: quelli che acclamano a gran voce, possibile siano tutti abbonati a Nigrizia? Tutti quei tifosi assatanati di pugni, possibile siano tutti iscritti all'associazione dell'Arci "Africa insieme"?. Onestamente non è possibile. Conclusione: gli sportivi italiani non sono razzisti, perché acclamano un atleta nero.

3. Il terzo esempio ci sposta in terra di Francia, ma restiamo pur sempre attaccati allo sport considerando la figura di un grande lottatore: Jean Marie Le Pen. Intervistato dalla televisione italiana , Le Pen ha confessato di non sentirsi un razzista, uno che odia i neri, no, ha detto, "io sono solo un papà, che si preoccupa dell'avvenire dei suoi figli come tutti i papà di questo mondo", e ha continuato "io tengo quattro milioni di figli francesi disoccupati, mi capisce Biagi, quattro milioni mica bruscolini! Cosa dovrei fare, mi dica Lei. E voi papà che mi state ascoltando, voi non odiate i figli degli altri, ma pensate prima di tutto ai vostri, no? Così anch'io, ai quattro milioni di immigrati neri che - guarda la coincidenza! - tolgono il pane di bocca e il lavoro ai miei quattro milioni di cuccioli parigini, cosa debbo dire? Che se ne vadano, e senza offesa! Io non ce l'ho con voi, amici neri, per il colore della vostra pelle, ma dovete tornare a casa vostra, all'ombra dei baobab, dai vostri papà".

L'argomentazione di Le Pen era ineccepibile, e di forte portata mass-mediologica: mio nonno è sbottato dicendo ""L'a rason!" (traduzione "ha ragione!").

Le Pen buon padre di famiglia è l'ultimo esempio che voglio portare a dimostrazione dell'assunto iniziale: in Italia e in Europa, in questo confusissimo fine secolo- fine millennio, il razzismo non esiste.

Marco Martinelli Gabrieli

 

Un'Europa della poesia da ricostruire

Noi siamo una compagnia teatrale di Ravenna. Ci chiamiamo Albe.

Dal 1987 lavoriamo in scena insieme a giovani immigrati senegalesi, intrecciando drammaturgia bianca e danza nera, lavoro d'attore e musicalità africane, dialetto della nostra terra e dialetti del Sud del modo.

Con i nostri spettacoli interetnici e afro-romagnoli non abbiamo disegnato l'ennesima caricatura della "mia", "tua", "nostra" Africa: abbiamo al contrario cercato di mettere a fuoco la "loro" Europa, il diritto degli immigrati di conquistare il vecchio continente in termini di dignità e solidarietà.

Molti parlano in termini giuridici a proposito di leggi e permesso di soggiorno, altri mettono in luce gli aspetti politici ed economici e le cause che costringono la gente ad abbandonare la propria terra alla ricerca di pane e lavoro.

A noi preme sottolineare l'aspetto culturale della relazione tra popoli costretti dalla Storia a condividere lo stesso territorio: l'immigrazione non va vista solo in termini di problemi da risolvere, ma anche nella luce di una reale opportunità di reciproco arricchimento religioso, culturale, artistico. Le civiltà ricche di arte e pensiero sono sempre state civiltà meticce: è un invito al meticciato artistico e di idee quello che le Albe rivolgono a chi opera sul terreno della comunicazione e della produzione artistica e di idee.

Il pianeta è oggi come l'Atene classica del V secolo: una minoranza di uomini liberi vive, consuma e si "diverte" alle spalle e sulle spalle di una maggioranza di schiavi. Oggi come allora si parla di democrazia: è una finzione retorica, e lo sarà finché il muro che separa il Nord dal Sud del mondo, un muro costruito da meccanismi di rapina, non verrà abbattuto.

Aristotele, il teorico della democrazia Ateniese, definiva lo schiavo "una proprietà senz'anima": i teorici di questa democrazia planetaria di fine millennio non la pensano molto diversamente.

Per quel che ci riguarda, non dimentichiamo le anime e i cervelli: non limitiamoci a ragionare in termini giuridici e amministrativi: c'è anche un'Europa della poesia da costruire, un'Europa meticcia, ricca delle diverse arti e sapienza di tutti i suoi cittadini, antichi e nuovi.