Rivista Anarchica Online
Autogestione in sari
di Tiziana Ferrero
Uno sguardo e alcune riflessioni
sulla Sewa (Self Employement Women's Association), un'organizzazione
di donne che, fondata come strumento di mutuo appoggio economico, è
oggi un veicolo di emancipazione sociale e una proposta per un altro
modello di sviluppo.
Sono un po' in ritardo rispetto alle
ondate di hippy ed ex militanti della sinistra delusi che, negli anni
Settanta, andavano in India a cercare il proprio nord, o il karma o
il guru o l'eroina e l'hashish sulle spiagge di Goa. Si viveva con
poco, ci si spostava con ancora meno, si fumava con niente, tutti
passavano da un ashram all'altro, dove l'ospitalità è
sacra, e le giornate trascorrevano tra una meditazione zen e lo yoga.
Non sono moralista e non voglio fare del moralismo, ma questa era
l'India che si conosceva in Occidente per i racconti di chi ci era
stato o di chi ci voleva andare.
Poi c'era l'India di Indira Gandhi,
stretta tra le reminiscenze pacifiste del mahatma e la scelta della
bomba atomica, assediata dalla crescita demografica e divisa sulla
sterilizzazione forzata. Un paese, anzi, un continente, autarchico,
dove solo oggi si comincia a importare dagli stati del primo mondo (e
a indebitarsi), attanagliato dalla povertà e dalla fame di
decine di milioni di persone, con gravi problemi sociali ed etnici,
tanto che persino il suo premier è stato ucciso in un
attentato da un sik, che era poi la sua guardia del corpo. Così
come trentasei anni prima l'altro Gandhi, il mahatma, il padre della
patria, era stato ucciso da un indù.
E ancora, l'India dove tutto è
bellezza:le montagne del Kashmir e la giungla tropicale del Kerala,
il Taj Mahal e le sculture tantriche del sud, erotiche, forse oscene
e conturbanti per l'occidentale che ha subito secoli di cattolicesimo
o di calvinismo per cui il corpo nudo è solo quello che si ha
quando si nasce.
E poi tante altre Indie, ciascuna con
una faccia diversa, che si offrono al visitatore; forse è per
questo che ognuno vi trova ciò che vuol trovare e ne coglie
sempre solo un aspetto. Così, o piace o non piace.
A me è piaciuta perché è
bella e perché guardando negli occhi qualsiasi indiano si
coglie nel suo sguardo la saggezza millenaria di chi sembra sapere da
sempre cos'è la vita. E non mi è piaciuta perché
in quello sguardo i miei occhi da occidentale leggono anche
rassegnazione, l'attesa di una vita futura che dovrebbe essere
migliore; mi ha intristito vedere la gente che vive sulla strada, e
non è folclore, la malattia,la fame. . . Insomma, l'India è
il paese delle contraddizioni, delle emozioni forti, belle o brutte
che siano. Una delle tante Indie, quella che ho
conosciuto io, è quella delle comuni, degli ashram gandhiani,
dei movimenti delle donne. Un'India che dà speranza, alla
quale persino l'evoluto Occidente dovrebbe guardare.
Arrivo a Delhi proprio pochi giorni
prima delle ultime elezioni; il clima è surriscaldato, il
governo di Rajiv Gandhi è in pericolo, sommerso com'è
dagli scandali, sui giornali locali si fanno allusioni alla moglie
italiana e alla mafia, in una vignetta appare un aereo dell'Alitalia
spezzato in due.
Anna dice che è meglio restare a
Delhi qualche giorno, in attesa che le acque si calmino. Ma io
scalpito. Qualche telefonata in giro e scopriamo che a Delhi c'è
Runa Banj, la segretaria della Sewa di Lucknow. Anna la conosce e mi
dice che è una donna in gamba. Andiamo a trovarla dai suoi
ospiti. È senz'altro una donna affascinante, ma avrò
modo di conoscerla meglio, a Lucknow, nella comunità della
Sewa, dove lavora.
I più poveri dei poveri
Decidiamo così di partire per
Lucknow, la capitale dell'Uttar Pradesh, lo stato a maggioranza
musulmana. Otto ore di viaggio in treno - e qui ho il primo
sgradevole impatto con le ferrovie indiane, anche se in seguito
imparerò anch'io a prendere ciò che viene come
l'ineluttabile corso degli eventi - attraverso una pianura brutta e
sconfinata, sembra una pianura Padana interminabile. Lucknow in
compenso è meglio di Delhi, c'è il solito traffico
congestionato, ma tutto sembra essere meno frenetico. Andiamo a casa
di Runa che ci accoglie con grande cordialità e ci accompagna
al nostro albergo, la rest house del governo. La camera è
brutta, squallida, abbastanza sporca e nel bagno non funziona quasi
nulla, ma questo fa meno impressione, basta avere un letto e un tetto
e si supera tutto e poi io non sono schizzinosa.
La mattina successiva Runa ci manda a
prendere da un uomo che pensiamo sia l'autista della comunità.
È magrissimo, quasi senza denti e le gengive sono arrossate
dalla masticazione della pasta di noci di betel, alla quale spesso
vengono aggiunte droghe leggere e che produce una salivazione color
rosso.
Guardo fuori dal finestrino e vedo un
uomo che sputa per terra, sembra che sputi sangue: adesso capisco
cos'erano quelle chiazze rosse che vedevo un po' ovunque, sui muri,
per terra, sui finestrini...La piccola palazzina dove stanno le donne
della Sewa è lontana, Lucknow è grande, ha due milioni
di abitanti e non ci sono grattacieli. Attraversiamo quartieri
poveri, agglomerati di slum; e poi ci sono i più poveri
dei poveri, quelli che vivono nelle tende lungo le strade, tende
fatte di stracci raccattati qua e là, alte non più di
un metro; dentro, le donne, accucciate, cucinano, mettono al mondo
bambini, li allevano, vivono; fuori, gli scarichi delle automobili,
degli autobus e la polvere, che entrano direttamente nei loro
polmoni.
Runa ci stava aspettando, tutte le
donne della comunità sono state avvertite e ci osservano con
sguardi tra lo stupore e la curiosità, alcune si scambiano
occhiate e ridono divertite. Devo confessare che mi sento un po' in
imbarazzo, mi sento proprio un'occidentale, è il mio primo
contatto diretto e profondo con le donne indiane, e sento che
apparteniamo a due mondi diversi che difficilmente riusciranno a
comprendersi. Runa ci presenta e poi riunisce tutte le donne - circa
una cinquantina - e in cerchio cantano una specie di inno della Sewa
di Lucknow; tra le altre parole, dicono: contro i padroni, libertà;
contro lo sfruttamento, libertà; contro il pregiudizio
religioso, libertà. Nel vedere e sentire queste piccole e
minute donne, avvolte nei loro sari coloratissimi, gli occhi grandi e
pieni di speranza, cantare queste parole, arrivo alla commozione
massima, quasi al pianto. Il coro si scioglie, Runa ci presenta le
donne una per una, e poi ci mostra tutte le attività che si
svolgono in comunità. Siamo libere di muoverci, di
fotografare. Anna sta filmando con la videocamera. Purtroppo c'è
il problema insormontabile della lingua, ma Shabana ci fa da
interprete. Sembra che in India l'incomprensione linguistica tra i
diversi gruppi etnici sia alla base di incomprensioni più
profonde e radicate.
Qui a Lucknow parlano l'urdu, la lingua
degli indiani di religione musulmana, o un dialetto di hindi e urdu
mischiati. I1 primo reparto che visitiamo è quello degli
stampatori. Alcuni uomini stampano a mano, con timbri che riproducono
disegni diversi metri e metri di vari tessuti, dal cotone,
all'organza, alla più nobile seta. I tessuti passano poi alle
tagliatrici, quindi alle cucitrici e, per ultime, alle ricamatrici.
Ogni lavoro è fatto rigorosamente a mano.
Solo le cucitrici dispongono di vecchie
macchine da cucire, così come insegnava il mahatma. Le kurte
(casacche) e i pantaloni e le dupatte (le sciarpe che usano le
donne musulmane) vengono così distribuite alle ricamatrici che
possono lavorare in casa o recarsi alla comunità: un bel passo
avanti, visto che la donna musulmana non può lavorare, né
tanto meno entrare in contatto con estranei; la purda
(l'isolamento) va rispettata! Dalle mani di queste donne escono abiti
meravigliosamente ricamati a mano, e loro su questo ci vivono,
mantenendo spesso tutta la famiglia. Ma com'era la situazione prima
che arrivasse la Sewa? Il ricamo chikan, tipico di questa
città, era estremamente curato e raffinato durante la
dominazione britannica. Con l'indipendenza il mercato si apre e
l'esecuzione dei ricami non è più accurata. Le donne
lavorano molto, ma percepiscono poche rupie (2 rupie ogni kurta prima
della Sewa), sono sfruttate dai mediatori che portano e ritirano il
lavoro e che spesso sono i presta valute che le finanziano per le
materie prime (filo, cotone, ecc.). Le donne sono sempre più
indebitate, il giro è vizioso.
800 donne 13 villaggi
Ma nel 1979 l'Unicef finanzia alcune
ricerche in India sul lavoro minorile. Lucknow è inclusa, si
indaga sull'industria del ricamo chikan. Le condizioni di queste
lavoratrici risultano subito disastrose. Con i fondi dell'Unicef e
del Sida (la Swedish International Development Agency - agenzia
svedese per lo sviluppo internazionale) si avvia nel l982 un progetto
per organizzare le donne e migliorarne le condizioni di lavoro e di
vita. Nel 1984 nasce la cooperativa Sewa (Self Employment women's
Association) Lucknow, che funziona da allora indipendentemente. Oggi
ogni donna percepisce 50 rupie per ogni capo che ricama, guadagna
settimanalmente in proporzione al lavoro che fa, è incentivata
a raggiungere livelli qualitativi sempre più alti e ha diritto
anche ad altri servizi accessori quali l'istruzione per sé e i
propri figli, l'assistenza sanitaria, e legale, l'asilo nido, ecc. E'
un bel passo avanti, tenuto conto della situazione della donna
indiana.
"Runa, quante sono oggi le socie
della cooperativa?". "Le donne sono 800 circa,
distribuite in 13 villaggi intorno a Lucknow e in Lucknow stessa. Qui
c'è uno staff tecnico della Sewa permanente, composto da 15
donne, in più c'è il segretario generale, che sarei io,
che è eleggibile annualmente. Per mia sfortuna", continua
Runa - ma lo dice ridendo, " sono stata rieletta. Noi le aiutiamo
a organizzare il lavoro e nella vendita dei prodotti. Sai, ogni anno
facciamo due esportazioni con vendita, una Bombay e una a Delhi".
"È vero", interviene Anna,
"io sono stata a una loro esposizione a Delhi, e il pubblico,
tutto femminile, composto anche di donne agiate, strappava di mano le
kurte e le dupatte". "Posso vedere qualche cosa di
finito?" "Certo,
vieni".
Una donna vestita di bianco
Mi portano nel magazzino. Intere pareti
stipate di kurte, dupatte, sari, caffettani, tutti completamente
ricamati a mano. Sono bellissimi e decido di fare qualche acquisto
per me e per qualche regalo alle amiche. Queste donne sono veramente
brave. Mi chiedo come si organizzano economicamente. Runa ci fornisce
qualche dato. I ricavi sono passati dai 5 milioni di rupie nel 1985
ai 53 nel 1988; la cooperativa è completamente autogestita e
delle 15 donne dello staff sette provengono già dalla
cooperativa. La prospettiva futura della Sewa è quella di
passare completamente le funzioni del consiglio di amministrazione
nelle mani delle donne della cooperativa; inoltre vogliono costruire
una sede propria, con un asilo-nido, un negozio,gli uffici
commerciali e un ricovero-dormitorio temporaneo per la donna con
problemi familiari. Perché qui il sesso femminile ha grossi
problemi. Se per caso ti capita di rimanere vedova, sono guai: non
hai un lavoro, quindi non sei autosufficiente, perciò pesi
economicamente sulla famiglia del marito. Non hai più marito,
e questo vuol dire che non sei nessuno. Se ti va bene , cioè
se tua suocera è buona con te, rimani nella famiglia
acquisita, e fai praticamente la cameriera di tutti (talvolta anche a
letto); oppure puoi diventare la moglie di un tuo cognato, ancora
celibe. Per molte, l'alternativa è il sati, bruciare
sulla pira insieme al marito morto.
Con il sati diventi una santa, una dea
e così sarai venerata per sempre. Oggi questa pratica è
molto meno diffusa, anche se non si hanno dati certi, soprattutto per
quanto riguarda i villaggi, dove è più difficile
effettuare controlli. Nella sede della Sewa di Lucknow c'è una
donna, vestita di bianco. È una vedova (il bianco, in India, è
un colore legato alla morte). Ha 40 anni, un viso dolcissimo che a
vent'anni doveva essere molto bello. I capelli sono quasi
completamente bianchi e risaltano sulla sua carnagione scura. E'
entrata nella Sewa nel 1984, ed è stata la sua salvezza. Fa la
tagliatrice, il mestiere forse più difficile e con il suo
lavoro si mantiene. Qui sono tutte orgogliose di lei.
"Runa, che rapporti avete con la
Sewa di Ahmedhabad?". "Cerchiamo di camminare con le
nostre gambe, non siamo molto in contatto ".
Non solo una banca
Ad Ahmedhabad, stato del Gujarat (e che
ha dato i natali a Gandhi), c'è infatti la banca della Sewa,
fondata nel 1974.
Nel 1972 alcune donne della capitale
gujarata si erano riunite in un sindacato per organizzare e
trasformare il lavoro femminile, sottopagato e socialmente
sottostimato. Il problema era sempre lo stesso: le donne dipendevano
totalmente dai presta valute e dai mediatori che procuravano loro il
lavoro. Decidono così di formare delle cooperative di mestiere
e chiedono finanziamenti alle banche nazionali, usufruendo di una
legge fresca fresca del governo che mirava a incentivare il lavoro
autonomo.
Lavorano tanto e così bene che
nel 1974, restituiti i prestiti, fondano una banca propria, tutta al
femminile, la Shri Mahila Sewa Bahakari Bank. Le prime socie sono
4000 e ciascuna versa un capitale iniziale di 10 rupie (la rupia è
pari a circa 90 lire). Le iniziative si moltiplicano, la Sewa non è
più solo una banca, in sei stati indiani nascono 26
cooperative, tutte di donne. Le iscritte al sindacato sono oggi
40mila e le socie - e azioniste - della banca di Ahmedhabad nel 1988
erano 77.329, con 23.156 libretti di risparmio e un capitale liquido
passato da 332.231 rupie nel 1975 a 14.931.000 nel 1988. Le
cooperative sono costituite dalle lavoratrici che versando una quota
di capitale ne diventano membri a tutti gli effetti. Sono quindi
collettivamente proprietarie del proprio lavoro e delle attrezzature
e dei macchinari.
Lo staff tecnico della Sewa assiste le
donne in ogni loro attività, dall'acquisto delle materie prime
alle relazioni con il mercato; insegna loro come si spuntano i
prezzi migliori e come si fa di conto. Infatti nei consigli di
amministrazione cominciano a entrare le socie della cooperativa,
ex-analfabete oggi in grado di reggersi sulle proprie gambe. La
Sewa-Lucknow è una delle 26 cooperative, e come abbiamo visto
la produzione si basa sul ricamo chikan. La peculiarità della
Sewa è proprio quella di individuare quelli che da sempre sono
i settori merceologici tipici di una zona (dal ricamo alla tessitura,
alla falegnameria, alla vendita di ortaggi e frutta, pesce, latte,
alle produzioni artigianali di ceramica, patchwork, e così
via) e organizzare intorno a questi il lavoro delle donne. Con
successo.
Così, tra una chiacchiera e
l'altra, è arrivata l'ora del pranzo. Runa ha ordinato per noi
in un vicino ristorante un ottimo pasto cinese, naturalmente molto
piccante. Fra poco ci sarà una riunione perché alcune
donne dei villaggi vicini hanno chiesto un incontro per discutere sul
pagamento di alcune kurte. Runa sostiene che il lavoro è stato
eseguito male e non è stato possibile ottenere buoni prezzi
sul mercato. Le donne cominciano ad arrivare a piccoli gruppi, sono
quasi tutte vestite di nero e portano il velo, che però poi
sollevano, essendo noi tutte donne. Alla riunione partecipiamo anche
noi in qualità di osservatrici, anche perché ci è
impossibile comprendere anche solo una parola di urdu. Sono circa
centocinquanta e agguerrite. Non hanno certo l'atteggiamento passivo
e un po' ritroso che ci si potrebbe aspettare. La discussione dura
almeno due ore, ma si giunge a una mediazione. Il lavoro sarà
pagato loro regolarmente, ma in futuro dovranno fare più
attenzione. Lo staff della Sewa punta molto sulla qualità dei
prodotti, proprio per alzare i prezzi e incrementare i guadagni, a
tutto vantaggio della cooperativa. Il meeting si chiude con
un'offerta di the e il grido di alcuni slogan, tra cui le parole
dell'inno che la mattina avevano cantato per noi.
Ormai è buio, la sera scende
presto, è ora di tornare nel nostro albergo. Ma abbiamo
appuntamento con Runa a cena. Organizziamo per l'indomani mattina la
visita in uno degli slum in cui abitano alcune donne della Sewa. Per andare in questo villaggio
dobbiamo noleggiare un taxi per alcune ore. La contrattazione del
prezzo ci porta via un po' di tempo e ci lascia come sempre
arrabbiate con noi stesse e con il tassista. La sensazione è
quella della fregatura, perché siamo occidentali, bianche e
donne. Certo, loro sono poveri e 100 rupie in più per me non
sono niente. Il problema è che sono stati proprio i turisti
occidentali a stravolgere tutte le loro regole di mercato non dette.
L'offerta di mance generose e il pagamento di prezzi alti, che spesso
corrispondono a una paga mensile di un indiano, ha causato una specie
di avidità e di generalizzazione per cui tutti i turisti sono
ricchi. Invece bisognerebbe adeguarsi alle loro regole di mercato:
Runa usava avvertirci dell'importo delle tariffe dei risciò a
pedali, raccomandandoci di non pagare una rupia di più.
Regola che noi contravvenivamo
immediatamente, perché farsi scarrozzate su un risciò a
pedali, guidato da un indiano magro e macilento, era terribilmente
imbarazzante. Ma era l'unico mezzo di trasporto e se non ne avessimo
usufruito noi, l'avrebbe fatto qualche altro indiano, che non sarebbe
stato altrettanto generoso.
Nel villaggio siamo subito attorniate
da gruppi di ragazzini incuriositi, che ci accompagneranno per tutta
la nostra permanenza. Le strade sono di terra battuta e ai lati
scorrono i canali della fogna scoperta. L'odore acre dell'orina umana
si mischia a quello del letame delle vacche che viene lasciato a
essiccare sui muri delle case e che sarà usato poi come
combustibile. Il caldo accentua l'odore, le mosche ronzano intorno ai
cumuli di rifiuti. La percentuale di infezioni, soprattutto agli
occhi, contratte dagli abitanti in questi villaggi è
altissima. Le socie della Sewa hanno diritto anche all'assistenza
sanitaria: due medici si recano ogni settimana nei villaggi e vengono
pagati con una cifra simbolica; perché parte del ricavo della
cooperativa viene usato per coprire le spese in eccedenza. Da quando
la Sewa è entrata in questi villaggi alcune cose sono
migliorate. Qui, ben 500 bambini ora possono frequentare la scuola,
anche questa organizzata dalla Sewa; molte famiglie prima dormivano
su giacigli in terra, ora hanno potuto comprare qualche mobile e
qualche suppellettile per la cucina e, soprattutto, il loro
fabbisogno alimentare ora viene rispettato.
Lasciamo il villaggio verso l'una e
torniamo alla sede della cooperativa. Oggi è domenica,
l'attività è ridotta, quasi tutte le donne sono nelle
loro case. Giriamo l'ultimo pezzo della pellicola intervistando Runa.
Ora che l'ho conosciuta meglio, posso dire che è una donna con
una notevole personalità e di grande autorevolezza, non faccio
che ripeterle che è una "strong person" e che di
donne come lei se ne trovano poche persino in Occidente. "Vedrai
quelle di Ahmedhabad", mi dice Anna. Non ne vedo l'ora.
La prima parte del mio passaggio in
India si conclude con il rientro a Delhi. Ora mi aspetta Jaipur,
prima tappa di una ricerca parallela, quella del movimento sarvodaya.
Trarre conclusioni dalla visita alle donne di Lucknow mi sembrerebbe
retorico. Dire che sono stati giorni entusiasmanti per una "vecchia"
militante un po' delusa e annoiata dai catatonici anni Ottanta forse
non rende l'idea, né l'atmosfera, né trasmette la
sensazione, provata per la prima volta, di verificare che è
possibile costruire una vita parallela e alternativa alla società
che funziona, economicamente e socialmente. Non sono stata su
Anarres, ma lasciatemi l'illusione di aver trovato là ciò
che cercavo qui.
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