Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 174
giugno 1990


Rivista Anarchica Online

Dentro l'Ashram
di Anna Monis

A colloquio con Harivallab Parikh, tra i primi seguaci di Gandhi e militante del movimento Sarvodaya con Vinoba Bave, poi fondatore dell'Anand Niketan Ashram's. Il significato dell'autosufficienza ricercata nel villaggio gandhiano, le colpe del colonialismo nella distruzione del rapporto tradizionale con la terra, la crisi del movimento e i segnali di ripresa.

Passeggio nella grande corte ombreggiata da un enorme banano dell'Anand Niketan Ashram's con la mente sovraccarica di pensieri ed impressioni anche contraddittori che quasi sempre l'India suscita in me mettendo in crisi i miei sistemi logici.
Un piccolo secco rumore sulla mia sinistra attira la mia attenzione e colgo il compunto deambulare di una scimmietta che, chiusa nel suo sogno, incurante della mia presenza attraversa una fresca zona d'ombra perdendosi nel folto dei cespugli della ricca vegetazione tutt'attorno all'Ashram.
Una piccola scimmia. Solo poche decine di anni fa sarebbe stata Lei, la Tigre, la Signora, a far riempire di terrore gli occhi dei bambini dell'Ashram; ora non più, ridotta ormai a poche decine di esemplari ha ceduto lo scettro di animale dell'India alla vacca. La vacca sacra. Ma quale vacca sacra? Quella della sacralità della vacca è una delle innumerevoli immagini oleografiche che l'Occidente ha dell'India.
L'India non le ha mai costruito nessun tempio; ha preferito proteggerla e mungerla, grata del suo latte, ma ve lo concedo, infine, essa rappresenta abbastanza bene l'India, l'India nonviolenta del duro lavoro contadino. Eccoli, nelle prime luci dell'alba, quando l'aria è ancora fresca e trasparente, i contadini dell'Ashram con i loro carri trainati da vacche e bufali guadare l'Heran, il fiume sulle cui rive un seguace di Gandhi, Harivallab Parikh e sua moglie Prabba, un giorno di 40 anni fa fondarono l'Anand Niketan Ashram's.
L'Anand Niketan Ashram's si definisce una struttura che fornisce servizi. E' stata registrata nel 1953 come "Registred Pubblic Trust" sotto il nome di Anand Niketan Ashram's Trust ed ha sede nel villaggio di Rangpur, distretto di Baroda, nello stato indiano del Gujarat.
L'Ashram si fonda su principi gandhiani ed ha come scopo il recupero socio-economico degli adivasi, le popolazioni Tribali native di questa zona dell'India.
Rajastano di nobili origini, Harivallab Parikh diviene giovanissimo seguace di Gandhi e lo segue nell'Ashram di Sewagram (Warda) nello stato indiano del Mharashtra. Nel 1948, ad un anno appena dall'indipendenza dell'India muore Gandhi per mano di un fanatico indù. Harivallab milita nel movimento Sarvodaya , accanto a Vinoba Bave, collaboratore di Gandhi e figura di grande spicco del movimento.
Voluto da Gandhi, per una società più giusta e nonviolenta, il Sarvodaya, che in lingua gujarati significa l'emancipazione di tutti è un sistema di villaggi economicamente autonomi come piccole repubbliche collegate tra di loro in modo da favorire gli scambi di beni economici, i servizi, gli incontri e l'interazione.
L'essere il più autosufficienti possibile, producendo tutto quello che si può da soli è uno dei principi fondamentali del Sarvodaya: lo Swadeschi.

Un lungo e paziente lavoro
Qual era o cosa era quarant'anni fa l'autosufficienza della tribù Adivasi che vive lungo il fiume Heran? Chiediamolo a Bhaiji (così affettuosamente i tribali chiamano Harivallab Parikh).
Nel 1949, quando arrivammo in questo remoto villaggio del Gujarat ai confini con il Rajasthan, trovammo ancora superbe foreste abitate dalla tigre e dagli Adivasi che fin dai tempi vedici respinti dalle invasioni ariane vi avevano trovato rifugio. Nonostante la non enorme distanza da grandi città come Bombay (500 km) questi tribali vivevano in una condizione di estrema emarginazione. Molto arretrati, analfabeti, oppressi dagli usurai, dalla polizia e dal corpo forestale; vittime dell'alcolismo si uccidevano fra loro nelle frequenti risse per lo più provocate da questioni di interesse.
Bhaiji, ma questi usurai di cui tanto si sente parlare in India, chi sono e come mai sono tanto diffusi?
In un paese in cui "la terra è di Dio e l'uomo ne è solo l'amministratore" nella prima metà dell'800 i colonizzatori britannici introdussero il sistema di proprietà romano con relativa imposta fondiaria, inventarono una classe di proprietari considerando nel Nord come tale l'ex funzionario incaricato dall'impero Moghul di raccogliere i tributi in un determinato territorio, e fu la creazione dei Zamindar, o grandi proprietari. Altrove, si preferì riconoscere allo stesso agricoltore il titolo di proprietario della terra che lavorava: fu il sistema Raiyatwari. Si determinò così una situazione di estrema concentrazione delle terre nelle mani di alcuni grandi proprietari e l'eccessiva frammentazione del resto del suolo fra una moltitudine di minuscoli proprietari. Come corollario della proprietà privata venne introdotto il denaro nel circuito agricolo. L'imposta fondiaria era pagata in contanti.
Nell'organizzazione tradizionale del villaggio, la maggioranza degli scambi avveniva sotto forma di prestazioni e di contro-prestazioni e il tributo dovuto al potere politico era in natura; il contadino non aveva affatto bisogno di moneta. Ma dovette trovarne per pagare l'imposta. Al contadino proprietario si offrirono allora tre possibilità: trasformare una parte delle sue colture alimentari in colture commerciali (di cui l'economia britannica aveva bisogno) quali cotone, iuta, tè e caffè. La produzione di queste colture aumentò quindi rapidamente, ma a spese di quelle del riso e del miglio, alimento base della popolazione, che intanto cresceva in modo lento ma inesorabile. Così si preparavano le condizioni per le tremende carestie del periodo coloniale, ponendo le basi per uno stato di sotto-alimentazione cronica della maggioranza della popolazione.
Seconda possibilità per il contadino era vendere o affittare la sua terra e unirsi all'immensa massa di braccianti senza terra.
Restava l' ultima e più facile soluzione: indebitarsi.
E così il villaggio indiano vide installarsi e ingrandire come un cancro un nuovo personaggio: l'usuraio. L'usura divenne una miniera d'oro e assunse una estensione catastrofica: si è calcolato che alla vigilia dell'indipendenza quasi il 52 per cento delle terre coltivate apparteneva di fatto agli usurai. I nostri Adivasi, preda degli usurai, arrivavano a pagare anche il 300 per cento di interessi e indebitati per la vita finivano per perdere la terra.
Quali furono i problemi e le difficoltà che incontraste all'inizio dell'attività dell'Ashram?
Occorse un lungo e paziente lavoro per conquistare la fiducia di questa gente diffidente, poco avvezza ai contatti con gli "stranieri". In un primo tempo il nostro piccolo gruppo si accampò sotto alcuni grossi alberi in prossimità del villaggio ed attendevamo alle nostre abituali faccende quotidiane osservati costantemente da lontano dagli aborigeni che ci ritenevano gli emissari dei temutissimi "Kakas" (usurai).
Ci rendemmo conto che le popolazioni locali, divise e litigiose, non avrebbero mai potuto opporsi a quelli che le sfruttavano. Decidemmo allora un programma di visite ai villaggi e percorrendo una media di 20 miglia al giorno, lavorando nei loro campi, ripulendo le strade dei loro villaggi, gradualmente venimmo accettati e conquistammo la loro fiducia.

Giustizia parallela
Oggi, a 40 anni dalla sua fondazione, l'Anand Niketan-Ashram's estende la sua influenza su un'area di 20.000 km² comprensiva di 3296 villaggi abitata da 2.500.000 persone, 75 cooperative agricole - progetti agro-forestali: impianti di irrigazione, sbarramenti e bacini di raccolta d'acqua, 600 impianti di biogas, introduzione di tecnologie e meccanizzazioni nei villaggi, rimboschimento anche ad uso commerciale; manufatti in lana, cotone, stampati..., sartoria, falegnameria, tipografia; scuole per bambini e adulti; pianificazione familiare, servizio assistenza sanitaria e legale.
Tutto questo ha reso i tribali di queste zone liberi dallo sfruttamento di cui erano vittime, capaci di autosufficienza grazie anche al mutuo appoggio e alla più completa e partecipata solidarietà, valori a loro prima sconosciuti, che caratterizzano la comunità dell'Ashram.
Ma ci dice Bhaiji, è stato soprattutto per merito del Lok Adalat e della fiducia nella sua imparzialità ed onestà che gli Adivasi hanno riposto in esso, che ci ha permesso di sviluppare con successo le multiformi attività dell'Ashram.
Che cosa è il Lok Adalat?
Lok Adalat significa tribunale popolare; è un sistema paralegale unico, con il quale si dimostra l'implicita fiducia che la gente ha nel trovare un modo semplice di comporre le proprie controversie. Quando all'inizio dell'attività dell'Ashram noi giravamo per i villaggi per conoscere la gente ed essa cominciò a riferirci dei loro problemi, beghe e controversie, venne abbastanza naturale per me cercare di mettere pace fra di loro.
Mi sedevo sotto un albero a uguale distanza dalla capanna dell'uno e dell'altro contendente e mettevo pace tra i due. Così ebbe inizio il Lok Adalat, che ora si riunisce un paio di volte al mese a Rangpur nella grande corte dell'Ashram.
Il sistema giudiziario ufficiale (Nyaya Pandayati), che dovrebbe occuparsi dei casi giudiziari nella zona, è praticamente inattivo, essendosi creato una reputazione di parzialità a causa di casi di corruzione verificatisi durante le elezioni del Panchayat (consiglio comunale). Inoltre i programmi governativi di assistenza legale ai poveri non hanno funzionato e si sono rivelati largamente insufficienti. Ottenere giustizia dai tribunali tradizionali è irto di una serie di difficoltà: è costoso, è causa di frustrazione per chi non è in grado di comprenderne le tecniche ed è stato comparato ad una tela di ragno, nella quale i più poveri e i meno informati restano impigliati per poi essere fatti a pezzi dai ricchi e dai potenti; per di più i tempi sono lunghissimi.
Il Lok Adalat, che è stato riconosciuto per legge dal Parlamento Indiano, nell'arco di questi 40 anni ha risolto amichevolmente più di 50.000 casi. Oggetto di studio da parte di eminenti esperti nel campo legale indiano viene suggerito, dai tribunali regolari, ai contendenti per una più rapida ed economica composizione delle vertenze.
Le sedute, alle quali partecipano i tribali in grande numero con testimonianze, suggerimenti, sollevando obiezioni od approvando a seconda dei casi, sono informali e vengono presiedute da Bhaiji. Quando è il caso vengono nominati 4 "Panchas" (giuristi), 2 per parte.
I casi trattati e risolti sono i più svariati: dalle liti concernenti i terreni, accuse di corruzione nei confronti di funzionari della polizia, tentativi di omicidio, fino a casi di stregoneria, ma per la maggior parte (60 per cento) si tratta di matrimoni falliti.
Come fa l'Adalat a convincere, senza mandati di comparizione, gli accusati a presentarsi alla corte?
Diciamo loro che non crediamo a una parola di quanto viene detto su di loro e che vogliamo sentire la loro versione. Se dopo avere mandato degli incaricati per tre volte la persona non si presenta, viene inviata una delegazione per controllare che non vi sia qualche politico o altri che impedisce all'accusato di presentarsi.
Come ultima soluzione nell'Ashram si ricorre allo sciopero della fame a catena (Satyagrah), tuttavia raramente si arriva a tanto.
Spesso è la parte in fallo a presentarsi per prima sapendo che non vi saranno punizioni corporali, e perché alla fine in cuor suo, ognuno desidera arrivare ad una composizione pacifica della vertenza. Al termine della seduta, un osservatore, sorbendo lo zucchero di canna offerto a tutti come simbolo della ritrovata armonia ha commentato: "Qui non si tratta di decidere chi ha perso o chi ha vinto, poiché tutto viene deciso dalla gente che è presente e raramente si rende necessario un giudizio dall'alto".

Baiji, oggi l'India è economicamente in gran parte un sistema capitalista anche se segnato da forti elementi precapitalistici feudali e da aspetti tipici della burocrazia socialista. In questa India esiste, secondo te, un futuro per un sistema economicamente alternativo come il Sarvodaya?
Il movimento Sarvodaya era all'apice quando nel 1951 Vinoba Bave lanciò una campagna intesa a portare a termine una rivoluzione della terra attraverso il Bhoodan (donazione della terra ai contadini che ne erano privi) seguita poi dal Gramdam (la volontaria costituzione di comunità fondiarie a livello di villaggio).
Con il successo della distribuzione di oltre un milione di acri a mezzo milione di contadini privi di terra da coltivare, il movimento si assicurò una notevole popolarità. Nel 1969 il Movimento Sarvodaya era in grado di proclamare che 140.000 villaggi si erano dichiarati favorevoli all'idea Gramdam. Il Gramdam è molto vicino alla Comune cinese e al Kibbutz israeliano ma, mentre nella comune cinese domina il partito politico e nel Kibbutz israeliano il denaro e il mercato, noi abbiamo cercato e trovato una via diversa.
Tuttavia, quando all'inizio degli anni settanta una stasi progettuale del movimento determinò una condizione di crisi, Jayarra Kash Naravan, l'ex capo del partito socialista che si era unito al Sarvodaya nel 1954, avendo raccolto un ampio consenso fra i militanti Sarvodaya, modificò la strategia di lotta di Vinoba per una rivoluzione nonviolenta finalizzata alla costruzione consensuale di una società alternativa, politicizzando il movimento.
Ne risultò una frattura grave con conseguente perdita di essenza del movimento stesso. Oggi io lavoro qui in Gujarat, altri gruppi in Tamil Nadu, Uttar Pradesh e Bihar. Tutti hanno fatto un buon lavoro nelle loro zone, ma il movimento ha perso il vigore e il senso originario. Esistono però segni positivi di ripresa: c'è gente che comincia ad interessarsi del movimento e sono numerosi i giovani che invece di andare nelle città vengono nei villaggi a lavorare secondo le idee e i principi gandhiani.
Con queste parole di speranza termina l'intervista. Baiji si allontana fra gli eucalipti nel rosso tramonto sul fiume, figura romantica nei suoi semplici abiti gandhiani di tela Kadi . Zoppica un po', troppe marce e forse troppa jeep. Qualche bimbo dell'Ashram gli corre dietro rumorosamente. . . ed è già quasi buio.

 

Autosufficienza e cooperazione

Il pianeta India: alcune grandi megalopoli e una galassia di 700.000 villaggi. Il villaggio indiano celebrato dai sociologi britannici del periodo romantico come una specie di utopia tradotta in realtà, studiato a lungo da Marx è il fulcro della visione di una società decentrata e a basso consumo energetico, maturata in Gandhi nei primi decenni del secolo. Negli scritti di Gandhi la testimonianza dei suoi sforzi per dare il massimo potere al villaggio rurale indiano.


Verità e non violenza costituiscono le fondamenta della mia concezione di ordine. Il nostro primo dovere è di non essere un peso per la società, cioè dovremmo essere autosufficienti. Da questo punto di vista la stessa autosufficienza è una forma di servizio. Dopo essere diventati autosufficienti useremo il nostro tempo libero al servizio d'altri. Se tutti diventano autosufficienti nessuno sarà più in difficoltà. In tale stato di cose non ci sarà bisogno di servire nessuno. Ma non abbiamo ancora raggiunto questo stadio e perciò dobbiamo pensare ai servizi sociali. Anche se riuscissimo a realizzare completamente l'autosufficienza, essendo l'uomo un essere sociale, dovremmo accettare il servizio in una forma o nell'altra. Cioè l'uomo è tanto autodipendente, quanto interdipendente. Quando la dipendenza diventa necessaria per mantenere la società in buon ordine, non è più dipendenza, ma diventa cooperazione. C'è la dolcezza nella cooperazione; fra chi coopera non c'è né il debole né il forte. Ciascuno è uguale all'altro. Nella dipendenza c'è un senso di impotenza. I membri di una famiglia sono tanto autodipendenti quanto interdipendenti. Non c'è alcun senso di mio o di tuo. Sono tutti cooperatori.
Così anche quando prendiamo una società, una nazione o l'intera umanità come se fosse una sola famiglia, tutti gli uomini diventano cooperatori. Se riusciamo ad immaginare una cooperazione del genere scopriamo che non ci sarebbe alcun bisogno di appoggiarsi alla macchina senza vita. Invece di fare un uso spropositato delle macchine saremmo capaci di usarle il minimo possibile e in ciò sta la vera sicurezza e autoproduzione della società.
Ciò che intendo per autosufficienza è che i villaggi devono bastare a se stessi per il cibo, il vestiario e le altre necessità fondamentali. Ma anche questo può essere portato all'eccesso. Quindi bisogna comprendere bene la mia idea. Autosufficienza non significa miopia. Essere autosufficienti non significa essere completamente chiusi. In nessuna circostanza saremmo capaci di produrre tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Così, anche se il nostro scopo è la completa autosufficienza, dovremmo prendere da fuori ciò che non possiamo produrre nel villaggio. Dei nostri prodotti dovremo produrre più di quello che ci basta per poter ottenere in cambio ciò che non siamo capaci di produrre.
Senza dubbio l'ideale per ogni famiglia è coltivare, filare, tessere ed indossare il proprio cotone, avere a disposizione la propria terra, coltivare il proprio granoturco, cucinarlo o mangiarlo.
Quanto al cibo, l'India è ricca di terre fertili, c'è acqua a sufficienza e non manca la manodopera. Il popolo dovrebbe essere educato a diventare autosufficiente. Quando saprà che deve reggersi sulle proprie gambe, questo elettrizzerà l'atmosfera.
L'India produce più cotone di quello che di cui ha bisogno per le sue necessità. La gente dovrebbe filare e tessere da sola. Dovrebbe produrre il proprio panno Khadi. Il solo fatto di produrre il cibo e il panno per vestirsi, cambia completamente il modo di vedere delle persone.

M.K.Gandhi