Rivista Anarchica Online
I banditi in automobile
di Massimo Ortalli
Jules Bonnot, Victor Serge, Raymond La Science, Rirette Maitrejan...questi i
nomi, noti e meno noti, che
incontriamo nell'ultimo lavoro di Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso
(Longanesi, 1994, Lire 25.000).
Dopo la biografia di Tina Modotti, dopo le escursioni in un Messico popolato da transfughi dell'utopia che
hanno ritrovato una patria a Puerto Escondido, dopo essersi cimentato con bravura in tante storie gialle e nere,
Cacucci ci trasporta in una Belle Epoque ben poco oleografica, disegnando con semplicità, passione
e non
comune rigore filologico, un affresco affascinante e coinvolgente del milieu anarchico e proletario della Parigi
dell'epoca. La storia della Banda Bonnot, dei «banditi in automobile» che inventarono all'inizio del secolo
la rapina
motorizzata, non è l'esatta ricostruzione dell'avvincente battaglia che vede di fronte temerari
espropriatori e
ostinati tutori dell'ordine, ma è la commossa narrazione di una storia di perdenti contro la Storia. Il
ritratto di
chi, rifiutandosi di abbassare la testa di fronte alle prepotenze della società, ha scelto il percorso della
rivolta
individuale senza per questo perdere la consapevolezza delle propria militanza e collocazione sociale. Una
vicenda bella e amara, complessa e ricca di con notazioni psicologiche solo apparentemente prive di sfumature
e al contrario ben rispondenti a quella che non poteva non essere la elementare psicologia dei disperati ribelli
di quei tempi. Il romanzo si apre con la descrizione dell'infanzia e dell'adolescenza del protagonista, che
visse in fabbriche e
quartieri degradati in condizioni di miseria morale e di sfruttamento oggi inconcepibili; e subito ci si lascia
trasportare in un'atmosfera coinvolgente che ricorda le descrizioni dickensiane dei primordi dell'era industriale
e le pagine con cui Victor Hugo ci restituisce le miserie nascoste della metropoli parigina. Testimone e vittima
di profonde ingiustizie, Jules Bonnot non riuscirà mai a rassegnarsi all'ineluttabilità della
sopraffazione, e
comincia a reagire con determinazione e coraggio ai soprusi del potere. Marcando così, fin dalla prima
giovinezza, l'impronta della sua esistenza: la violenza del potere che evoca fatalmente la violenza, contraria e
speculare delle proprie vittime. Il percorso di Bonnot, e parallelamente di coloro che diventeranno i complici
delle sue imprese, attraversa con rabbiosa naturalezza esperienze orientate verso un punto di non ritorno. Gli
affetti, che a tratti addolciscono l'asprezza di una vita che sembra non dover riservare alcuna gioia, diventano
improvvisamente, drammaticamente, le cause di nuove delusioni e amarezze: l'abbandono della moglie, la
perdita di amici e genitori, i continui licenziamenti, che si susseguono nonostante le sue ottime capacità,
la
volontà di «mettere la testa a posto». Pare proprio che non ci debba essere alcuna alternativa per questi
diseredati e ribelli, condannati a subire le umiliazioni del potere o la precarietà dell'illegalismo.
Assumendo
come figure emblematiche Bonnot e compagni da una parte e Victor Kibalcic dall'altra (alias Victor Serge, il
leggendario rivoluzionario russo redattore in quei tempi de «L'Anarchie» e che poi approderà al
trotzkismo
divenendo il biografo più puntuale di Trotzki) Cacucci ricostruisce con intelligenza i termini del
dibattito che
investe in quegli anni il movimento anarchico europeo. Dimostrando ancora una volta una approfondita
conoscenza della storia e degli ambienti dell'anarchismo dei primi anni del secolo ci conduce, mantenendo una
struttura narrativa estremamente avvincente, al fulcro della disputa sull'illegalismo e la propaganda del fatto.
Con l'apparente neutralità del narratore ridà vita alle dispute ideologiche, anche furiose, che
nascono in quegli
ambienti, riproponendo con attenta sensibilità ed evidente partecipazione, tutti gli aspetti del problema:
non solo
il contrasto teorico fra due concezioni dell'anarchismo divenute antitetiche dopo i disastrosi risultati della
propaganda del fatto a fine secolo, ma anche l'aspetto umano, vitale, la quotidianità dell'esistenza, per
cui questi
militanti, disposti a morire e ad uccidere per le proprie idee riescono comunque a mantenere un rispetto
reciproco sincero e una profonda solidarietà. Quando ritroviamo Bonnot in Inghilterra, dove si
è rifugiato per sfuggire alla polizia francese, ci attende un
colpo di scena davvero sorprendente: il protagonista, ormai abilissimo autista e meccanico di automobili,
è
addirittura l'insostituibile chauffeur di Sir Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes. Giocando su
questi precisi riferimenti dell'epoca Cacucci pare divertirsi nel contrapporre la figura reale di Bonnot e quella
apparentemente altrettanto concreta del famosissimo detective inglese. Ma per Conan Doyle, paradossalmente
in crisi d'identità per l'eccessiva fama raggiunta dal suo personaggio, c'è una lezione, inaspettata
e curiosa: il
dover apprendere cioè dalla viva voce dell'espropriatore Bonnot che la figura dell'altrettanto famoso
Arsenio
Lupin è nata ispirandosi a quella in carne e ossa di un altro espropriatore anarchico: il leggendario
Marius Jacob. Quando il rapporto fra Sir Arthur e Jules sembra in grado di ricondurre il francese nei binari
della normalità,
Bonnot incontra l'emigrato italiano «Platano» Sorrentino, bandito strafottente e ribelle che «senza nessun
rimorso» lo trasforma definitivamente da occasionale rapinatore in vero professionista del crimine. Rientrato
in Francia col suo nuovo socio, il cui estremo cinismo sembra soggiogarlo totalmente, si butta con consapevole
determinazione per una strada irrimediabilmente segnata dalla violenza e dai suoi effetti devastanti. «In ogni
caso nessun rimorso», è questo il messaggio che l'italiano porta impresso sulla propria pelle e quando
Bonnot
lo legge, comprende, con profonda amarezza, che ormai appartiene anche a lui. Dopo un drammatico e
involontario scontro mortale con Platano, che sembra risvegliare in lui il desiderio di
farla finita con l'illegalismo, ancora una volta Bonnot, spietatamente braccato dalla polizia, si ritrova nella
necessità di prendere le armi e riparte, coi nuovi compagni trovati negli ambienti anarchici più
disperati di
Parigi, sulla strada della rapina. Sulle sue tracce, fin dalle prime e sanguinose imprese è l'abile e atipico
commissario Jouin che si rifiuta di adottare, contro questa banda che inaugura una nuova stagione di delitti, i
soliti sporchi mezzi della Sûretè. Nella guerra senza esclusione di colpi che li vede l'uno contro
l'altro, si
instaura un rapporto profondo e stimolante che la sensibilità dell'autore ci restituisce in modo esemplare:
Jouin
non vuol limitarsi al ruolo del segugio abile nell'usare i ferri del mestiere, ma cerca di comprendere, con un
interesse che riflette la nascente scienza sociologica, le motivazioni del suo avversario: non tanto per prevederne
le mosse, come ci si potrebbe aspettare, quanto per rendere omaggio alla grandezza eroica e disperata delle sue
imprese. Fra rapine, sparatorie, scontri armati in cui trovano la morte i compagni e poliziotti, scontri verbali
violenti e
irriducibili con gli anarchici che praticano la loro militanza in altro modo, la storia si avvia all'ineluttabile
epilogo cui l'autore ci aveva preparato fin dalle prime pagine. E lo scontro finale, quello in cui il protagonista
soccombe di fronte a uno spiegamento di forze spropositato, ci viene magistralmente raccontato in un crescendo
epico e tragico, ma anche grottesco. La vendetta della società contro chi ha osato sovvertirne le basi
non per
sete di denaro ma per desiderio di giustizia sociale, si compie brutalmente oscena nella volgarità dello
spiegamento di forze (esercito, polizia, zuavi, «semplici» cittadini) con cui si vuol dare il colpo di grazia al
nemico che non si è riusciti a domare. Pur schierandosi, col cuore e col cervello, dalla parte dei vinti,
l'autore
non vuole comunque far propria alcuna posizione, ma solo raccontare come la brutalità dell'esistenza
può
portare a forme di ribellione tanto difficili da condividere, quanto, purtroppo, inevitabili. E ciò che rende
un
senso di profonda umanità agli sventurati protagonisti di questa storia è che nonostante la
durezza e
l'impetuosità delle situazioni, non c'è mai, in questi anarchici miti e assassini il gusto e
l'esaltazione della
violenza. È un'opera anomala questa, che si caratterizza in quanto racconta - in tempi in cui pare che
l'unico
valore debba essere il successo, qualunque successo in qualunque campo, purché si possa credere di fare
parte
della «squadra vincente» - le ragioni, immense e immutabili, degli sconfitti, dei perdenti, di coloro che di fronte
alla tragedia dell'esistenza hanno perso tutto, gli affetti, la gioia, la vita, tutto, eccetto una cosa: la
dignità.
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