Rivista Anarchica Online
La critica di Hannah
di Gaetano Ricciardo
A colloquio con il sociologo Alessandro Del Lago sull'originale pensiero di Hannah Arendt. Studiosa del
totalitarismo, incompresa e osteggiata in genere dalla cultura di sinistra, Hannah Arendt è un punto di
riferimento critico per il pensiero libertario.
La figura di Hannah Arendt rappresenta certamente un'anomalia nel vasto panorama della
filosofia-politica
contemporanea. Se da una parte la cerchia dei filosofi ha preferito ignorarla, quasi a voler ricambiare la
diffidenza da lei mostrata verso i filosofi di professione, dall'altra parte i politici
rimanevano sordi alle
provocazioni politiche che sfondavano gli schieramenti ideologici fossilizzati sulla polarizzazione
destra/sinistra. Per molti aspetti Hannah Arendt ha sperimentato a lungo la condizione di apolide, estranea
a cliché preconfezionati e senza cittadinanza in quanto ebrea di fronte all'avvento del nazismo.
Allieva di Heidegger, Husserl e Jasper, Hannah Arendt abbandona la Germania mentre Hitler
sale al potere
e si trasferisce clandestinamente in Francia. Qui comincia a collaborare con un'organizzazione ebraica alla
raccolta, preparazione e invio in Palestina di bambini ebrei di famiglie in fuga dalla Germania. Allo scoppio
della seconda guerra mondiale, e la Francia vi si troverà coinvolta, Hannah Arendt viene internata
insieme
a molti altri ebrei ma riesce, poco tempo dopo, ad andarsene e raggiungere gli Stati Uniti. Dal
continente americano si fa conoscere al resto del mondo attraverso una profonda riflessione su Le origini
del totalitarismo, opera complessa che susciterà equivoci e incomprensioni. Soprattutto là
dove il fenomeno
totalitario viene circoscritto allo Stalinismo e al nazismo, accostamento che sarà responsabile di
quell'etichetta
di scrittrice conservatrice con cui è stata bollata negli ambienti di sinistra. Questo spiega, in parte, anche
il
ritardo con cui il pensiero politico di Hannah Arendt si è fatto breccia nel nostro paese, pensiero del
tutto
anomalo rispetto ai parametri interpretativi della cultura marxista che per molto tempo ha monopolizzato
discussioni e interessi. Fortunatamente il mutare del clima culturale ha permesso di far
conoscere le opere di Hannah Arendt, opere
tese a sottolineare una sorte di eclissi della politica quale esito dei conflitti della modernità.
Interprete eccezionale della dimensione politica moderna Hannah Arendt mette a nudo le
ambiguità delle
democrazie reali e smaschera un'interpretazione del politico quale luogo di apparato di dominio, sia nella
versione tecnocratica che in quella di «pura» amministrazione di uomini e cose. Lo stile con cui Hannah Arendt
affronta la questione del potere e della libertà o i temi dell'oppressione delle strutture di
partito...susciterà
certamente una certa curiosità per il pensiero libertario. Per consentire al lettore di
accostarsi al pensiero politico di Hannah Arendt (per brevità H.A.) abbiamo
intervistato Alessandro Dal Lago, docente di Sociologia all'Università di Bologna, che della nostra
filosofia
ha curato alcune delle edizioni italiane.
Gaetano Ricciardo
Hannah Arendt divenne nota con l'analisi del totalitarismo il cui esito finale è
imputabile al progressivo
eclissarsi del politico. Ciò fa risaltare la domanda sull'essenza del politico su cui si è incentrato
il suo libro
più discusso: Vita activa. La condizione umana. Questa opera si apre con una tipologia
delle attività che
condizionano la nostra esistenza sul pianeta. Puoi esporci come viene operata questa ripartizione
tipologica?
La tipologia fondamentale è quella tra agire, creare e fare, cioè tra l'azione, l'opera e il
lavoro. Questo è il punto
di vista essenziale di Hannah Arendt sulle attività umane che definiscono l'uomo come tale, dove
l'azione
rappresenta l'attività più alta. Benché ci sia un certo aristocraticismo in questa
posizione, Hannah Arendt vuole
semplicemente dire che ciò che ci distingue da qualunque altro essere vivente è esattamente
l'agire; questo è
propriamente umano. Si potrebbe dire che anche il lavoro differenzia l'uomo da altri esseri viventi, ma Hannah
Arendt sostiene che il lavoro, proprio per le sue caratteristiche di disciplina, ripetitività, assorbimento,
fatica
ecc. è qualcosa in cui non si manifesta quella libertà che caratterizza proprio l'agire. Se
c'è una cosa che esiste
solo nella specie umana come tale è esattamente questo concetto di libertà che diverge dai
concetti tradizionali
di libertà. Perché è libertà non solo personale o individuale ma libertà
politica. Per Hannah Arendt l'agire è la
forma più alta di attività umana - l'agire nel senso di agire in comune, agire politico -,
perché in esso si realizza
la libertà. Questo è il primo punto. La seconda questione riguarda la gerarchia di attività
a cui Hannah Arendt
pensava; al primo posto l'azione, al secondo il creare dell'artista o homo faber e infine all'ultimo
posto il lavoro
dell'animal laborans. Queste tre categorie ideali nel loro ordine, ammesso che siano mai esistite,
probabilmente
sono state pensate sino ad un certo punto da Aristotele; di fatto nel mondo occidentale, in particolare con
l'avvento della modernità, si sono capovolte a tal punto che al primo posto troviamo il lavoro come
attività di
riproduzione, di metabolismo tra uomo e natura, al secondo posto l'opera e relegato all'ultimo posto il ruolo
dell'azione. Quindi per Hannah Arendt ci si avvia ad una progressiva spoliticizzazione, soprattutto
dell'immagine del mondo
nella cultura moderna.
Un'altra distinzione che troviamo in Vita activa è quella relativa alla sfera
privata e sfera pubblica, che
corrispondono all'opposizione classica tra dimensione domestica e dimensione politica, distinzione che
a giudizio della Arendt viene cancellata con l'avvento della modernità. Cosa definivano in passato
queste
due sfere e attraverso quali passaggi viene meno questa distinzione, e quali le conseguenze?
Qui bisogna essere molto chiari. Io ritengo questo un punto fondamentale nella teoria di Hannah Arendt,
forse
uno di quelli che la qualificano di più. E ci vuole anche un grande coraggio intellettuale perché
una posizione
del genere contrasta con gran parte degli sviluppi della filosofia occidentale. Detto questo, è vero che
la
divisione rigida tra sfera pubblica e sfera privata non era tipica soltanto della Grecia, ma se vuoi di qualsiasi
società tradizionale. La società araba prevede una cosa del genere. C'è in fondo
l'idea che la vita privata, che coincide con la vita della comunità domestica e della famiglia, deve
essere separata radicalmente dalla sfera pubblica. Nel caso della Arendt però non esiste un legame con
concetti
di natura antropologica, ma piuttosto con l'idea che la libertà si muove su un duplice binario, come
libertà di
agire con altri nella vita pubblica e come totale protezione della propria identità privata. Questa
posizione è importante perché nella società attuale avviene il contrario. Sappiamo che
Hannah Arendt
critica duramente l'idea stessa di «sociale», ma non nel senso di socialità o di socialismo. A questo
proposito
possiamo ricordare alcune figure come R. Luxemburg o B. Lazare che Hannah Arendt ammirava ed erano in
fondo pensatori sociali o socialisti rivoluzionari. Hannah Arendt con «sociale» intende il mondo della
crescente condivisione di aspetti della vita in comune con
gli altri. Oggi potremmo chiamare questo universo sociale, in senso negativo, il mondo della televisione...il
mondo in cui i soggetti condividono qualcosa che li unifica in modo passivo. Per Hannah Arendt questo era il
mondo della socialità borghese e pensava al predominio, in questo influenzata da Marx, del consumo
ottuso,
della mercificazione, cioè alla creazione di due sfere della vita, al tempo stesso private e pubbliche, che
alla fine
si confondevano l'una con l'altra. Un altro esempio, che in Hannah Arendt è accennato e che potrei
estrapolare
senza difficoltà, è il ruolo crescente dello psicologismo nella nostra vita, il fatto che i problemi
del mondo, che
sono per definizione problemi plurali e pubblici, vengono interpretati in chiave privata. Io penso che per
Hannah Arendt la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, distinzione certamente difficile,
è forse la distinzione tra azione e libertà. In qualche modo la libertà privata e quindi
il diritto che nessuno possa
ingerirsi nella nostra attività privata erano la condizione necessaria dell'esercizio della libertà
pubblica. Questa
distinzione deriva, secondo me, dal fatto che la sua analisi sia iniziata con il totalitarismo. Il totalitarismo
è per
definizione quella forma di governo che elimina la differenza tra attività privata e attività
pubblica.
Tu dici che Hannah Arendt è stata influenzata, in parte, da Marx; però,
contemporaneamente, c'è una
dura critica al pensiero di Marx, in quanto più di qualsiasi altro pensatore ha insistito nella riduzione
dell'uomo a un'animal laborans che è alla base di quella glorificazione del lavoro su cui
Hannah Arendt
ha puntato il dito accusatorio.
È vero ciò che dici, Hannah Arendt era molto ambivalente nei confronti di Marx,
perché lo riteneva l'ultimo
grande pensatore della tradizione. La Arendt era molto legata alla tradizione della filosofia occidentale, come
tradizione di libertà. Tradizione i cui tratti salienti possono essere rintracciati in Aristotele e Agostino
per
giungere a Kant e Marx. Però, effettivamente, nella Arendt c'era l'idea che il ruolo di Marx nella storia
del
pensiero politico fosse ambiguo. Da un lato era colui che più di tutti aveva pensato il problema della
libertà
collettiva, quindi dell'agire collettivo; dall'altro aveva appiattito questo concetto sull'idea di eguaglianza, che
per Hannah Arendt è molto problematica. Ora, nella tradizione socialista e in parte in quella comunista
successiva a Marx, questo è indiscutibile, ma sarebbe errato attribuirne la responsabilità a Marx.
Comunque è indubbio che alcune posizioni sono servite a giustificare, per esempio, e qui possiamo
ricordare
il conflitto tra Marx e Bakunin, la glorificazione dello Stato a scapito dell'individuo e rendere così
schiacciante
il peso dello Stato. Questa prospettiva in Hannah Arendt, in quanto pensatrice libertaria, è sempre stata
molto
presente. Ciò non toglie però che apprezzasse Marx come pensatore del moderno.
Parallelamente alla distinzione tra azione/opera/lavoro si situa anche quella tra
potere/violenza/forza.
Vogliamo mettere a fuoco la questione del potere, che oggi viene comunemente inteso come dominio, in
cui si vede la figura dell'oppressione o della costrizione, imposta o volontaria che sia. A differenza di
questa diffusa concezione del potere, Hannah Arendt propone una lettura completamente diversa.
Devo dire che la distinzione tra forza e violenza non è molto chiara in Hannah Arendt. La
distinzione tra potere
e sfera della costrizione o della tirannia è invece molto semplice: basta prendere l'idea del potere nel
senso del
verbo modale, invece che nel senso del sostantivo «potere». Noi abbiamo l'immagine del potere in cui il
potere politico è di fatto considerato come una manifestazione
dell'oppressione, della violenza, della forza o della costrizione. Esiste un altro tipo di potere, che è
quello del
«poter agire», e Hannah Arendt lo intende nel senso di libertà di creare inizio, di creare novità.
Non novità
intesa come creare il nuovo in senso temporale, ma di creare cose che non c'erano, di creare l'imprevedibile. In
altre parole si tratta di affidarsi a quello che io chiamo, forse maldestramente, la sfera ludica, che non significa
divertirsi, bensì giocare. Creare delle cose che non c'erano prima, quindi il piacere della
novità che non ha niente a che vedere con
l'innovazione scientifica ma piuttosto con l'evento inatteso. In queste idee, secondo me, Hannah Arendt era
molto influenzata da pensatori come Bergson e oggigiorno è possibile rintracciare molte affinità
con autori come
Deleuze. Di fatto per Hannah Arendt il potere è inteso nel senso del «poter agire» della sfera politica
che è
completamente diverso da molte altre interpretazioni, vecchie e nuove.
Questo potere, come lo descrive Hannah Arendt, non può essere ceduto in quanto non
è quantificabile
ed esiste solamente come potere plurale.
Questa è l'idea di fondo, perché non potrebbe esistere questo potere se non ci fossero altri
individui. È un'idea di fondamentale importanza e per questo motivo la ritengo una grande
pensatrice al di là del fatto che
si presenti come filosofa o altro. Nessuno prima di lei ha avuto questa brillante intuizione, che va al di là
di tutti
i discorsi sulla teoria dell'alterità, dell'altro con la A maiuscola o minuscola, di tutte le teorie
dell'intimità.
Hannah Arendt afferma semplicemente che è nella nostra pluralità che si colloca il potere,
è l'idea di fondo, che
non immagino a cosa possa portare, di una anarchia anche senza trattino. Perché è l'idea del
potere come potere
di noi e per definizione questa idea fa di qualunque potere costrittivo nient'altro che una necessità.
Quello che mi piace di lei come pensatrice libertaria è il suo disprezzo logico nei confronti del
potere, così come
è stato rappresentato dai Re-filosofi di Platone o nel Leviatano di Hobbes.
Perciò nelle analisi di Hannah Arendt il potere non si presenta come un rapporto di
comando-obbedienza?
Hannah Arendt afferma che un rapporto di comando-obbbedienza può essere al limite necessario,
ma non
appartiene alla sfera del politico. La sua idea di politeia, di politica, è una sfera in cui non
si dà costrizione. Per esempio...se tu parti da un presupposto, fai ciò che questo
presupposto implica e quest'ultimo non si
configura come un comando ma come una condizione necessaria. Esistono sfere del comando che hanno a che
fare con decisioni che non si possono prendere collettivamente o liberamente. Come i greci, i quali dibattevano
di tutto ma in battaglia obbedivano al comandante. Questo non è potere ma necessità. Il potere
è quando
demandi a una struttura esterna il ruolo che invece dovrebbe essere attinente all'agire libero e collettivo. Hannah
Arendt scrive che se andiamo a svelare le origini del potere scopriamo che esso si ispira alla pluralità
di
individui che agiscono in uno spazio pubblico.
Passiamo ad un'altra opera di Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, in cui si
confrontano le due grandi
esperienze rivoluzionarie del XVII secolo, quella americana e quella francese, esperienze segnate, per
Hannah Arendt, dal successo della prima e dal fallimento della seconda. Come si sviluppa nell'analisi
Arendtiana questo confronto?
Si sviluppa perché sono le due rivoluzioni per definizione che hanno rivoltato la società
e non sono state
solamente rivoluzioni del sistema politico come la rivoluzione inglese che, fondamentalmente, è stato
uno
scontro continuo tra aree del parlamento e il sovrano. Diversamente, nella rivoluzione americana sono stati
modificati gli assetti globali e in questo senso sono rivoluzioni fondative del mondo moderno. Tuttavia questo
libro, secondo me, ha dei limiti, innanzi tutto perché Hannah Arendt avrebbe dovuto occuparsi anche
della
rivoluzione inglese come rivolgimento delle strutture politiche. A parte questo, Hannah Arendt afferma che la
rivoluzione americana non è perfettamente riuscita, ha creato certamente un nuovo ordine, ha creato
la libertà
ma dopo è degenerata. E cosa l'ha rovinata ... a parte quegli elementi storici quale la guerra civile, ecc.?
E stata
rovinata da elementi quali la massificazione della società, il ruolo del lavoro, l'industrializzazione...Non
dimentichiamo che i rivoluzionari americani di cui lei parla erano proprietari terrieri: anche questo è
un aspetto
su cui Hannah Arendt tende a sorvolare. Il nocciolo della questione così come è stata posta
da Hannah Arendt è che la rivoluzione americana non ha mai
creato il dispotismo, ha dato vita ad un regime discutibile, violento e oppressivo per certi versi ma
indubbiamente non dispotico. Di contro, la rivoluzione francese che aveva promesso la libertà,
filosofica e
sociale, ha favorito indubbiamente il dispotismo.
Attraverso la riflessione sulle forme di governo che sono apparse nelle rivoluzioni - nella
comune di
Parigi, nella rivoluzione russa, nella rivoluzione ungherese... -, la Arendt approda ad una critica radicale
del pensiero politico moderno: la categoria della rappresentanza. Quali sono i nodi cruciali di questa
critica?
I nodi cruciali di questa critica sono più o meno quelli che riguardano la questione del potere,
perché l'idea
moderna di rappresentanza è vincolata al discorso della legittimazione. Sintetizzando, nell'idea
della rappresentanza tradizionale, quella sacra, è il potere del re che rappresenta Dio
sulla terra; questa è la teoria dei due corpi del re. Del corpo mortale e del corpo eterno di cui parla
Kantorowicz.
Se tu elimini il ruolo della divinità su cosa si fonda il potere? «Fondare» significa semplicemente come
puoi
impedire che uno dica «no, basta». Prima c'era la divinità e quindi c'era un principio che si
supponeva unificasse tutto, che rendeva obbligatorio
il potere. Ora non è più così, e cosa diventa il potere nel mondo moderno? Diventa
la sacralità della legge, che si suppone
non essere data da noi a noi, ma viene data a noi da qualcosa che si situa al di sopra di noi, e questo qualcosa
prende il posto di quello che un sociologo definisce la politica assoluta. Questa teoria non è una
finzione, ma
rappresenta il ruolo che lo stato moderno ha avuto nello sviluppo storico, cioè il ruolo di dominio, di
organizzazione del territorio. Ad un certo punto questo sistema non poteva più funzionare da solo,
aveva bisogno in qualche modo che
esistesse un filtro tra sé stesso e i cittadini, gli abitanti del territorio di quello Stato: questo è
il ruolo della
rappresentanza. La rappresentanza democratica, il parlamento, in origine non era affatto quello che noi oggi
crediamo dopo il
suffragio universale, cioè il momento in cui incarichiamo qualcuno di rappresentarci, ma era il
contrario. Era il luogo in cui alcune persone davano corpo a questo principio sovraumano che era la
sacralità della legge.
Comunque sia, questo tipo di rappresentanza è estranea all'idea di libertà politica,
perché la politica la fanno
solo i politici di professione. La critica di Hannah Arendt era rivolta al fatto che appena nasce l'idea di
rappresentanza viene a cadere quella
pluralità di cui si parla in origine, perché la pluralità riguarderà solo alcuni
partiti o fazioni all'interno di un ceto
limitato di rappresentanti, i quali godranno, di riflesso, di quella sacralità della legge di cui si è
parlato. La sua
critica alla rappresentanza politica si sviluppa in quanto essa è totalmente antitetica all'idea di
polis. Non solo
e non tanto perché tu eleggi qualcuno, ma perché nel funzionamento stesso quel qualcuno non
è più come te
ma assume un ruolo diverso e questo viola la pluralità dell'essere umano e la sua uguaglianza nella
differenza.
Questo aspetto tocca anche il tema dell'oppressività delle strutture di
partito... Certo. Per definizione un partito è un luogo in cui si elabora il consenso
e si elabora il comando. Questo è fuori
discussione ...
In questi ultimi tempi si è tornato a parlare del pensiero politico e della riflessione
filosofica di Hannah
Arendt, tuttavia mi pare che sul piano strettamente politico la si sia liquidata tacciandola di utopismo.
Devi tener conto che Hannah Arendt era una pensatrice di difficile collocazione. Nella sinistra europea, non
essendo marxista, non poteva avere, allora, legittimità. Per il pensiero di destra in realtà
non funzionava perché in Hannah Arendt c'è un grande disprezzo per il lavoro,
per l'economia, per il mercato. Per certi aspetti era al tempo stesso aristocratica e libertaria. Guardava con molta
simpatia i modelli consiliari e apprezzava figure come R. Luxemburg e quindi il pensiero di destra non poteva
accoglierla. È stata riscoperta, secondo me, quando nella teoria politica degli anni '70-'80 i due
modelli sono saltati, è saltato
il modello marxista e dall'altra parte il modello neo-conservatore.
Cos'è che sopravvive oggi dello spazio politico così come ci viene descritto
da Hannah Arendt?
Non rimane nulla della politica nel senso dato da Hannah Arendt, ma non rimane nulla perché non
c'è mai stato.
Esiste come spazio virtuale, spazio di dibattito o di interesse personale...C'è e non c'è al tempo
stesso. Esiste
e funziona come elemento critico, non come elemento propositivo, e in questo senso non è utopia.
Leggere Hannah Arendt
Alcune delle opere tyradotte in italiano sono: Le origini del
totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1990,
3 ed.; Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1989, 3
ed.; Sulla rivoluzione, Edizioni di
Comunità, Milano, 1989, 3 ed.; Politica e
menzogna, SugarCo, Milano, 1985; La banalità
del male. Eichmann
a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1992, 2 ed. Alcune opere e raccolte di scritti su
Hannah Arendt interessanti sono: A. Enegren, Il pensiero politico di
Hannah Arendt, Ed. Lavoro, Roma, 1987; R. Esposito (a cura di), La pluralità
Irrapresentabile, Ed. Quattro
venti, Urbino, 1987; E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo,
Boringhieri, Torino,
1990; E. Parise (a cura di), Hannah Arendt. La politica tra natalità e mortalità,
E.S.I., Napoli, 1993.
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