Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 212
ottobre 1994


Rivista Anarchica Online

La critica di Hannah
di Gaetano Ricciardo

A colloquio con il sociologo Alessandro Del Lago sull'originale pensiero di Hannah Arendt. Studiosa del totalitarismo, incompresa e osteggiata in genere dalla cultura di sinistra, Hannah Arendt è un punto di riferimento critico per il pensiero libertario.

La figura di Hannah Arendt rappresenta certamente un'anomalia nel vasto panorama della filosofia-politica contemporanea. Se da una parte la cerchia dei filosofi ha preferito ignorarla, quasi a voler ricambiare la diffidenza da lei mostrata verso i filosofi di professione, dall'altra parte i politici rimanevano sordi alle provocazioni politiche che sfondavano gli schieramenti ideologici fossilizzati sulla polarizzazione destra/sinistra. Per molti aspetti Hannah Arendt ha sperimentato a lungo la condizione di apolide, estranea a cliché preconfezionati e senza cittadinanza in quanto ebrea di fronte all'avvento del nazismo.
Allieva di Heidegger, Husserl e Jasper, Hannah Arendt abbandona la Germania mentre Hitler sale al potere e si trasferisce clandestinamente in Francia. Qui comincia a collaborare con un'organizzazione ebraica alla raccolta, preparazione e invio in Palestina di bambini ebrei di famiglie in fuga dalla Germania. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, e la Francia vi si troverà coinvolta, Hannah Arendt viene internata insieme a molti altri ebrei ma riesce, poco tempo dopo, ad andarsene e raggiungere gli Stati Uniti.
Dal continente americano si fa conoscere al resto del mondo attraverso una profonda riflessione su Le origini del totalitarismo, opera complessa che susciterà equivoci e incomprensioni. Soprattutto là dove il fenomeno totalitario viene circoscritto allo Stalinismo e al nazismo, accostamento che sarà responsabile di quell'etichetta di scrittrice conservatrice con cui è stata bollata negli ambienti di sinistra. Questo spiega, in parte, anche il ritardo con cui il pensiero politico di Hannah Arendt si è fatto breccia nel nostro paese, pensiero del tutto anomalo rispetto ai parametri interpretativi della cultura marxista che per molto tempo ha monopolizzato discussioni e interessi.
Fortunatamente il mutare del clima culturale ha permesso di far conoscere le opere di Hannah Arendt, opere tese a sottolineare una sorte di eclissi della politica quale esito dei conflitti della modernità.
Interprete eccezionale della dimensione politica moderna Hannah Arendt mette a nudo le ambiguità delle democrazie reali e smaschera un'interpretazione del politico quale luogo di apparato di dominio, sia nella versione tecnocratica che in quella di «pura» amministrazione di uomini e cose. Lo stile con cui Hannah Arendt affronta la questione del potere e della libertà o i temi dell'oppressione delle strutture di partito...susciterà certamente una certa curiosità per il pensiero libertario.
Per consentire al lettore di accostarsi al pensiero politico di Hannah Arendt (per brevità H.A.) abbiamo intervistato Alessandro Dal Lago, docente di Sociologia all'Università di Bologna, che della nostra filosofia ha curato alcune delle edizioni italiane.

Gaetano Ricciardo

Hannah Arendt divenne nota con l'analisi del totalitarismo il cui esito finale è imputabile al progressivo eclissarsi del politico. Ciò fa risaltare la domanda sull'essenza del politico su cui si è incentrato il suo libro più discusso: Vita activa. La condizione umana. Questa opera si apre con una tipologia delle attività che condizionano la nostra esistenza sul pianeta. Puoi esporci come viene operata questa ripartizione tipologica?

La tipologia fondamentale è quella tra agire, creare e fare, cioè tra l'azione, l'opera e il lavoro. Questo è il punto di vista essenziale di Hannah Arendt sulle attività umane che definiscono l'uomo come tale, dove l'azione rappresenta l'attività più alta. Benché ci sia un certo aristocraticismo in questa posizione, Hannah Arendt vuole semplicemente dire che ciò che ci distingue da qualunque altro essere vivente è esattamente l'agire; questo è propriamente umano. Si potrebbe dire che anche il lavoro differenzia l'uomo da altri esseri viventi, ma Hannah Arendt sostiene che il lavoro, proprio per le sue caratteristiche di disciplina, ripetitività, assorbimento, fatica ecc. è qualcosa in cui non si manifesta quella libertà che caratterizza proprio l'agire. Se c'è una cosa che esiste solo nella specie umana come tale è esattamente questo concetto di libertà che diverge dai concetti tradizionali di libertà. Perché è libertà non solo personale o individuale ma libertà politica. Per Hannah Arendt l'agire è la forma più alta di attività umana - l'agire nel senso di agire in comune, agire politico -, perché in esso si realizza la libertà. Questo è il primo punto. La seconda questione riguarda la gerarchia di attività a cui Hannah Arendt pensava; al primo posto l'azione, al secondo il creare dell'artista o homo faber e infine all'ultimo posto il lavoro dell'animal laborans. Queste tre categorie ideali nel loro ordine, ammesso che siano mai esistite, probabilmente sono state pensate sino ad un certo punto da Aristotele; di fatto nel mondo occidentale, in particolare con l'avvento della modernità, si sono capovolte a tal punto che al primo posto troviamo il lavoro come attività di riproduzione, di metabolismo tra uomo e natura, al secondo posto l'opera e relegato all'ultimo posto il ruolo dell'azione.
Quindi per Hannah Arendt ci si avvia ad una progressiva spoliticizzazione, soprattutto dell'immagine del mondo nella cultura moderna.

Un'altra distinzione che troviamo in Vita activa è quella relativa alla sfera privata e sfera pubblica, che corrispondono all'opposizione classica tra dimensione domestica e dimensione politica, distinzione che a giudizio della Arendt viene cancellata con l'avvento della modernità. Cosa definivano in passato queste due sfere e attraverso quali passaggi viene meno questa distinzione, e quali le conseguenze?

Qui bisogna essere molto chiari. Io ritengo questo un punto fondamentale nella teoria di Hannah Arendt, forse uno di quelli che la qualificano di più. E ci vuole anche un grande coraggio intellettuale perché una posizione del genere contrasta con gran parte degli sviluppi della filosofia occidentale. Detto questo, è vero che la divisione rigida tra sfera pubblica e sfera privata non era tipica soltanto della Grecia, ma se vuoi di qualsiasi società tradizionale. La società araba prevede una cosa del genere.
C'è in fondo l'idea che la vita privata, che coincide con la vita della comunità domestica e della famiglia, deve essere separata radicalmente dalla sfera pubblica. Nel caso della Arendt però non esiste un legame con concetti di natura antropologica, ma piuttosto con l'idea che la libertà si muove su un duplice binario, come libertà di agire con altri nella vita pubblica e come totale protezione della propria identità privata.
Questa posizione è importante perché nella società attuale avviene il contrario. Sappiamo che Hannah Arendt critica duramente l'idea stessa di «sociale», ma non nel senso di socialità o di socialismo. A questo proposito possiamo ricordare alcune figure come R. Luxemburg o B. Lazare che Hannah Arendt ammirava ed erano in fondo pensatori sociali o socialisti rivoluzionari.
Hannah Arendt con «sociale» intende il mondo della crescente condivisione di aspetti della vita in comune con gli altri. Oggi potremmo chiamare questo universo sociale, in senso negativo, il mondo della televisione...il mondo in cui i soggetti condividono qualcosa che li unifica in modo passivo. Per Hannah Arendt questo era il mondo della socialità borghese e pensava al predominio, in questo influenzata da Marx, del consumo ottuso, della mercificazione, cioè alla creazione di due sfere della vita, al tempo stesso private e pubbliche, che alla fine si confondevano l'una con l'altra. Un altro esempio, che in Hannah Arendt è accennato e che potrei estrapolare senza difficoltà, è il ruolo crescente dello psicologismo nella nostra vita, il fatto che i problemi del mondo, che sono per definizione problemi plurali e pubblici, vengono interpretati in chiave privata.
Io penso che per Hannah Arendt la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, distinzione certamente difficile, è forse la distinzione tra azione e libertà. In qualche modo la libertà privata e quindi il diritto che nessuno possa ingerirsi nella nostra attività privata erano la condizione necessaria dell'esercizio della libertà pubblica. Questa distinzione deriva, secondo me, dal fatto che la sua analisi sia iniziata con il totalitarismo. Il totalitarismo è per definizione quella forma di governo che elimina la differenza tra attività privata e attività pubblica.

Tu dici che Hannah Arendt è stata influenzata, in parte, da Marx; però, contemporaneamente, c'è una dura critica al pensiero di Marx, in quanto più di qualsiasi altro pensatore ha insistito nella riduzione dell'uomo a un'animal laborans che è alla base di quella glorificazione del lavoro su cui Hannah Arendt ha puntato il dito accusatorio.

È vero ciò che dici, Hannah Arendt era molto ambivalente nei confronti di Marx, perché lo riteneva l'ultimo grande pensatore della tradizione. La Arendt era molto legata alla tradizione della filosofia occidentale, come tradizione di libertà. Tradizione i cui tratti salienti possono essere rintracciati in Aristotele e Agostino per giungere a Kant e Marx. Però, effettivamente, nella Arendt c'era l'idea che il ruolo di Marx nella storia del pensiero politico fosse ambiguo. Da un lato era colui che più di tutti aveva pensato il problema della libertà collettiva, quindi dell'agire collettivo; dall'altro aveva appiattito questo concetto sull'idea di eguaglianza, che per Hannah Arendt è molto problematica. Ora, nella tradizione socialista e in parte in quella comunista successiva a Marx, questo è indiscutibile, ma sarebbe errato attribuirne la responsabilità a Marx.
Comunque è indubbio che alcune posizioni sono servite a giustificare, per esempio, e qui possiamo ricordare il conflitto tra Marx e Bakunin, la glorificazione dello Stato a scapito dell'individuo e rendere così schiacciante il peso dello Stato. Questa prospettiva in Hannah Arendt, in quanto pensatrice libertaria, è sempre stata molto presente. Ciò non toglie però che apprezzasse Marx come pensatore del moderno.

Parallelamente alla distinzione tra azione/opera/lavoro si situa anche quella tra potere/violenza/forza. Vogliamo mettere a fuoco la questione del potere, che oggi viene comunemente inteso come dominio, in cui si vede la figura dell'oppressione o della costrizione, imposta o volontaria che sia. A differenza di questa diffusa concezione del potere, Hannah Arendt propone una lettura completamente diversa.

Devo dire che la distinzione tra forza e violenza non è molto chiara in Hannah Arendt. La distinzione tra potere e sfera della costrizione o della tirannia è invece molto semplice: basta prendere l'idea del potere nel senso del verbo modale, invece che nel senso del sostantivo «potere».
Noi abbiamo l'immagine del potere in cui il potere politico è di fatto considerato come una manifestazione dell'oppressione, della violenza, della forza o della costrizione. Esiste un altro tipo di potere, che è quello del «poter agire», e Hannah Arendt lo intende nel senso di libertà di creare inizio, di creare novità. Non novità intesa come creare il nuovo in senso temporale, ma di creare cose che non c'erano, di creare l'imprevedibile. In altre parole si tratta di affidarsi a quello che io chiamo, forse maldestramente, la sfera ludica, che non significa divertirsi, bensì giocare.
Creare delle cose che non c'erano prima, quindi il piacere della novità che non ha niente a che vedere con l'innovazione scientifica ma piuttosto con l'evento inatteso. In queste idee, secondo me, Hannah Arendt era molto influenzata da pensatori come Bergson e oggigiorno è possibile rintracciare molte affinità con autori come Deleuze. Di fatto per Hannah Arendt il potere è inteso nel senso del «poter agire» della sfera politica che è completamente diverso da molte altre interpretazioni, vecchie e nuove.

Questo potere, come lo descrive Hannah Arendt, non può essere ceduto in quanto non è quantificabile ed esiste solamente come potere plurale.

Questa è l'idea di fondo, perché non potrebbe esistere questo potere se non ci fossero altri individui.
È un'idea di fondamentale importanza e per questo motivo la ritengo una grande pensatrice al di là del fatto che si presenti come filosofa o altro. Nessuno prima di lei ha avuto questa brillante intuizione, che va al di là di tutti i discorsi sulla teoria dell'alterità, dell'altro con la A maiuscola o minuscola, di tutte le teorie dell'intimità. Hannah Arendt afferma semplicemente che è nella nostra pluralità che si colloca il potere, è l'idea di fondo, che non immagino a cosa possa portare, di una anarchia anche senza trattino. Perché è l'idea del potere come potere di noi e per definizione questa idea fa di qualunque potere costrittivo nient'altro che una necessità.
Quello che mi piace di lei come pensatrice libertaria è il suo disprezzo logico nei confronti del potere, così come è stato rappresentato dai Re-filosofi di Platone o nel Leviatano di Hobbes.

Perciò nelle analisi di Hannah Arendt il potere non si presenta come un rapporto di comando-obbedienza?

Hannah Arendt afferma che un rapporto di comando-obbbedienza può essere al limite necessario, ma non appartiene alla sfera del politico. La sua idea di politeia, di politica, è una sfera in cui non si dà costrizione.
Per esempio...se tu parti da un presupposto, fai ciò che questo presupposto implica e quest'ultimo non si configura come un comando ma come una condizione necessaria. Esistono sfere del comando che hanno a che fare con decisioni che non si possono prendere collettivamente o liberamente. Come i greci, i quali dibattevano di tutto ma in battaglia obbedivano al comandante. Questo non è potere ma necessità. Il potere è quando demandi a una struttura esterna il ruolo che invece dovrebbe essere attinente all'agire libero e collettivo. Hannah Arendt scrive che se andiamo a svelare le origini del potere scopriamo che esso si ispira alla pluralità di individui che agiscono in uno spazio pubblico.

Passiamo ad un'altra opera di Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, in cui si confrontano le due grandi esperienze rivoluzionarie del XVII secolo, quella americana e quella francese, esperienze segnate, per Hannah Arendt, dal successo della prima e dal fallimento della seconda. Come si sviluppa nell'analisi Arendtiana questo confronto?

Si sviluppa perché sono le due rivoluzioni per definizione che hanno rivoltato la società e non sono state solamente rivoluzioni del sistema politico come la rivoluzione inglese che, fondamentalmente, è stato uno scontro continuo tra aree del parlamento e il sovrano. Diversamente, nella rivoluzione americana sono stati modificati gli assetti globali e in questo senso sono rivoluzioni fondative del mondo moderno. Tuttavia questo libro, secondo me, ha dei limiti, innanzi tutto perché Hannah Arendt avrebbe dovuto occuparsi anche della rivoluzione inglese come rivolgimento delle strutture politiche. A parte questo, Hannah Arendt afferma che la rivoluzione americana non è perfettamente riuscita, ha creato certamente un nuovo ordine, ha creato la libertà ma dopo è degenerata. E cosa l'ha rovinata ... a parte quegli elementi storici quale la guerra civile, ecc.? E stata rovinata da elementi quali la massificazione della società, il ruolo del lavoro, l'industrializzazione...Non dimentichiamo che i rivoluzionari americani di cui lei parla erano proprietari terrieri: anche questo è un aspetto su cui Hannah Arendt tende a sorvolare.
Il nocciolo della questione così come è stata posta da Hannah Arendt è che la rivoluzione americana non ha mai creato il dispotismo, ha dato vita ad un regime discutibile, violento e oppressivo per certi versi ma indubbiamente non dispotico. Di contro, la rivoluzione francese che aveva promesso la libertà, filosofica e sociale, ha favorito indubbiamente il dispotismo.

Attraverso la riflessione sulle forme di governo che sono apparse nelle rivoluzioni - nella comune di Parigi, nella rivoluzione russa, nella rivoluzione ungherese... -, la Arendt approda ad una critica radicale del pensiero politico moderno: la categoria della rappresentanza. Quali sono i nodi cruciali di questa critica?

I nodi cruciali di questa critica sono più o meno quelli che riguardano la questione del potere, perché l'idea moderna di rappresentanza è vincolata al discorso della legittimazione.
Sintetizzando, nell'idea della rappresentanza tradizionale, quella sacra, è il potere del re che rappresenta Dio sulla terra; questa è la teoria dei due corpi del re. Del corpo mortale e del corpo eterno di cui parla Kantorowicz. Se tu elimini il ruolo della divinità su cosa si fonda il potere? «Fondare» significa semplicemente come puoi impedire che uno dica «no, basta».
Prima c'era la divinità e quindi c'era un principio che si supponeva unificasse tutto, che rendeva obbligatorio il potere.
Ora non è più così, e cosa diventa il potere nel mondo moderno? Diventa la sacralità della legge, che si suppone non essere data da noi a noi, ma viene data a noi da qualcosa che si situa al di sopra di noi, e questo qualcosa prende il posto di quello che un sociologo definisce la politica assoluta. Questa teoria non è una finzione, ma rappresenta il ruolo che lo stato moderno ha avuto nello sviluppo storico, cioè il ruolo di dominio, di organizzazione del territorio.
Ad un certo punto questo sistema non poteva più funzionare da solo, aveva bisogno in qualche modo che esistesse un filtro tra sé stesso e i cittadini, gli abitanti del territorio di quello Stato: questo è il ruolo della rappresentanza.
La rappresentanza democratica, il parlamento, in origine non era affatto quello che noi oggi crediamo dopo il suffragio universale, cioè il momento in cui incarichiamo qualcuno di rappresentarci, ma era il contrario.
Era il luogo in cui alcune persone davano corpo a questo principio sovraumano che era la sacralità della legge. Comunque sia, questo tipo di rappresentanza è estranea all'idea di libertà politica, perché la politica la fanno solo i politici di professione.
La critica di Hannah Arendt era rivolta al fatto che appena nasce l'idea di rappresentanza viene a cadere quella pluralità di cui si parla in origine, perché la pluralità riguarderà solo alcuni partiti o fazioni all'interno di un ceto limitato di rappresentanti, i quali godranno, di riflesso, di quella sacralità della legge di cui si è parlato. La sua critica alla rappresentanza politica si sviluppa in quanto essa è totalmente antitetica all'idea di polis. Non solo e non tanto perché tu eleggi qualcuno, ma perché nel funzionamento stesso quel qualcuno non è più come te ma assume un ruolo diverso e questo viola la pluralità dell'essere umano e la sua uguaglianza nella differenza.

Questo aspetto tocca anche il tema dell'oppressività delle strutture di partito...

Certo. Per definizione un partito è un luogo in cui si elabora il consenso e si elabora il comando. Questo è fuori discussione ...

In questi ultimi tempi si è tornato a parlare del pensiero politico e della riflessione filosofica di Hannah Arendt, tuttavia mi pare che sul piano strettamente politico la si sia liquidata tacciandola di utopismo.

Devi tener conto che Hannah Arendt era una pensatrice di difficile collocazione. Nella sinistra europea, non essendo marxista, non poteva avere, allora, legittimità.
Per il pensiero di destra in realtà non funzionava perché in Hannah Arendt c'è un grande disprezzo per il lavoro, per l'economia, per il mercato. Per certi aspetti era al tempo stesso aristocratica e libertaria. Guardava con molta simpatia i modelli consiliari e apprezzava figure come R. Luxemburg e quindi il pensiero di destra non poteva accoglierla.
È stata riscoperta, secondo me, quando nella teoria politica degli anni '70-'80 i due modelli sono saltati, è saltato il modello marxista e dall'altra parte il modello neo-conservatore.

Cos'è che sopravvive oggi dello spazio politico così come ci viene descritto da Hannah Arendt?

Non rimane nulla della politica nel senso dato da Hannah Arendt, ma non rimane nulla perché non c'è mai stato. Esiste come spazio virtuale, spazio di dibattito o di interesse personale...C'è e non c'è al tempo stesso. Esiste e funziona come elemento critico, non come elemento propositivo, e in questo senso non è utopia.

Leggere Hannah Arendt

Alcune delle opere tyradotte in italiano sono: Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1990, 3 ed.; Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1989, 3 ed.; Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano, 1989, 3 ed.; Politica e menzogna, SugarCo, Milano, 1985; La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1992, 2 ed.
Alcune opere e raccolte di scritti su Hannah Arendt interessanti sono: A. Enegren, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Ed. Lavoro, Roma, 1987; R. Esposito (a cura di), La pluralità Irrapresentabile, Ed. Quattro venti, Urbino, 1987; E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, Boringhieri, Torino, 1990; E. Parise (a cura di), Hannah Arendt. La politica tra natalità e mortalità, E.S.I., Napoli, 1993.