Rivista Anarchica Online
ZAPATISTI: una questione che ci riguarda da vicino
di Pino Cacucci
Il Capodanno in Messico viene festeggiato con meno euforia che dalle nostre parti,
ma resta comunque un ottimo
pretesto per tirare la nottata. Così, il 1° gennaio 1994, il presidente e i suoi ministri devono aver faticato
non poco
per mettere a fuoco le immagini che invadevano gli schermi televisivi: un esercito di "marziani" aveva occupato
ben 16 municipi del Chiapas, stato del sudest, tra i quali San Cristóbal de las Casas, città di quasi
centomila
abitanti, celebrata in tutte le guide turistiche del mondo come una delle località più belle
dell'intero continente
latinoamericano. Un piano d'attacco impeccabile, che ha prodotto un numero limitatissimo di perdite umane,
portato a termine da migliaia di contadini indios affiancati da una minoranza di meticci. Armati di vecchi fucili,
qualche mitra e, in mancanza di meglio, machete e bastoni con un coltellaccio legato all'estremità , ma
inquadrati
come una milizia popolare, disciplinati e con indosso parvenze di uniformi, pochi gli scarponi e molti gli stivali
di gomma; il tentativo di presentarsi come un esercito di autodifesa passato all'offensiva. Quasi senza sparare un
colpo, avevano occupato palazzi del governo, caserme, carceri e archivi comunali, bruciando gli incartamenti che
rappresentavano gli innumerevoli soprusi dei latifondisti, impossessatisi di terre appartenenti alle
comunità
indigene e "legalizzando" il furto con carte bollate compiacenti. Colti di sorpresa, gli annichiliti membri del
governo ci misero due giorni a reagire con proclami e comunicati che avevano in comune lo sconcerto e
l'imbarazzo. In quella mattina assolata, tra gruppi di turisti
incuriositi e frotte di giornalisti ammutoliti, un personaggio si
distingueva in modo particolare: meticcio, messicano ma non chiapaneco, passamontagna nero come la maggior
parte degli insorti, si presentava con il nome di Marcos e la qualifica autoironica di "subcomandante",
vicecomandante, spiegando più avanti che il grado da subordinato era dovuto al fatto che lui faceva solo
da
portavoce, perché a comandare erano le comunità degli indios, non i singoli leader, ed era stato
scelto perché, a
differenza della maggior parte degli insorti, lui parlava spagnolo oltre alle lingue maya. Però, essendo il
loro un
esercito, denominatosi Ejército Zapatista de Liberación Nacional, occorrevano dei responsabili
per le azioni
militari e lui, Marcos, era uno di questi. Ma ci teneva a proclamare, davanti a telecamere e registratori, di non
essere un "capo" né un dirigente, perché la rivolta riguardava l'intera popolazione contadina,
autogovernata in
modo assembleare. Un pugno nello stomaco al neoliberismo di Salinas de Gortari, presidente tecnocrate laureato
in economia a Harvard, e un colpo di spugna all'immagine consolidata della guerriglia latinoamericana: un
esercito popolare che si esprimeva in termini antimilitaristi, con una "dichiarazione di guerra" che preferiva
l'ironia alle roboanti proclamazioni autoritarie e bellicistiche. A questo punto occorre fare un passo indietro, perché quel 1° gennaio non era un Capodanno
come gli altri, ma
la data fatidica dell'entrata in vigore del Trattato di Libero Commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, il Nafta,
North American Free Trade Agreement.
Il dio mercato Negli anni '80 la politica estera
statunitense ha subito un'apparente inversione di tendenza, soprattutto nei
confronti dell'America Latina. Le dittature militari avallate da Washington, quando non addirittura instaurate con
un suo diretto intervento, cominciavano a risultare scomode sia per motivi di immagine (il crollo dei regimi
totalitari dell'Est imponeva anche un'imbiancatura alla facciata dell'Ovest), sia per gli scopi del capitalismo
avviato alla globalizzazione dell'economia: i vari Pinochet del Cile, i Videla, Massera e Galtieri dell'Argentina,
come le caste militari del Centroamerica, pur avendo consegnato le risorse nelle mani di imprese multinazionali
di matrice statunitense, non garantivano affidabilità economica al nuovo dio Mercato e alla sua religione
assoluta,
il Neoliberismo. Così, i gorilla addestrati nelle accademie militari degli Usa, dove avevano imparato le
"tecniche
di interrogatorio" ma nulla che riguardasse l'andamento della borsa e il contenimento della spesa pubblica,
vennero sostituiti dai tecnocrati laureati in economia: cambiava la scuola, ma non il fine. Se prima gli spazi della
mediazione politica erano stati invasi, e devastati, da generali genocidi, adesso si assisteva all'entrata in campo
di economisti addestrati secondo parametri funzionali agli interessi del Nord. Era il trionfo delle cosiddette "regole
di Washington", secondo un'espressione coniata da John Williamson dell'Institute for International Economics,
dove per Washington non si intendeva soltanto la sede del governo, ma il centro attorno al quale ruotano il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e dove avvengono gli incontri di tutti i ministri delle finanze per
stabilire le strategie a breve e medio termine. Tali "regole", semplificando, si basano sulla convinzione che la
fiducia nella politica economica del libero mercato e della moneta forte sia la chiave dello sviluppo economico.
Forti di ciò, i laureati in economia insediatisi al posto dei politici, hanno creduto ciecamente nelle direttive
di
Washington. Senza contare che, ai recalcitranti, il FMI e la Banca Mondiale potevano sempre sventolare lo spettro
di un debito estero che ha raggiunto spaventosi tassi di interesse annui, impossibili da pagare senza accettare le
condizioni imposte. In Messico, tutto questo ha rischiato
di naufragare in partenza, quando alle elezioni del 1988 il candidato
appoggiato dal Fondo Monetario, Carlos Salinas de Gortari, è dovuto ricorrere a frodi elettorali per
assicurarsi
la vittoria su Cuauhtémoc Cardenas, il leader delle opposizioni di sinistra e figlio di Lazaro Cardenas, il
presidente
che negli anni '30 ebbe il coraggio di nazionalizzare il petrolio sottraendolo al controllo degli Stati Uniti e
avviando una riforma agraria che, sebbene incompiuta, riportava il paese ai dettami della Costituzione post
rivoluzionaria. Tirato un sospiro di sollievo, Washington poteva finalmente contare su un tecnocrate neoliberista
al comando del paese strategicamente più importante per i suoi interessi. E quello che fu l'inizio della
discesa nel
baratro, per cinque anni ebbe l'aspetto di un miracolo economico. Privatizzazioni selvagge dalle banche alle
industrie, che hanno colpito anche le strutture più efficienti come per esempio la compagnia telefonica
e i
trasporti, apertura totale alle importazioni e avvio della Borsa più redditizia del mondo. Ma per chi
I bassi
tassi di interesse dei paesi più sviluppati incoraggiavano gli investitori a cercare nuove piazze nel
cosiddetto Terzo Mondo e il Messico ha ben presto rappresentato la loro mecca, dove gli speculatori hanno
guadagnato cifre oscene. Ma non un solo dollaro veniva reinvestito nell'industria, mentre le imprese
statunitensi sfruttavano il fenomeno delle maquiladoras, enormi capannoni di assemblaggio nei
pressi del
confine dove i prodotti grezzi vengono trasformati senza rispettare le rigide norme antinquinamento in vigore
negli USA. Ma intanto la borsa saliva, in un vortice di cifre da capogiro, di pari passo allo svuotamento delle
casse nazionali: da 30 miliardi di dollari iniziali, il Messico si è ritrovato con meno di 6, a causa di
importazioni senza freni mentre le esportazioni crollavano e il peso svalutava solo del 13% in un
paese dove i
prezzi erano aumentati del 63%. Una bolla speculativa destinata a scoppiare con effetti
devastanti.
Crollo definitivo Eppure, ci si ostinava a
credere che occorresse pazienza, perché il modello neoliberista non poteva essere
sbagliato. Ma come ha recentemente scritto un autorevole economista, per giunta statunitense, Paul Krugman,
docente della Stanford University, alla base di tale convinzione c'era il nulla: "Si crede a certe cose perché
le
raccontano tutte le persone importanti, e si raccontano perché tutte le persone importanti ci credono; in
realtà,
quando una tesi convenzionale va per la maggiore, il consenso di una persona su quella tesi diventa praticamente
la prova che quella persona può essere presa sul serio". Annichilente, ma è così. Ed
è ciò che è successo a Salinas
de Gortari: non poteva dubitare che tutto quanto imparato ad Harvard fosse sbagliato, e se le "persone importanti"
di Washington continuavano a sostenerlo, come poteva lui avere dei dubbi? E si lasciava convincere che l'entrata
nel Nafta avrebbe portato il Messico nel dorato Primo Mondo...Poco importava se la povertà aumentava
spaventosamente, se tornavano a manifestarsi il colera e la malaria in un paese all'avanguardia nella prevenzione
e profilassi, l'essenziale era tenere duro perché il miracolo si consolidasse. E si arrivò al crollo
definitivo. Il meccanismo perverso messo in moto, lo avrebbe stretto in un angolo: per rendere le industrie
messicane più
competitive e arrestare lo svuotamento delle casse statali, doveva svalutare il peso, ma visto che la
solidità
della moneta era il suo cavallo di battaglia, e le elezioni presidenziali erano alle porte, Salinas non poteva
svalutare, pena la perdita di credibilità fondata sulla bolla speculativa, e una possibile sconfitta del
candidato
da lui prescelto. Poteva rimandare i conti con gli elettori, certo, ma non ingannare i cinici meccanismi della
speculazione borsistica. Se si pensa che i maggiori investitori sono i gestori dei fondi pensione, i veri padroni
dell'attuale geofinanza, che solo negli Stati Uniti rappresentano una massa di valuta pari a 6.000 miliardi di
dollari, il contraccolpo causato dallo spostamento di simili capitali è risultato
apocalittico. Nel giro di poche ore, l'economia messicana è passata dal miracolo al disastro, il tempo di
digitare sulle
tastiere dei computer mandando altrove migliaia di miliardi di dollari. E senza che avessero lasciato in piedi
una struttura, una nuova impr3sa, qualche minima speranza produttiva. Un tracollo che Washington ha saputo
volgere a proprio favore: per arrestare il cosiddetto "effetto Tequila", cioè la caduta delle economia
latinoamericane a catena, ha fatto il più grosso prestito della storia, 50 miliardi di dollari, ottenendo in
cambio
la "tutela" del petrolio messicano, cioè, chiunque compri il suo greggio, versa l'importo non al Messico
ma
direttamente nella Federal Reserve di New York. Una storia di fierezza e dignità che vantava mezzo
secolo è
stata schiacciata in pochi giorni. E due sole cifre sono sufficienti per capire la portata del colpo messo a
segno: le riserve petrolifere degli Usa basterebbero a coprire due o tre anni, quelle del
Messico...quaranta!
Chiapas: il vagone sganciato Per correre più
veloce, la locomotiva neoliberista messicana contava sugli stati del nord, più industrializzati e con
un'agricoltura modernamente sviluppata, mentre le zone tradizionalmente povere e arretrate, come il Chiapas, ma
anche Oaxaca, Tabasco, Guerrero o Veracruz, diventavano vecchi vagoni da sganciare uno dopo l'altro (ma
continuando a sfruttarne le risorse naturali). I contadini del Chiapas sono in maggioranza indios maya,
appartenenti alle etnie tzotzil, tzeltal, tojolabal, chol, mam, motozintlec, chuj, jacaltec, zoque e lacandon. Da
millenni vivono in regime comunitario, prendendo assemblearmente le decisioni utili alla collettività,
amministrando la propria giustizia e coltivando la terra senza accettare la logica del profitto: un campo va sfruttato
finché dà quanto basta al fabbisogno della comunità, non per accumulare guadagni. E la
terra, secondo la loro
cultura, non è vendibile o acquistabile, perché costituisce un bene comune. La richiesta di carne per
hamburger ha recentemente favorito gli abusi dei latifondisti alla ricerca di enormi
terreni da pascolo e gli indios sono stati gradualmente cacciati sulle montagne, dove la terra è aspra e
meno
fertile. La milpa, il campo di mais comunitario, garantiva una sopravvivenza nella miseria. Ma
all'entrata in
vigore del Trattato di Libero Commercio (una contraddizione in termini, visto che non può esserci libera
concorrenza tra Stati Uniti e Messico), la milpa ha perso ragione di esistere: l'agricoltura
industrializzata del
Kansas e dell'Oklahoma produce mais a prezzi infinitamente più bassi di quella messicana, e oggi si
assiste
all'assurdo del Messico che importa granturco dal nord, cioè il prodotto che rappresenta la sua stessa
storia,
portato nel resto del mondo dagli spagnoli che conquistarono il paese cinque secoli fa. Qui è nato, ha
nutrito
le popolazioni da millenni, ma qui non ha più senso coltivarlo, secondo le regole del dio Mercato. Questo
è
uno dei motivi per cui gli zapatisti sono insorti in armi proprio il 1° gennaio 1994, dichiarando al mondo: "Se
dobbiamo continuare a morire di fame, stenti e diarrea, meglio andare incontro alle pallottole: noi odiamo la
guerra, ma voi dovete prendervi la responsabilità di ucciderci direttamente, senza lasciare alla miseria il
compito di farlo". Fin dai primi discorsi tenuti a San Cristóbal, il portavoce Marcos ha immediatamente chiarito
l'anima
libertaria del movimento, che rifacendosi a Zapata prende le distanze da "marxismo, leninismo,
social-comunismo, castrismo o qualsiasi altra ideologia già definita; c'è piuttosto un punto di
congiunzione in
comune rispetto ai grandi problemi nazionali che coincide sempre nella mancanza di libertà e
democrazia...".
Per chi non conoscesse in maniera approfondita la storia di Emiliano Zapata, delle sue imprese e della sua
partecipazione alla Rivoluzione degli anni '10, deve considerare che quegli eventi videro coinvolti come
principali artefici molti personaggi dell'anarchismo messicano, primi fra i quali Ricardo Flores Magón
e
Praxedis Guerrero, che diedero un'impronta libertaria anche alla parabola umana e politica di Zapata. Il fatto
che gli "eroi" della Rivoluzione come Zapata o Villa venissero considerati dei "generali" non deve trarre in
inganno, perché certi nostri parametri di valutazione non possono essere applicati in modo neutro alla
realtà
messicana. Anche tutto ciò che potrebbe essere considerato come "nazionalismo" ha quasi una valenza
spesso
diametralmente opposta alla nostra: quando gli zapatisti rivendicano la bandiera messicana come propria, lo fanno
per affermare una storia di fierezza e orgoglio di fronte al capitale straniero, allo sfruttamento della borghesia
contro cui scatenarono la prima rivoluzione di questo secolo, e non per un vacuo patriottismo fatto di simboli e
rituali. "Siamo diventati soldati perché un giorno non siamo più necessari i soldati. Abbiamo
intrapreso un
cammino suicida, quello di una professione il cui obbiettivo è scomparire. Soldati che sono soldati
perché un
giorno nessuno debba diventare un soldato. Ed è per questa bandiera che noi siamo diventati soldati"
scrive
Marcos a nome degli zapatisti. E aggiunge, semmai vi fossero dubbi sull'ideale che li anima: "Noi insistiamo
molto sulla questione dei 'soldati che non sono soldati, perché non sia più necessario che ci siano
soldati'. E
quando diciamo che non vogliamo il potere è perché non può essere che un militare
abbia il comando di una
società . Perché un militare basa il suo potere sul suo incarico, sui capitani, i maggiori, i tenenti
colonnelli. Chi
ha un grado militare non viene eletto: lo promuovono. Immaginatevi che aberrazione poter decidere della morte
di qualcuno o di qualcosa, e un combattimento è questo: vita o morte. Il peggio che possa succedere
è che ci sia
un militare in un posto di governo, compresi noialtri. La logica militare è la più antidemocratica
e disumana che
esista. E' per questo che facciamo un sacco di feste da ballo, per compensare. In questo senso l'EZLN ha una
volontà suicida, non nel senso di farci ammazzare, ma di scomparire come militari L'unico vantaggio
che
abbiamo è che ci rendiamo conto di quanto sia una stronzata quello che stiamo facendo, noi non
vogliamo
continuare ad essere militari". Per la prima volta nella storia dei movimenti armati dell'America Latina di
quest'ultimo mezzo secolo,
migliaia di uomini e donne hanno preso il fucile dichiarando di non volere il potere e neppure una
rappresentanza presso il potere, ma in primo luogo la sensibilizzazione e la presa di coscienza di coloro che
armati non sono. "Consideriamo la lotta armata non nel senso classico delle guerriglie precedenti, cioè
la lotta
armata come unico percorso, come una sola verità onnipotente intorno alla quale si condensa tutto, ma
abbiamo sempre considerato la lotta armata, fin dal principio, come parte di una serie di percorsi o di forme di
lotta che vanno evolvendosi; in certi casi è più importante una mentre a volte è
più importante l'altra". Però
, quel 1 gennaio, occorreva comunque difendersi dal contrattacco governativo, che non si sarebbe fatto
attendere ancora per molto.
Soldati, non soldati e donne
combattenti Dopo aver tentato
goffamente di bollare gli zapatisti come un fenomeno alimentato dall'estero, Carlo Salinas de
Gortari si vide ben presto costretto ad ammettere che le ragioni degli insorti erano sacrosante: ma giunto a quel
punto, non sapeva proprio che farci. Nel frattempo, da un lato la società civile si mobilitava in favore
dei dannati
del Chiapas e dall'altro la macchina da guerra si apprestava a contrattaccare. Le prime immagini mostravano
soldati che scaricavano armi e munizioni con espressioni poco convinte, addirittura perplesse o tristi: l'esercito
messicano continua a fondarsi sugli eroi della Revolució n, non ha mai manifestato rigurgiti golpisti e una
parte
non nasconde persino simpatie per Cuauhté moc Cardenas, dato che ci sono ancora generali e ammiragli
che di
suo padre furono amici intimi e lo considerano il vessillo della resistenza messicana all'arroganza dei
gringos.
Ma l'ordine era di ripristinare la "legalità " sloggiando gli zapatisti dai municipi occupati. Poi, altre
immagini si
sono sovrapposte e queste ultime mostravano reparti d'é lite addestrati dagli statunitensi e con
equipaggiamento
ereditato dalla Guerra del Golfo. L'EZLN, dopo una ritirata strategica dalle città , ha sorpreso i governativi
attaccando Rancho Nuevo,
l'installazione militare più importante della zona. E da quella grande caserma, si dice siano scomparsi
nel nulla,
poco prima dell'insurrezione, decine di soldati semplici e sottufficiali, tutti con il proprio armamento ed
equipaggiamento individuale. Oltre a questi, sicuramente unitisi agli zapatisti, andava registrato che molti agenti
di polizia municipale avevano fatto trovare sguarniti i posti loro assegnati, rivelando un indubbio appoggio
popolare all'impresa del 1° gennaio. Come se tutti sapessero, tranne il governo. Nel giro di dodici sanguinosi
giorni, si calcola siano morte circa duecento persone, molte delle quali civili uccisi dai reparti speciali che non
facevano distinzione alcuna. La battaglia che infuriò a Ocosingo fu la più cruenta: i
paracadutisti attaccarono il mercato sparando
all'impazzata e gli zapatisti, anziché ritirarsi, rimasero a combattere per permettere alla popolazione di
rifugiarsi
nelle case. Quel giorno, avvenne una piccola rivoluzione all'interno della rivolta. La racconta così
Marcos: "C'è
una differenza sostanziale tra le donne insorte, le insurgentas, come le chiamano i compagni, e
quelle dei villaggi.
Le insorte sono avanti anni luce, hanno spirito d'iniziativa, per esempio nei rapporti di coppia e nelle questioni
di comando. Prima della guerra c'era molta diffidenza da parte dei maschi quando una donna aveva il comando.
Era un casino, dovevano continuamente sedare litigi. La solita storia: 'Non le obbedisco perché è
una femmina,
ci mancherebbe altro'. Sono stati educati così . Come è possibile ricevere ordini da una donna!
Al villaggio le
donne non fanno queste cose. Il problema si è risolto definitivamente con i combattimenti di Ocosingo,
perché
a combattere meglio a Ocosingo sono state le donne, sono loro che hanno portato via i feriti dall'accerchiamento.
Alcune hanno ancora dei pezzi di schegge in corpo. Hanno portato via la gente e l'hanno portata via viva.
Lì si
è risolta la questione se le donne potevano o meno comandare una truppa".
Noi donne
vogliamo... La "questione femminile"
è sempre stata presente nell'EZLN. Considerando la cultura maschilista imposta più
dall'arretratezza e dalla miseria che dalla cultura india, le donne insorte hanno avuto il doppio compito di
addestrasi a combattere e sensibilizzare i compagni maschi su problemi mai affrontati prima: "Quando nel marzo
del 1993 si è riunito il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno, è toccato alla compagna
Susana leggere
le proposte che condensavano il pensiero di migliaia di donne indie. Cominciò a leggere e mano a mano
che
avanzava nella lettura, l'assemblea si dimostrava sempre più inquieta. Disse: 'Vogliamo non essere
costrette a
sposare chi non ci piace, vogliamo avere i figli che desideriamo e che possiamo allevare. Vogliamo il diritto di
assumere incarichi nella comunità . Vogliamo il diritto di parola e che questa venga rispettata. Vogliamo
il diritto
di studiare e perfino di fare le autiste'. Alla fine ci fu un silenzio di piombo. Le Leggi delle Donne che Susana
aveva appena letto significavano, per le comunità indigene, una vera rivoluzione. Questa è la
verità : la prima
sollevazione dell'EZLN è avvenuta nel marzo del 1993 e fu capeggiata dalle donne zapatiste. Non si
registrarono
perdite e raggiunsero la vittoria. Cose che capitano da queste parti". Tornando ai combattimenti, al dodicesimo giorno si
raggiunse un cessate il fuoco, anche questo un caso unico
nelle travagliate vicende latinoamericane, se si considera che le truppe regolari si fermarono proprio quando
stavano per conquistare posizioni vantaggiose. Occorre precisare che al comando delle forze militari dislocate
in Chiapas c'era il generale Miguel Angel Godìnez Bravo, formatosi con il presidente José Lopez
Portillo, lo
stesso che recentemente ha rotto la tacita regola imposta agli ex presidenti di non intervenire nella politica
nazionale, dichiarando che il neoliberismo sta uccidendo il Messico ed esortando a rivedere radicalmente un
sistema economico che sta svendendo le risorse agli speculatori. Godìnez Bravo è un militare
che ha preferito
la trattativa alla guerra senza quartiere, fermando i suoi uomini senza pretendere alcuna rivincita. Anche in
questo, il Messico si differenzia dal resto del continente. Poi, le trattative si sono snodate in un'estenuante serie
di incontri , con il vescovo Samuel Ruiz a fare da
intermediario, un prelato che da decenni si distingue come difensore degli oppressi e degli emarginati, indios
in particolare, e che guarda caso ha il suo principale avversario proprio nel Vaticano di Wojtila...Ma gli sforzi
maggiori messi in atto dagli zapatisti si sono sempre rivolti alla cosiddetta "società civile", l'opposizione
variegata e non legata a nessun partito che costituisce il loro vero interlocutore. Nell'agosto del 1994 si è
tenuta, nel cuore della Selva Lacandona, la Convención Nacional Democratica, una riunione di massa che
ha
sbalordito per la capacità organizzativa degli zapatisti. Ma nonostante la mobilitazione coinvolga ormai
buona parte del paese, sia nelle grandi città che nelle zone rurali, la Convenzione non ha ancora trovato
quell'unità di intenti auspicata dall'EZLN, dilungandosi in rivalità e lotte intestine influenzate
da partiti e
partitini.
Spetta a noi mobilitarci Il rischio di una crisi senza
ritorno lo si è sfiorato agli inizi di febbraio del '95, quando il neo presidente Zedillo
ha ordinato all'esercito di attaccare. Perché quest'improvvisa scelta di tornare alle armi dopo un anno di
dialogo
La risposta è semplice: la Chase Manhattan Bank e la Morgan Bank avevano inviato un rapporto
"segreto" a
Zedillo dichiarando che le zone occupate dagli zapatisti sono ricche di giacimenti petroliferi, che il Chiapas
produce il 30% dell'energia elettrica del paese (anche se la maggioranza degli abitanti usa ancora la candela e il
lume a petrolio), ha enormi risorse agrarie, oltre a legname pregiato per l'esportazione (il secondo polmone del
pianeta da saccheggiare), e quindi...o ne riprendeva il totale controllo o loro non avrebbero più
consigliato agli
investitori stranieri di intervenire in Messico. In poche parole, ammazzateli tutti e ricominciamo da capo. Zedillo,
che nelle vignette è stato ritratto con un cappio al collo e un altro attorno ai testicoli, non ha potuto far
altro che
obbedire. Ma ha rischiato di scatenare una vampata che poteva avvolgere buona parte del
paese. Grazie alle informazioni fornitegli dalla Cia, ha mostrato in televisione quello che dovrebbe essere il
vero
volto di Marcos: si chiamerebbe Rafael Guillén Vicente, sociologo, scomparso nel nulla da almeno un
decennio. Una trovata inutile, perché nelle manifestazioni oceaniche realizzate immediatamente nella
capitale, migliaia di persone hanno preso a sfilare con il passamontagna gridando in coro: "Siamo tutti
Marcos". Il volto celato, da parte degli zapatisti, non è mai stata una misura di sicurezza, bensì
la volontà di
non dare un volto ai rappresentanti confondendoli con gli altri, per non favorire "caudillismi" e non creare
miti fondati su uno o pochi individui. Il potere, non arrivando a capire tale ricchezza ideale, ha creduto che
sarebbe bastato lo smascheramento per cancellare un mito neppure voluto. Ma non è cambiato nulla. E
Marcos, alla solita domanda, continua a rispondere. "Chi è Marcos? Marcos è un indio in
Messico, è un
nero in Sudafrica, un gay a San Francisco, un pacifista in Bosnia, un palestinese nei territori occupati, un
anarchico nella guerra di Spagna, una donna sola in una notte di sabato in ogni metropoli messicana, uno
studente infelice, un dissidente dell'economia di mercato, un artista senza galleria e, naturalmente, uno
zapatista nel Messico sud-orientale. Marcos è qualsiasi sfruttato, tutti gli emarginati, le minoranze
oppresse
che resistono e dicono: BASTA!". E ancora: "Se volete vedere il vero volto di Marcos, prendete uno specchio
e guardateci dentro...". Faticosamente, le trattative si sono riannodate. Il Messico non voleva un bagno di sangue e persino
tra i
soldati e gli ufficiali di truppa si sono registrati malcontenti, indecisioni o aperti rifiuti a sparare su quelli che
sono "nuestros hermanos". Al momento si registra un piccolo successo della pace sulla guerra, una prima
intesa programmatica, vaga ma pur sempre un'intesa. La speranza è ancora appesa a un filo e gli zapatisti
sanno, e lo affermano, che combattendo non otterranno ciò che si sono prefissi. Ma indietro non si
potrà
comunque tornare. La presa di coscienza è un dato di fatto. Le genti del Messico non hanno mai
rinunciato
alla dignità , che i miopi potrebbero scambiare per nazionalismo, e oggi sono in troppi ad aver constatato
quale scempio il neoliberismo ha compiuto qui più che altrove. Resta purtroppo una realtà da tenere
presente: la globalizzazione dell'economia non lascia alcuna autonomia
ai singoli governi, e anche in Messico, la corsa verso il caos è comandata dal nord. Spetta a tutti noi, qui
e
subito, mobilitarci per non lasciarli soli. Ciò per cui si stanno sacrificando, ci riguarda da
vicino.
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