Rivista Anarchica Online
Le bolle di Geminello
di Elena Petrassi
Ci sono molti modi per raccontare la vita di un uomo. Per la maggior parte degli
esseri umani l'esistenza non sarà
che un breve intervallo posto tra due date, quella di nascita e quella di morte. Del prima e del dopo non ci
è dato
sapere nulla né, devo confessare, mi sono mai preoccupata di sapere cose mai potesse esserci. Certo
ognuno di noi lascia la sua scia di bollicine sull'acqua della vita. Chi con le proprie imprese più o meno
gloriose, chi facendo figli, qualcuno costruendo palazzi, altri, pochi, scrivendo libri. E in questa scia una vita non
è che una bolla che sale alla superficie. Alcune di queste esistenze si impongono al nostro sguardo per
la loro
breve intensità, per la malvagità e la follia che le ha abitate, per la loro diversità estrema
che fa paura ai più. Quando uno scrittore immerge le sue mani nella scia che la vita lascia dietro di
sé, finisce sempre per ritrarle
colme di doni: piccoli pesci argentati, un granchiolino, alghe lucide e avvolgenti. A volte c'è un uomo
che esce dalla sua bolla e racconta la sua vita. Lo scrittore ascolta e racconta ad altri. Non conoscevo
Geminello Alvi prima di leggere il suo libro Uomini del Novecento (Adelphi 1995, 182
pag; L.
14.000) né di sicuro posso affermare di conoscerlo ora. Ma la storia del secolo che volge alla fine che egli
ha
saputo raccontare dice molto del suo autore, io credo. Scorro di nuovo "l'indice delle quarantadue esistenze
narrate in questo libro", la metà dei nomi mi è sconosciuta,
ma tra quelli che conosco ce ne sono alcuni che calamitano la mia attenzione. Errico Malatesta,
anarchico Mohondas Gandhi, bania Jim Morrison, cantante rock Macedonio Fernandez,
quietista Charlie Chaplin, Charlot Jorge Luis Borges, poeta Gustav Landauer, suicida Knut
Hamsun, scrittore. Provate a indovinare quali ritratti io abbia letto per primi, in libreria in piedi davanti al
banco delle novità. "Oggi è deceduto a Roma per broncopolmonite il noto Errico Malatesta.
Prego intensificare vigilanza su elementi
anarchici e sovversivi". Malatesta, "un uomo arcaico e mai esausto, inflessibile e buono". Le tre pagine dedicate
a lui (è questa la lunghezza media di ogni ritratto) mi stringono il cuore. Signor Malatesta
cos'è l'anarchia? "La solidarietà cosciente e voluta". Riesco a immaginare, leggendo, le
peregrinazioni di quest'uomo mai esausto e mai sconfitto, entrando in una
dimensione dilatata dello spazio e del tempo. Mi trovo così tra la folla che ascolta il contraddittorio tra
evoluzionisti socialisti e anarchici e lo sento rispondere, al giovane che lo aveva salutato come il "Lenin d'Italia":
"Io sono anarchico: non voglio obbedire, ma soprattutto non posso comandare". Si può condensare
il senso dell'anarchia meglio delle due affermazioni di Malatesta che Alvi ha scelto di riportare
nella breve biografia? Io non credo. Nello scorcio di tempo che ha abitato, Malatesta ha lasciato una scia che
ribolle ancora, che è viva se si ha il coraggio di immergervi le mani e la propria esistenza. Continuo
a sfogliare il libro con mani febbrili, spesso le vite narrate vengono fermate come in un'istantanea da
immagini che sarà difficile dimenticare alla fine della lettura. "Gustav Landauer, la barba biblica, il
fiocco anarchico e grandi orecchie protette da un colbacco scolorito, triste
sorrideva". E ancora: "Espulso da tutte le Università della Prussia prima dei ventidue anni, visse a
Berlino Friedrichshagen,
il quartiere degli inquieti. La sua era la perfetta vita di stenti devota solo all'Anarchia. Scriveva novelle e anche
di politica, ma da stravagante: "La strada che dobbiamo percorrere per giungere alla comunione col mondo, non
porta all'esterno, bensì all'interno di noi...io sono la causa di me stesso, perché io sono il
mondo". Questo possesso dell'Io non abbandona mai un puro anarchico, scrive Alvi, ma questa furia di
purezza, di
rinnovamento, finisce spesso con il distruggere. "Quasi sempre l'esito delle esistenze anarchiche è
la follia mistica e il suicidio". Ma non prima di averci ricordato
le parole di Landauer: "L'anarchia è dove sono gli anarchici, veri anarchici, ovvero quegli uomini che non
praticano alcuna violenza". Violenza non praticata ma della quale lo stesso Landauer sarà vittima.
Alvi ci ridà la sua immagine, ormai altro
da questo mondo, che attraversa sorridendo un campo fiorito. E che un istante prima di morire "fissò dove
erano
le nuvole". Poco prima che il sipario calasse. Mi sposto di nuovo nel libro, se c'è una linearità
temporale della narrazione di queste vite non l'ho vista, sono
i nomi a formare punti fissi nel flusso del tempo. Non tutti i nomi appartengono a personaggi che possono esserci
cari in qualche modo. Trovo infatti Paul Julius Moebius, misogino, che "fu l'autore di numerosi trattati. Nel 1900
intitolò Sulla deficienza mentale fisiologica della donna il raro saggio per il quale è
oggi universalmente
esecrato". L'insieme dei ritratti delinea quindi tutto il secolo che volge alla fine, sia nelle macchie di luce che
nelle zone
d'ombra. Tutto questo è ora dietro di noi, il senso complessivo ancora non riusciamo a coglierlo. Ma
questo libro
è così intriso dallo "spirito del tempo" che sembra quasi il Novecento ci stia svelando a bassa
voce i suoi segreti,
le sue speranze infrante, le illusioni e i sogni. Un poeta cieco di nome Jorge Luis Borges avrebbe potuto
chiedere a questo punto: "Ma la vita appartiene al
genere realistico o a quello fantastico?". Questa domanda rimbalza in ogni scritto di Borges e non ha risposta,
essendo il reale e il fantastico l'uno lo specchio dell'altro e la vita non è che quel che si perde dove lo
spazio e
il tempo si annullano: nel sogno. E la vita di ogni uomo non è che un libro già
scritto. Borges bambino leggeva avido libri aspettando la cecità. Scorrendo le pagine del libro di Alvi,
immagini di
bambini inconsapevoli degli uomini che saranno, catturano l'occhio e ci costringono alla lettura. L'infanzia
è una pennellata rosso fuoco su una tela in bianco e nero. I bambini giocano e scambiano il reale con
il fantastico. I poeti, che son forse, tra gli esseri umani, quelli che più di ogni altro riescono ancora a
lasciare che
il bambino che sono stati parli, non smettono mai di farlo. Ma se la voce del bambino sovrasta quella
dell'uomo adulto, essere diventati grandi diventa un peso impossibile
da sopportare. James Douglas Morrison lasciò che il bambino continuasse i suoi giochi e credette alle
parole di Rimbaud: "Il
poeta diviene un visionario attraverso un lungo, illimitato, sistematico sregolamento dei sensi". Si impose
di non avere limiti; si lasciò bruciare dalle sue ossessioni perché aveva sempre saputo che "tutti
i
bambini sono impazziti, aspettando le piogge estive". Chiudo il libro dopo aver finito di leggere della breve
esistenza di Jim Morrison. Cosa resta di un uomo alla sua
morte? Di alcuni, i palazzi che hanno costruito, di altri un nome su una targa stradale. Di altri, libri di poesie,
di molti
il male che hanno fatto. Di altri ancora l'intensità con cui hanno vissuto, di troppi storie che non
sapremo mai. Ma dopo aver letto questo libro, per oggi almeno, posso accontentarmi di quello che ho
scoperto e continuare a
dubitare.
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