Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 233
febbraio 1997


Rivista Anarchica Online

Anarchismo tra ethos e progetto
di Pietro Adamo

A partire dalle riflessioni dell'ultimo Malatesta e di Camillo Berneri, Pietro Adamo affronta il nodo delle relazioni tra progetto politico e tensione etica nell'anarchismo

La bandiera nera sventola ancora
Quando nel maggio 1968 le bandiere nere hanno fatto una timida ricomparsa alla testa dei cortei parigini, non sono stati in pochi, compresi buona parte dei membri del movimento anarchico, a meravigliarsene. L'anarchismo era divenuto elegia e ricordo nostalgico, per alcuni un modello di incontaminata schiettezza rivoluzionaria, lontano però dalle necessità del confronto con la società tardocapitalista: certamente puro, e perciò stesso desueto. La sollevazione rivoluzionaria spagnola si colorava di alone mitico: nei primi anni Sessanta George Woodcok scrisse la sua storia dell'anarchismo componendo, come egli stesso si è espresso un paio di decenni dopo, un "canto funebre".
Dopo il '68 l'anarchismo ha riacquistato visibilità e pregnanza, sia pure in modi e contesti differenti dal passato: nelle discussioni degli accademici e dei rappresentanti del pensiero "speculativo" da un lato, e nelle sperimentazioni delle frange movimentiste dell'underground dall'altro. Potrei citare una serie di titoli e di autori influenti, noti e ampiamente discussi: da Daniel Cohn-Bendit a Paul Feyerabend, da Robert Nozick a Robert Paul Woolf, da Murray Bookchin a Hakim Bey. Oppure potrei citare migliaia di esempi di comuni, collettivi, centri sociali, scuole autogestite, e così via: un suggestivo cosmo di microsperimentazioni. Nel contempo, l'anarchismo non ha certamente riacquistato le posizioni perdute, sia come progetto pratico di modellamento della società sia come presenza forte nell'immaginario d'Occidente. L'esplosione sessantottina è stata contemporaneamente il culmine di una lunga crisi e il segnale di un nuovo inizio. E per certi versi questo trauma si è presentato anche nella forma del passaggio tra un anarchismo fondato sul progetto a un anarchismo fondato sull'ethos (una griglia esistenziale ed intellettuale con cui si guarda al mondo). Nelle pagine che seguono cercherò di illustrare il significato di questi due termini e il modo in cui essi si rapportano all'interno dell'anarchismo stesso.
Libertari del ventesimo secolo
Nel 1935 Carlo Rosselli suggerì a Camillo Berneri che, per divenire "libertari del ventesimo secolo", era necessario rendersi conto che "le forme e le formule che si addicevano agli artigiani del Giura o ai mugiki della Russia o ai braccianti del beneventano" non erano adeguati alla società industriale che si andava costruendo. Le critiche di Rosselli non erano particolarmente centrate (soprattutto se rivolte al "revisionista" Berneri), ma per certi versi restano significative. Di fatto, l'obiettivo polemico dei giellisti libertari era il complesso della specifica progettualità anarchica nella sfera del mutamento politico, così come aveva preso forma nella seconda metà del secolo diciannovesimo: la necessità della rigenerazione sociale attraverso la rivoluzione; l'esclusione di ogni ipotesi gradualista; la soluzione comunista; il ruolo privilegiato dei ceti operai e contadini, e così via.
Pur senza semplificare all'eccesso, e senza dimenticare le differenze quasi fisiologiche all'interno del movimento, all'epoca di Rosselli la maggior parte dei militanti, in Europa e in America, era sostanzialmente ancorata a questo modello progettuale, legato al contesto del pieno sviluppo della rivoluzione industriale, ovvero allo sfruttamento programmato su una scala mai esperita in precedenza e alla conseguente intensificazione dello scontro sociale. Nel 1908 Luigi Galleani ne aveva dato una formulazione paradigmatica, all'interno della contrapposizione tra "socialismo collettivista" e "comunismo anarchico": "così alla nuda resistenza passiva e civile raccomandata con tanto fervore dai socialisti, gli anarchici preferiscono il boicottaggio, il sabotaggio, e, per le necessità stesse della lotta, i tentativi di espropriazione immediata e parziale, le rivolte individuali ed insurrezionali che raccolgono tanto orrore di anatemi socialisti, ma che esercitando sulla massa la più spregiudicata delle suggestioni, si risolvono in un vantaggio morale di altissimo valore".
Il "progetto" anarchico di ricostruzione della società, che passasse per l'affermazione sociale della Ragione (Godwin), per la costruzione dell'autogestione operaia (Proudhon), per la rivoluzione comunista (Bakunin) o per il dispiegamento razionale della spontaneità autoorganizzativa (Kropotkin), si presentava comunque come il risultato di un'analisi culturale e sociale in chiave illuminista, materialista e positivista, fondata sulla certezza di poter decodificare le leggi costitutive del complesso sociale e di poter realizzare nella storia una verità al tempo stesso ideale e reale. Storicamente questo progetto si è sviluppato nei pensatori appartenenti al periodo "classico" dell'anarchismo, compreso tra i decenni centrali dell'Ottocento e l'inizio del secolo successivo. "La gran disgrazia è che un'enorme quantità di leggi naturali", si lamentava Bakunin, "già constatate come tali dalla scienza, rimangono sconosciute alle masse popolari, grazie alla cura dei governi". Lysander Spooner apriva il suo trattato teoricamente più rilevante affermando illuministicamente l'esistenza di una "scienza della giustizia" fondata sulla ragione e relativa a ogni aspetto della vita umana: "solo questa scienza può dire all'uomo cosa può e cosa non può fare; cosa può e cosa non può avere; cosa può e cosa non può dire senza violare i diritti degli altri". E il geografo Kropotkin riassunse in modo emblematico l'approccio tardopositivista all'anarchismo:

L'Anarchia è una concezione dell'universo, basata sull'interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e secondo questo metodo ogni conclusione scientifica dev'essere verificata. La sua tendenza è di fondare una filosofia sintetica, che si estende a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali.

Non è quindi soprendente che gli autori del "progetto" guardassero ai gruppi libertari e anarchici sia come portatori della verità sociale sia come l'esplicazione storica della verità stessa. Il processo rivoluzionario veniva a configurarsi come la manifestazione nella storia e nella società di una particolare verità scientifica, che avrebbe anche avuto, per la sua qualità di assolutezza, la funzione di porre fine alla storia stessa. L'anarchia - la società pienamente anarchica - diveniva un traguardo realizzabile concretamente, più o meno nell'immediato. L'azione politica, nel senso in cui la riassumeva Galleani, si calava nel contesto sociale del tardo Ottocento e nel contempo, in virtù della sua consequenzialità da un'interpretazione "scientifica" della società, si universalizzava e si trasformava in una specie di norma sempiterna.
Questa strutturazione positivistica e quasi "scientista" del pensiero e dell'azione degli anarchici andò incontro a una crisi epocale nei primi decenni del Novecento, quando le mutazioni delle società occidentali misero seriamente in discussione i presupposti di questo "progetto". L'ascesa dei totalitarismi, il riassorbimento delle spinte ribellistiche della classe operaia a opera delle élite e dei gruppi riformisti, la scomparsa del mondo contadino e l'avvento della tecnocrazia vibrarono un duro colpo ai fondamenti - l'orizzonte rivoluzionario, la centralità delle classi operaie, ecc. - su cui i pensatori "classici" avevano eretto il loro edificio. In questo periodo di crisi prese forma una rilettura dell'anarchismo che prescindeva dal modello ottocentesco e che, anzi, proprio sul sostanziale rifiuto di questo modello costruiva una prospettiva nuova, una visione imperniata non sul progetto anarchico, ma piuttosto su un più ampio ethos dell'anarchia. I più interessanti espositori di questa "revisione" furono due italiani, Errico Malatesta e Camillo Berneri.

Anarchismo barocco
Il progetto classico era fondato su una serie di analisi e di interpretazioni profondamente critiche, e insieme percettive, dei princìpi che modellavano la vita sociale nel suo complesso: il ruolo coartante delle istituzioni positive, il soffocamento dell'individualità, l'organizzazione gerarchica delle interrelazioni sociali, e così via. Questa strumentazione teorica - in primo luogo una pars destruens ("parte distruttiva") - era profondamente radicata in un'ethos, in una griglia interpretativa di grande spessore e respiro, in una lettura complessiva della società occidentale in chiave di critica alla gerarchia e al dominio. Questo ethos non dipendeva tuttavia dall'analisi sociale e "scientifica" della realtà: ne era invece il presupposto e si fondava, in ultima analisi, su un preciso sistema di valori e di preferenze etiche. Le articolazioni della critica allo stato e alla religione in Bakunin, della rivalutazione della comunità in Kropotkin, del potenziamento dell'associazionismo operaio in Proudhon, dello svelamento dell'inganno democratico in Spooner, della disamina dei pericoli del socialismo di stato in Tucker, tanto per citare i maggiori, sono incomprensibili se non alla luce della pervicace insistenza sulla salvaguardia del singolo, inteso come nucleo primario della potenzialità umana e riferimento privilegiato dell'aspirazione alla libertà (senza aggettivi).
In un certo senso toccò a Malatesta e Berneri scoprire, in un momento storico estremamente critico per il movimento anarchico, un contrasto radicale tra ethos e progetto. I due non erano guidati da preoccupazioni identiche, sebbene entrambi mirassero a ricostruire nuove linee d'azione politica per gli anarchici; non a caso entrambi cominciarono a dar forma a istanze postclassiche a partire dagli anni Venti, mentre in Italia si affermava il fascismo, sconvolgendo ogni piano di rivoluzione elaborato dalla sinistra. Malatesta giunse a concettualizzare l'esistenza di questo contrasto in termini di aporia a partire dal dibattito interno nei gruppi libertari, finendo poi per trarne conclusioni anche nell'analisi della natura del movimento libertario. Berneri compì forse il tragitto inverso, probabilmente ispirandosi all'impostazione del problema data da Malatesta stesso: per lui il dato essenziale era la marginalizzazione dell'anarchismo come opzione politica, una situazione da cui era possibile uscire solo con una "revisione" del rapporto tra ethos e progetto.
Come è noto, il percorso di Malatesta cominciò nel solco bakuninista. Nel 1922, in polemica con Enzo Martucci, il quale aveva ricordato il discorso da lui pronunciato nel 1876 a Berna, nel corso dell'ottavo congresso dell'Internazionale ("non esiste un patto sociale, ma una legge sociale"), Malatesta dichiarò di essersi presto sottratto "all'influenza dei sociologhi organicisti e dei pregiudizi scientificisti". Qualche mese prima aveva già precisato il suo giudizio sullo "scientificismo [...] prevalente nella seconda metà del secolo decimonono", smascherandone l'impostazione ideologica: all'epoca si era prodotta una

tendenza a considerare come verità scientifiche, cioè leggi naturali, e quindi necessarie e fatali, quello che non era che il concetto, corrispondente ai diversi interessi ed alle diverse aspirazioni, che ciascuno si faceva della giustizia, del progresso, ecc., da cui nacquero il "socialismo scientifico" e l'"anarchismo scientifico", che, quantunque professati dai nostri maggiori, a me sono sempre sembrate concezioni barocche, confondenti insieme cose e concetti per natura loro distinti.

A questa concezione "barocca" dell'anarchismo, in cui rientravano le "oscure e contestabili analogie tra la vita sociale e certi fatti (o supposti tali) del mondo fisico e biologico" tracciate dal "maggiore" Kropotkin, Malatesta contrapponeva una concezione fallibile e relativistica della conoscenza: "so benissimo che le prove sono cosa relativa e possono, e sono infatti, continuamente superate ed annullate da altri fatti provati; e quindi credo che il dubbio debba essere la posizione mentale di chiunque aspira ad avvicinarsi sempre più alla verità, o almeno a quel tanto di verità che è possibile raggiungere". Negli scritti e nei programmi di Malatesta questo fallibilismo epistemologico prendeva l'aspetto di un umanesimo volontaristico, in cui la libera decisione degli uomini diveniva un elemento maggiormente determinante (nella sua intrinseca indeterminatezza) delle forze della natura: "per noi", aveva già scritto nel 1920, "il fattore principale che determina il senso dell'evoluzione sociale è la volontà umana". Di conseguenza l'anarchia, lungi dal rivelarsi destino o fatalità storica, si configurava invece come il prodotto di scelte umane, ovvero come una costruzione culturale: "l'anarchia", dichiarava nel 1925, "è un'aspirazione umana, che non è fondata sopra nessuna vera o supposta necessità naturale, e che potrà realizzarsi e non realizzarsi secondo la volontà umana. [Essa] non può essere confusa, senza cadere nell'assurdo, né con la scienza, né con un qualsiasi sistema filosofico".
A partire da questa confutazione del "barocco" ottocentesco, Malatesta propose una concezione dell'anarchia quale "faro ideale che guidi i nostri passi", lume regolativo, "che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte che si allontana di tanto di quanto uno si avvicina verso di essa", distinguendola dall'anarchismo, "metodo di vita e di lotta", che finiva però per configurarsi, in quest'ottica volontaristica e relativistica, ideologia possibilista, antidogmatica e quasi antidottrinale: "forse è vero che una certa strettezza di idee, un certo dommatismo", notava nel 1926, "si possono annoverare tra le ragioni [...] che hanno impedito un più grande rapido sviluppo del nostro movimento". Dall'interno di quest'ultimo, e senza stancarsi di predicare incessantemente il verbo rivoluzionario, Malatesta ne ridisegnò quindi gli obiettivi sostituendo al dogmatismo positivista un possibilismo pluralista: "io credo che non vi sia "una soluzione" ai problemi sociali, ma mille soluzioni diverse e variabili, come è diversa e variabile, nel tempo e nello spazio, la vita sociale".
Al mito della rivoluzione violenta subentrò una concezione gradualista del cambiamento in senso anarchico; ben conscio dei pericoli delle "rivoluzioni" (come dimostravano bolscevismo e fascismo), Malatesta insistette su un'azione politica che puntasse a "realizzare quanto più di anarchia è possibile in mezzo a gente che non è anarchica". La stessa identica politica andava seguita nel caso del verificarsi dell'evento "rivoluzione", poiché esso non sarebbe certo stato una manifestazione dell'anarchia ma solo uno stadio possibile del progresso verso di essa. In quanto al comunismo, Malatesta continuò a definirsi sino alla fine della vita un anarco-comunista, intendendo con ciò solo ed esclusivamente l'espressione di una sua preferenza individuale. Anzi, sin dagli inizi degli anni Venti egli insistette sulla necessità di intendere l'anarchia come sistema di economia mista: "comunista anarchico", scriveva nel 1922, "volendo cioè che il comunismo sia il risultato naturale, e liberamente accettato, dei constatati vantaggi economici e dello sviluppo dello spirito di solidarietà, dovrei necessariamente rispettare la coesistenza di forme varie di organizzazione. Evidentemente, non vi sarebbe libertà quando non vi fosse possibilità di scelta". E nel 1929 sposava apertamente un pragmatismo sperimentalista e antidogmatico che scartava a priori l'ipotesi di una soluzione "comunista" universale e coartata:

In conclusione a me sembra che nessun sistema possa essere vitale e liberare realmente l'umanità dall'atavico servaggio, se non è il frutto di una libera evoluzione. Le società umane [...] debbono essere il risultato dei bisogni e delle volontà, concorrenti e contrastanti, di tutti i loro membri che, provando e riprovando, trovano le istituzioni che in un dato momento sono le migliori possibili e le sviluppano e cambiano a misura che cambiano le circostanze e le volontà. Si può dunque preferire il comunismo, o l'individualismo, o il collettivismo, o qualsiasi altro immaginabile sistema, e lavorare con la propaganda e l'esempio al trionfo delle proprie aspirazioni; ma bisogna guardarsi bene, sotto pena di un sicuro disastro, dal pretendere che il proprio sistema sia il sistema unico e infallibile, buono per tutti gli uomini e in tutti i tempi, e che si debba far trionfare altrimenti che con la persuasione che viene dall'evidenza dei fatti.

Orfano dell'aggancio alle ideologie positiviste, Malatesta trovò una base accettabile di questa versione postpositivista dell'anarchismo nel volontarismo etico, e in particolare nella "morale anarchica" esposta da Emile Armand. L'italiano negò che si trattasse di un'etica specificamente "individualista": era "anarchica in generale, anzi più che anarchica, morale largamente umana, perché fondata su quei sentimenti umani che rendono desiderabile e possibile l'anarchia". Armand aveva identificato il nucleo dell'aspirazione "morale e umana a un tempo [...] nell'individuo che nega l'autorità e il suo corollario economico [e] che tende alla realizzazione d'un tipo nuovo: l'uomo che non sente alcun bisogno di regolamentazione o costrizione esteriore, dappoiché egli possiede sufficiente potenza volitiva per determinare i suoi bisogni personali e per conservare la propria potenza di resistenza individuale". Malatesta, sempre pronto a denunciare la dottrina in nome del pragmatismo, precisò che anche questo tipo di morale rappresentava comunque solo un'"aspirazione" (stesso termine usato nella traduzione italiana di Armand), o, per meglio dire, un "ideale" regolativo.

I liberali del socialismo
L'intera opera dell'ultimo Malatesta (dalla fine della prima guerra mondiale in poi) era stata interamente costruita su un presupposto, che molti suoi compagni non intendevano né, forse, potevano accettare e che lo stesso Malatesta non esplicitò, se non in casi sporadici. Lo fece però, e ripetutamente, uno dei suoi più assidui seguaci: "noi siamo sprovvisti di coscienza politica", dichiarò Berneri già nel 1922 alludendo agli anarchici, "nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda". Occorreva un"nuovo abito mentale", un nuovo "anarchismo critico", che "senza essere scettico, non s'accontenti delle verità acquisite, delle formule sempliciste, un anarchismo idealista e insieme realista, un anarchismo, insomma, che innesti verità nuove al tronco dei suoi rami fondamentali, sapendo potare i suoi vecchi rami". Questi ultimi andavano identificati nel "pedante socialismo scientifico", nel "comunismo dottrinario chiuso nelle sue caselle aprioristiche" e in "tutte le altre ideologie cristallizzate". Negli anni successivi
Berneri approfondì sempre più la sua critica, che lui stesso non si peritava di definire apertamente revisionista ("ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi") e che lo condannò a un certo isolamento: "io sono un anarchico sui generis", scriveva a Libero Battistelli sul finire degli anni venti, "tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. [...] La generalità degli anarchici è atea e io sono agnostico, è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali").
Il fascismo, il bolscevismo e l'esperienza dell'esilio lo spinsero a un'analisi impietosa del dogmatismo imperante tra gli stessi suoi compagni. Egli individuò soprattutto in tre sfere la prevalenza di formule dottrinarie: dal punto di vista dell'analisi sociale l'anarchismo "era imprigionato nel dualismo proletariato-borghesia, mentre il proletariato tipico è minoranza ed è fiacco e disorientato, e vi sono vari ceti intermedi, ben più importanti e combattivi". Inoltre il "fatto economico" veniva sopravvalutato, conducendo l'anarchismo a presentarsi come "comunista a ogni costo". Infine, lo schematico rifiuto di entrare sul terreno concreto e immediato della politica e di misurarsi con le altre forze sul terreno delle opzioni pratiche e praticabili nell'immediato marginalizzava irrimediabilmente il movimento: "chiuso nell'intransigenza assoluta di fronte alla vita politica, l'anarchismo puro è fuori dal tempo e dallo spazio, ideologia categorica, religione e setta. Fuori dalla vita parlamentare, fuori da quella delle amministrazioni comunali e provinciali, non ha saputo e voluto condurre delle battaglie di dettaglio, suscitanti, volta a volta, consensi; non ha saputo agitare problemi interessanti grande parte dei cittadini". "La politica", concludeva, "è calcolo e creazione di forze realizzanti un'approssimazione della realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte a essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico".
Berneri si auspicava così un "anarchismo attualista", capace di "economizzare" le sue forze in un costante confronto con la realtà concreta. In questo faceva sua la prospettiva possibilista e fallibilista di Malatesta, situando l'anarchismo nel contesto tipicamente novecentesco della "società aperta".
Dissociandosi, come Malatesta, dallo "scientifismo libertario, residuo del determinismo materialista e del positivismo kropotkiniano", Berneri si rese conto che "nella nostra epoca lo spirito critico si è affilato e [...› la vita è complessa; per l'incrociarsi delle varie correnti ideologiche e il trasmutare di valori morali, per il poliedrico aspetto dei problemi di vita politica, economica, sociale". Occorreva una nuova spregiudicatezza, avversa alle vacche sacre. Adattando il linguaggio dell'hegelismo italiano alle suggestioni del liberalismo radicale alla Salvemini, Berneri dichiarò che "la base del concetto di libertà" - fondamento a sua volta dell'anarchismo - stava nella "relatività", condannando nel contempo tutte le definizioni asssolutistiche del termine e proponendo un approccio alla società in termini di sviluppo concreto di molteplici e differenti libertà. La sua riflessione si orientò - con maggiore decisione intellettuale rispetto a Malatesta - nel risituamento dell'anarchismo nel campo del radicalismo liberale (ovvero nella tradizione più "antiistituzionale" del pensiero e della civiltà liberale). Non soprendentemente, tra i suoi interlocutori più significativi troviamo Gobetti e Rosselli, cui Berneri propose - in tempi diversi ma con identica elaborazione - di considerare l'anarchismo come l'ala liberale del socialismo: gli anarchici, scrisse a Gobetti, sono in effetti "i liberali del socialismo".
Fatta piazza pulita di ogni illusione comunista-bolscevica, Berneri auspicò quindi una "rivoluzione italiana", basata su "un indirizzo autonomista in politica e socialista-liberista in economia" e rinvigorita dall'esercizio costante e irrinunciabile dello spirito critico e antidottrinario. "L'anarchia è la filosofia della tolleranza", scrisse usando uno dei concetti chiave del liberalismo, e alludendo, in questo più vicino a Karl Popper che a John Locke, non tanto a un preciso meccanismo istituzionale quanto piuttosto a un modello sociale complessivo che valorizzava in senso epistemologico la differenza e il pluralismo:

Così la nostra concezione di assoluta libertà di stampa, di parola, d'insegnamento è basata sulla convinzione che non siano dannose varie e contrastanti correnti di pensiero, quando queste si correggano reciprocamente nel libero gioco della loro concorrenza. Anche nel campo economico, la nostra tolleranza si afferma, riguardo all'artigianato di fronte alla grande industria, alla piccola proprietà rurale di fronte all'agricoltura collettiva. Noi siamo i liberisti del socialismo appunto per questa fiducia nella possibilità di fusione degli estremi, di soluzione armonica degli opposti. E per il senso dinamico della vita, che alla rigida uniformità ci fa preferire l'infinita varietà e negli uomini e nelle cose.

Come aveva fatto Malatesta, Berneri sostituì al determinismo e al materialismo ottocentesco un volontarismo storico-sociale e un umanesimo etico che investivano i presupposti stessi dell'attività degli anarchici. L'anarchia "diverrà se la vorremo, [...] se la costruiremo in noi e negli altri giorno per giorno con la propaganda e con l'azione": si trattava in primo luogo di uno stile di vita e di una preferenza etica. E se anche l'anarchismo si era sviluppato come "corrente socialista e movimento proletario", al suo interno l'umanesimo si era affermato "come preoccupazione individualista di garantire lo sviluppo della personalità e come comprensione, nel sogno di emancipazione sociale, di tutte le classi, di tutti i ceti, ossia di tutta l'umanità".
Anche nel caso di Berneri il progetto veniva infine ripiegato in un'ethos, le cui caratteristiche erano presentate come il fondamento non solo del peculiare programma anarchico ottocentesco, ma di qualsiasi programma anarchico futuro. L'azione intellettuale di Malatesta e Berneri può esser letta come un tentativo di scrostare dall'ethos dell'anarchia il dottrinarismo e il dogmatismo prodotto dai miti razionalisti e illuministi del secolo precedente, lasciando a nudo un nucleo fondativo riassunto nell'idea di un'autonomia individuale che si dispiega in una pluralità di forme di vita e di sperimentazioni più diverse. Sia Berneri sia Malatesta tentarono - non sistematicamente, e più il primo che il secondo - di reinterpretare la storia stessa dell'anarchismo valorizzando in primo luogo questo ethos, presentando cioé i "maggiori" e i "maestri" in una chiave eterodossa (per lo meno secondo gli standard abituali): si veda per esempio il curioso e immaginativo tentativo di Berneri di far passare Bakunin per un simpatizzante del "liberalismo nord americano" e per un coerente nemico del comunismo.
La "revisione" dei due italiani si fondava quindi su una concettualizzazione dell'anarchismo come lente etico-politica del mondo, come modello di interpretazione della società e della storia, in cui gli elementi che componevano il tessuto stesso della realtà venivano letti e giudicati attraverso il principio dell'autodeterminazione del singolo, del federalismo libertario e del pluralismo delle forme di vita. Nel contempo il "progetto", eliminate le sclerotizzazioni del classicismo ottocentesco positivista, materialista e comunista, assumeva contorni possibilisti e pragmatici, riflettendo non più specifiche dottrine sociali e politiche ma piuttosto una marcata consapevolezza fallibilista della complessità del reale. Prendendo a prestito una locuzione di Nico Berti, potremmo dire che l'ethos dell'anarchia era "contro la storia", mentre il progetto si poneva con decisione "dentro la storia".

La Riforma, l'individuo, l'anarchia
Se adottiamo questo punto di vista, risulta evidente che l'ethos cui facevano riferimento Berneri e Malatesta si era dispiegato nell'immaginario occidentale in modo complesso, non limitandosi semplicemente a plasmare il progetto classico, ma modellando anche esperienze storiche e intellettuali precedenti e contemporanee. Come ho cercato di dimostrare, esso si focalizzava sul principio dell'autonomia e dell'autodeterminazione dell'individuo. Andando alla ricerca delle radici storiche di queste categorie, ne troviamo la matrice forse più convincente nel radicalismo protestante, ovvero in quegli interpreti, quegli stili di pensiero, quelle tradizioni culturali che, a partire da una peculiare versione delle dottrine teologiche di Lutero e degli altri classici della Riforma, costruirono un immaginario fondato sull'idea che l'individuo, in quanto individuo (e non in quanto cittadino, proprietario, capofamiglia), godesse di uno spazio privato, al di fuori della competenza di chicchessia, in cui usare liberamente ragione e passioni.
Lutero era tutt'altro che un libertario; e tuttavia, nella sua lotta contro il potere della chiesa di Roma, creò immaginativamente l'idea di un singolo completamente autonomo, sganciato da qualsivoglia obbligazione nei confronti di chiesa, stato, società, famiglia, e così via, che trovava realizzazione e ragion d'essere in un rapporto peculiare con la divinità. Il monaco benedettino dichiarò che il singolo aveva obblighi solo nei confronti delle Scritture: e nell'ottica ermeneutica protestante ciò corrispondeva a innalzare la coscienza a giudice ultimo delle cose umane. Lutero riprese la concezione agostiniana della salvezza, usando però un linguaggio che traslava il disprezzo ontologico di Agostino per il mondo in un disprezzo per le relazioni temporali d'autorità e di gerarchia. Nella Libertà del cristiano scrisse che

un cristiano non ha bisogno di opere che lo giustifichino; e se non ha bisogno di alcuna opera, egli è certamente sciolto da tutti i comandamenti e leggi. E se è sciolto, è certamente libero. Questa è la libertà cristiana, la sola fede, la quale non fa che stiamo in ozio o facciamo il male; ma che non abbiamo bisogno di nessuna opera per ottenere pietà e beatitudine.

In questa costruzione lessicale l'idea di libertà corrisponde allo scioglimento del singolo dagli obblighi tradizionali, ovvero alla sua autonomizzazione. Non che fosse questo lo scopo di Lutero, che ben presto si mise a perseguitare tutti coloro che da queste sue elaborazioni, e da quelle del tutto simili dei suoi seguaci in campo riformato, traevano la giustificazione di comportamenti trasgressivi, disobbedienti ed eterodossi. All'alba della modernità la teologia era un linguaggio universale, uno dei principali strumenti di legittimazione della pratica e della teoria nelle differenti sfere dell'azione umana. Libertini, anabattisti e spiritualisti vari si impadronirono della retorica della liberazione dei riformati, imponendo slittamenti semantici e traslazioni di senso che portarono le implicazioni individualiste e antiautoritarie della dottrina della salvezza della Riforma negli ambiti del sociale e del politico.
È in questa peculiare concezione dell'autonomia che ritroviamo almeno una delle matrici più significative dell'ethos anarchico, quel porsi di fronte al mondo delle relazioni sociali terrene in chiave di critica del dominio e della gerarchia, in quanto princìpi che mettono in discussione la sovranità del singolo. I germi del protestantesimo più radicale penetrarono nella cultura europea moderna anche nella forma complessa di ideologie libertarie e antiautoritarie: i percorsi che mi sembrano più rilevanti, agli effetti della specifica articolazione dell'ethos anarchico, sono quelli dell'antinomianesimo - attraverso il quale passarono le istanze di autonomia e autodeterminazione individuale più estremiste - e quello della tolleranza fallibilista - attraverso il quale si sviluppò l'ideale della libera sperimentazione. (*)
Gli antinomiani ritenevano che la sfera d'autonomia del singolo fosse tanto ampia da permettere al cristiano in stato di grazia di non obbedire alla legge morale, ovvero ai dieci comandamenti. Ciò si configurava soprattutto come una giustificazione della trasgressione nella sfera propriamente etica, che però tracimava prontamente in quella sociale (famiglia, sesso, matrimonio, lavoro, ecc.) e in quella delle obbligazioni politiche. Alla coscienza del singolo veniva delegata la possibilità di decidere della natura del bene e del male, indipendentemente dai valori sociali condivisi o dalle decisioni di qualsivoglia autorità positiva (la chiesa, lo stato, il partito, ecc.). I ranter, i più noti rappresentanti della tendenza, all'epoca della Rivoluzione inglese trasformarono la dottrina in uno strumento di critica della ragion d'essere delle autorità temporali. Essi si pronunciarono esplicitamente contro l'organizzazione gerarchica, le norme sessuali, la logica patriarcale e l'etica del lavoro, smascherando e attaccando i presupposti autoritari su cui si reggeva la società. I loro argomenti positivi sottolineavano invece gli aspetti legati alla "naturalità" più conviviale e liberatoria: una libera sessualità condita da danze e alcool, uno spirito egualitario e comunitario, una concezione quasi ludica della vita associata. Diffondendosi nella cultura settecentesca e ottocentesca, spesso per vie marginali ed eccentriche, questi temi persero gran parte della loro strutturazione religiosa, prendendo spesso la forma di una nuova enfasi sull'autonomia morale del singolo e il rispetto per le "leggi di natura".
In quanto alla tolleranza, il soggetto è tutt'altro che irrilevante. Si tratta infatti del principale focus intellettuale per mezzo del quale si è discusso in Occidente di argomenti centrali per la cultura libertaria: la misura ammissibile del dissenso individuale, la determinazione dello spazio della sperimentazione sociale di singoli e gruppi, la natura del potere che le istituzioni positive e non - si tratti dello stato o della comunità - possono esercitare sulle coscienze. I suoi apologeti più radicali concepivano la libertà religiosa come il prodromo di una complessiva liberazione del pensiero, in vista di un ampliamento degli ambiti della sperimentazione individuale e collettiva nella sfera dell'economia e della politica, del sesso e della famiglia - una tradizione di pensiero che va da Jacopo Aconcio, uno dei difensori di Michele Serveto, sino a Denis Diderot, Thomas Paine e Thomas Jefferson.
Nel suo Statagemata Satanae (1564) Aconcio sostenne che, sebbene l'intelletto umano non potesse giungere alla comprensione delle verità finali e ultraterrene, la ragione, pur essendo fallibile, era in grado, se non di ascendere alle vette ultime, per lo meno di avanzare costantemente verso la conoscenza, in modo graduale e infinito. Le controversie, i dibattiti e i confronti avrebbero quindi contribuito - sia se l'idea in discussione si fosse rivelata vera, sia se si fosse rivelata falsa - alla crescita della conoscenza. Le conclusioni implicavano un quasi incondizionato elogio della libera sperimentazione: poiché nessuno poteva aspirare al possesso della verità assoluta, era impensabile l'imposizione di qualsivoglia ortodossia; ogni idea e ogni pratica dovevano di fatto esser messe alla prova e sottoposte al libero gioco dell'esame razionale.
Queste implicazioni fornirono in alcuni casi un quadro concettuale in cui organizzare teorie etiche e politiche, ecclesiologiche e storiche. Nel mondo di lingua inglese i separatisti, i libertini e tutto il variopinto mondo del dissenso religioso ne fornirono con verve le più differenti interpretazioni (sia pure in un quadro generale improntato dai valori di continuità, tradizione e gerarchia). I teorici della supremazia congregazionale riconobbero ai singoli il diritto a esercitare liberamente la propria ragione, mettendo radicalmente in discussione il principio d'autorità; poi si pronunciarono per la gestione collegiale degli affari della congregazione, infine conclusero che i ministri del culto non erano necessari, scegliendo una specie di "autogestione". Spinti dalla necessità di giustificare il proprio dissenso, trasformarono l'apologia della tolleranza in una difesa della differenza, adottando una prospettiva in cui si valutavano con positività le innovazioni e le novità, prodromo appunto della crescita della conoscenza. Le ragioni del pluralismo divenivano così uno strumento per la giustificazione di soluzioni autonomiste e decentraliste, che non di rado si allargavano dall'ecclesiologia al sociale e al politico. Parte dell'eredità di questa cultura, pur percorrendo sentieri marginali e occulti, venne immagazzinata nelle speculazioni degli eccentrici e degli estremisti (personaggi come Jean Meslier o William Blake), costituendo un'immaginario che doveva riemergere in grande stile dopo la Rivoluzione francese e trasmigrare poi nel pensiero propriamente anarchico.

L'anarchismo tra ethos e progetto
La "revisione" di Malatesta e Berneri, fondata sulla contrapposizione tra ethos e progetto, si pone quindi come un momento di recupero delle valenze più propriamente etico-epistemologiche dell'anarchismo, le cui matrici, lungi dall'ancorarsi al progetto classico, risalgono invece allo sviluppo più ampio di uno spirito libertario nella modernità (pur senza dimenticare che furono però gli esponenti del classicismo anarchico a precisare compiutamente i modi in cui questo spirito si era articolato nella realtà sociale, nelle istituzioni, nelle interrelazioni tra gli uomini).
Tuttavia, nonostante la riflessione dei due italiani e dei loro seguaci abbia indicato strade e percorsi non solo suggestivi ma anche rilevanti dal punto di vista dell'impostazione dell'azione politica, essa si è per molti versi rivelata un binario morto. É vero che buona parte dei pensatori anarchici contemporanei che ho citato nel primo paragrafo si muovono ormai in una sfera postclassica; d'altro canto, questo recupero in grande stile dell'eredità revisionista è stato il frutto di una profonda crisi storica dell'anarchismo, culminata proprio nelle illusioni sessantottine e nei fallimenti degli anni successivi che non può certamente dirsi compiuta. Come abbiamo visto, Malatesta e Berneri avevano ripensato la loro esperienza politica in seguito all'esaurimento della spinta propulsiva dell'anarchismo e alla sua progressiva emarginazione come opzione praticabile. La sconfitta in Spagna nel 1936 contribuì a spazzar via le illusioni, le speranze e forse anche le prospettive utopiche di una generazione. Di conseguenza il dopoguerra è stato contrassegnato dalla scomparsa dell'anarchismo come presenza di massa, consegnando i militanti a un periodo di stagnazione intellettuale, di crisi generazionale e di sostanziale subordinazione alle parole d'ordine della "sinistra". Forse l'aspetto più importante di questo allineamento alla retorica del socialcomunismo negli anni della guerra fredda è stata l'incapacità di sviluppare e ampliare le indicazioni di Malatesta e Berneri, che puntavano al risituamento dell'anarchismo nella sfera della civiltà liberalradicale, della società aperta e del pluralismo delle forme di vita: ovvero in una sfera di valori e proposte che erano anatema agli occhi dei fautori del socialismo di stato, del comunismo coartato, dello schiacciamento programmatico del dissenso e degli altri elementi del totalitarismo marxista e dei suoi derivati.
In altri termini, il movimento anarchico è arrivato al '68 con un'armamentario teorico e una strumentazione concettuale palesemente inadeguati. I giovani si sono appropriati delle parole d'ordine dell'ethos dell'anarchia, ponendo l'enfasi sulla necessità dell'autonomizzazione, sulla critica della gerarchia e del dominio, sulla valorizzazione della sperimentazione e del pluralismo culturale. Nel contempo, l'anarchismo offriva loro una progettualità desueta, palesemente in sudditanza rispetto alle tendenze dominanti comunisto-rivoluzionarie. La "via anarchica" propriamente intesa non si rivelava abbastanza caratterizzata, o abbastanza diversa. L'orizzonte utopico e l'ethos anarchico hanno continuato a esercitare fascino e influenza, ma il "progetto", ancorato ai "mugiki russi" da un lato e all'ortodossia socialista dall'altro, si è dimostrato irrimediabilmente obsoleto.

*Questo saggio è una versione ridotta della relazione che ho tenuto al Convegno internazionale di studi sulla cultura libertaria (Grenoble, marzo 1996). In essa si esponevano con maggiore ampiezza le caratteristiche e la strutturazione intellettuale delle idee centrali di questi due "percorsi". Si vedano tuttavia i miei Il dio dei blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese, Unicopli, Milano 1993, dedicato allo sviluppo dei temi antinomiani, e Fallibilismo e tolleranza nella Rivoluzione inglese. Separatisti, battisti e indipendenti 1640-1649, di imminente pubblicazione presso Franco Angeli, in cui sono approfonditi i rapporti tra la tolleranza, il fallibilismo e la libera sperimentazione.