Rivista Anarchica Online
Anarchismo tra ethos e progetto
di Pietro Adamo
A partire dalle riflessioni dell'ultimo Malatesta e di Camillo Berneri, Pietro Adamo affronta il nodo delle relazioni
tra progetto politico e tensione etica nell'anarchismo
La bandiera nera sventola ancora Quando nel maggio 1968 le bandiere nere
hanno fatto una timida ricomparsa alla testa dei cortei parigini, non
sono stati in pochi, compresi buona parte dei membri del movimento anarchico, a meravigliarsene. L'anarchismo
era divenuto elegia e ricordo nostalgico, per alcuni un modello di incontaminata schiettezza rivoluzionaria,
lontano però dalle necessità del confronto con la società tardocapitalista: certamente
puro, e perciò stesso
desueto. La sollevazione rivoluzionaria spagnola si colorava di alone mitico: nei primi anni
Sessanta George
Woodcok scrisse la sua storia dell'anarchismo componendo, come egli stesso si è espresso un paio di
decenni
dopo, un "canto funebre". Dopo il '68 l'anarchismo ha riacquistato visibilità e pregnanza, sia pure
in modi e contesti differenti dal passato:
nelle discussioni degli accademici e dei rappresentanti del pensiero "speculativo" da un lato, e nelle
sperimentazioni delle frange movimentiste dell'underground dall'altro. Potrei citare una serie di titoli e di autori
influenti, noti e ampiamente discussi: da Daniel Cohn-Bendit a Paul Feyerabend, da Robert Nozick a Robert Paul
Woolf, da Murray Bookchin a Hakim Bey. Oppure potrei citare migliaia di esempi di comuni, collettivi, centri
sociali, scuole autogestite, e così via: un suggestivo cosmo di microsperimentazioni. Nel contempo,
l'anarchismo
non ha certamente riacquistato le posizioni perdute, sia come progetto pratico di modellamento della
società sia
come presenza forte nell'immaginario d'Occidente. L'esplosione sessantottina è stata
contemporaneamente il
culmine di una lunga crisi e il segnale di un nuovo inizio. E per certi versi questo trauma si è presentato
anche
nella forma del passaggio tra un anarchismo fondato sul progetto a un anarchismo fondato
sull'ethos (una griglia
esistenziale ed intellettuale con cui si guarda al mondo). Nelle pagine che seguono cercherò di illustrare
il
significato di questi due termini e il modo in cui essi si rapportano all'interno dell'anarchismo stesso.
Libertari del ventesimo secolo Nel 1935 Carlo Rosselli suggerì
a Camillo Berneri che, per divenire "libertari del ventesimo secolo", era
necessario rendersi conto che "le forme e le formule che si addicevano agli artigiani del Giura o ai mugiki della
Russia o ai braccianti del beneventano" non erano adeguati alla società industriale che si andava
costruendo. Le
critiche di Rosselli non erano particolarmente centrate (soprattutto se rivolte al "revisionista" Berneri), ma per
certi versi restano significative. Di fatto, l'obiettivo polemico dei giellisti libertari era il complesso della
specifica progettualità anarchica nella sfera del mutamento politico, così come aveva preso
forma nella seconda
metà del secolo diciannovesimo: la necessità della rigenerazione sociale attraverso la rivoluzione;
l'esclusione
di ogni ipotesi gradualista; la soluzione comunista; il ruolo privilegiato dei ceti operai e contadini, e così
via. Pur senza semplificare all'eccesso, e senza dimenticare le differenze quasi fisiologiche all'interno del
movimento,
all'epoca di Rosselli la maggior parte dei militanti, in Europa e in America, era sostanzialmente ancorata a questo
modello progettuale, legato al contesto del pieno sviluppo della rivoluzione industriale, ovvero allo sfruttamento
programmato su una scala mai esperita in precedenza e alla conseguente intensificazione dello scontro sociale.
Nel 1908 Luigi Galleani ne aveva dato una formulazione paradigmatica, all'interno della contrapposizione tra
"socialismo collettivista" e "comunismo anarchico": "così alla nuda resistenza passiva e civile
raccomandata con
tanto fervore dai socialisti, gli anarchici preferiscono il boicottaggio, il sabotaggio, e, per le necessità
stesse della
lotta, i tentativi di espropriazione immediata e parziale, le rivolte individuali ed insurrezionali che raccolgono
tanto orrore di anatemi socialisti, ma che esercitando sulla massa la più spregiudicata delle suggestioni,
si
risolvono in un vantaggio morale di altissimo valore". Il "progetto" anarchico di ricostruzione della
società, che passasse per l'affermazione sociale della Ragione
(Godwin), per la costruzione dell'autogestione operaia (Proudhon), per la rivoluzione comunista (Bakunin) o
per il dispiegamento razionale della spontaneità autoorganizzativa (Kropotkin), si presentava comunque
come
il risultato di un'analisi culturale e sociale in chiave illuminista, materialista e positivista, fondata sulla certezza
di poter decodificare le leggi costitutive del complesso sociale e di poter realizzare nella storia una verità
al tempo
stesso ideale e reale. Storicamente questo progetto si è sviluppato nei pensatori appartenenti al periodo
"classico"
dell'anarchismo, compreso tra i decenni centrali dell'Ottocento e l'inizio del secolo successivo. "La gran
disgrazia è che un'enorme quantità di leggi naturali", si lamentava Bakunin, "già
constatate come tali dalla
scienza, rimangono sconosciute alle masse popolari, grazie alla cura dei governi". Lysander Spooner apriva il
suo trattato teoricamente più rilevante affermando illuministicamente l'esistenza di una "scienza della
giustizia"
fondata sulla ragione e relativa a ogni aspetto della vita umana: "solo questa scienza può dire all'uomo
cosa può
e cosa non può fare; cosa può e cosa non può avere; cosa può e cosa non
può dire senza violare i diritti degli
altri". E il geografo Kropotkin riassunse in modo emblematico l'approccio tardopositivista all'anarchismo:
L'Anarchia è una concezione dell'universo, basata sull'interpretazione meccanica dei fenomeni,
che abbraccia
tutta la natura, non esclusa la vita della società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e
secondo questo
metodo ogni conclusione scientifica dev'essere verificata. La sua tendenza è di fondare una filosofia
sintetica,
che si estende a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici,
politici e morali.
Non è quindi soprendente che gli autori del "progetto" guardassero ai gruppi libertari e anarchici sia
come
portatori della verità sociale sia come l'esplicazione storica della verità stessa. Il
processo rivoluzionario veniva
a configurarsi come la manifestazione nella storia e nella società di una particolare verità
scientifica, che avrebbe
anche avuto, per la sua qualità di assolutezza, la funzione di porre fine alla storia stessa. L'anarchia - la
società
pienamente anarchica - diveniva un traguardo realizzabile concretamente, più o meno nell'immediato.
L'azione
politica, nel senso in cui la riassumeva Galleani, si calava nel contesto sociale del tardo Ottocento e nel
contempo, in virtù della sua consequenzialità da un'interpretazione "scientifica" della
società, si universalizzava
e si trasformava in una specie di norma sempiterna. Questa strutturazione positivistica e quasi "scientista"
del pensiero e dell'azione degli anarchici andò incontro
a una crisi epocale nei primi decenni del Novecento, quando le mutazioni delle società occidentali
misero
seriamente in discussione i presupposti di questo "progetto". L'ascesa dei totalitarismi, il riassorbimento delle
spinte ribellistiche della classe operaia a opera delle élite e dei gruppi riformisti, la scomparsa del mondo
contadino e l'avvento della tecnocrazia vibrarono un duro colpo ai fondamenti - l'orizzonte rivoluzionario, la
centralità delle classi operaie, ecc. - su cui i pensatori "classici" avevano eretto il loro edificio. In questo
periodo
di crisi prese forma una rilettura dell'anarchismo che prescindeva dal modello ottocentesco e che, anzi, proprio
sul sostanziale rifiuto di questo modello costruiva una prospettiva nuova, una visione imperniata non sul
progetto anarchico, ma piuttosto su un più ampio ethos dell'anarchia. I
più interessanti espositori di questa
"revisione" furono due italiani, Errico Malatesta e Camillo Berneri.
Anarchismo barocco Il progetto classico era fondato su una serie di analisi e
di interpretazioni profondamente critiche, e insieme
percettive, dei princìpi che modellavano la vita sociale nel suo complesso: il ruolo coartante delle
istituzioni
positive, il soffocamento dell'individualità, l'organizzazione gerarchica delle interrelazioni sociali, e
così via.
Questa strumentazione teorica - in primo luogo una pars destruens ("parte distruttiva") - era
profondamente
radicata in un'ethos, in una griglia interpretativa di grande spessore e respiro, in una lettura
complessiva della
società occidentale in chiave di critica alla gerarchia e al dominio. Questo ethos non
dipendeva tuttavia
dall'analisi sociale e "scientifica" della realtà: ne era invece il presupposto e si fondava, in ultima analisi,
su un
preciso sistema di valori e di preferenze etiche. Le articolazioni della critica allo stato e alla religione in Bakunin,
della rivalutazione della comunità in Kropotkin, del potenziamento dell'associazionismo operaio in
Proudhon,
dello svelamento dell'inganno democratico in Spooner, della disamina dei pericoli del socialismo di stato in
Tucker, tanto per citare i maggiori, sono incomprensibili se non alla luce della pervicace insistenza sulla
salvaguardia del singolo, inteso come nucleo primario della potenzialità umana e riferimento privilegiato
dell'aspirazione alla libertà (senza aggettivi). In un certo senso toccò a Malatesta e Berneri
scoprire, in un momento storico estremamente critico per il
movimento anarchico, un contrasto radicale tra ethos e progetto. I due non erano guidati da
preoccupazioni
identiche, sebbene entrambi mirassero a ricostruire nuove linee d'azione politica per gli anarchici; non a caso
entrambi cominciarono a dar forma a istanze postclassiche a partire dagli anni Venti, mentre in Italia si affermava
il fascismo, sconvolgendo ogni piano di rivoluzione elaborato dalla sinistra. Malatesta giunse a concettualizzare
l'esistenza di questo contrasto in termini di aporia a partire dal dibattito interno nei gruppi libertari, finendo poi
per trarne conclusioni anche nell'analisi della natura del movimento libertario. Berneri compì forse il
tragitto
inverso, probabilmente ispirandosi all'impostazione del problema data da Malatesta stesso: per lui il dato
essenziale era la marginalizzazione dell'anarchismo come opzione politica, una situazione da cui era possibile
uscire solo con una "revisione" del rapporto tra ethos e progetto. Come è noto, il
percorso di Malatesta cominciò nel solco bakuninista. Nel 1922, in polemica con Enzo Martucci,
il quale aveva ricordato il discorso da lui pronunciato nel 1876 a Berna, nel corso dell'ottavo congresso
dell'Internazionale ("non esiste un patto sociale, ma una legge sociale"), Malatesta dichiarò di essersi
presto
sottratto "all'influenza dei sociologhi organicisti e dei pregiudizi scientificisti". Qualche mese prima aveva
già
precisato il suo giudizio sullo "scientificismo [...] prevalente nella seconda metà del secolo decimonono",
smascherandone l'impostazione ideologica: all'epoca si era prodotta una
tendenza a considerare come verità scientifiche, cioè leggi naturali, e quindi necessarie
e fatali, quello che non
era che il concetto, corrispondente ai diversi interessi ed alle diverse aspirazioni, che ciascuno si faceva della
giustizia, del progresso, ecc., da cui nacquero il "socialismo scientifico" e l'"anarchismo scientifico", che,
quantunque professati dai nostri maggiori, a me sono sempre sembrate concezioni barocche, confondenti insieme
cose e concetti per natura loro distinti.
A questa concezione "barocca" dell'anarchismo, in cui rientravano le "oscure e contestabili analogie tra la
vita
sociale e certi fatti (o supposti tali) del mondo fisico e biologico" tracciate dal "maggiore" Kropotkin, Malatesta
contrapponeva una concezione fallibile e relativistica della conoscenza: "so benissimo che le prove sono cosa
relativa e possono, e sono infatti, continuamente superate ed annullate da altri fatti provati; e quindi credo che
il dubbio debba essere la posizione mentale di chiunque aspira ad avvicinarsi sempre più alla
verità, o almeno
a quel tanto di verità che è possibile raggiungere". Negli scritti e nei programmi di Malatesta
questo fallibilismo
epistemologico prendeva l'aspetto di un umanesimo volontaristico, in cui la libera decisione degli uomini
diveniva un elemento maggiormente determinante (nella sua intrinseca indeterminatezza) delle forze della
natura: "per noi", aveva già scritto nel 1920, "il fattore principale che determina il senso dell'evoluzione
sociale
è la volontà umana". Di conseguenza l'anarchia, lungi dal rivelarsi destino o fatalità
storica, si configurava
invece come il prodotto di scelte umane, ovvero come una costruzione culturale: "l'anarchia", dichiarava nel
1925, "è un'aspirazione umana, che non è fondata sopra nessuna vera o supposta
necessità naturale, e che potrà
realizzarsi e non realizzarsi secondo la volontà umana. [Essa] non può essere confusa, senza
cadere nell'assurdo,
né con la scienza, né con un qualsiasi sistema filosofico". A partire da questa confutazione
del "barocco" ottocentesco, Malatesta propose una concezione dell'anarchia
quale "faro ideale che guidi i nostri passi", lume regolativo, "che potrebbe anche non realizzarsi mai, così
come
non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte che si allontana di tanto di quanto uno si avvicina verso di essa",
distinguendola dall'anarchismo, "metodo di vita e di lotta", che finiva però per configurarsi, in
quest'ottica
volontaristica e relativistica, ideologia possibilista, antidogmatica e quasi antidottrinale: "forse
è vero che una
certa strettezza di idee, un certo dommatismo", notava nel 1926, "si possono annoverare tra le ragioni [...] che
hanno impedito un più grande rapido sviluppo del nostro movimento". Dall'interno di quest'ultimo, e
senza
stancarsi di predicare incessantemente il verbo rivoluzionario, Malatesta ne ridisegnò quindi gli obiettivi
sostituendo al dogmatismo positivista un possibilismo pluralista: "io credo che non vi sia "una soluzione" ai
problemi sociali, ma mille soluzioni diverse e variabili, come è diversa e variabile, nel tempo e nello
spazio, la
vita sociale". Al mito della rivoluzione violenta subentrò una concezione gradualista del
cambiamento in senso anarchico; ben
conscio dei pericoli delle "rivoluzioni" (come dimostravano bolscevismo e fascismo), Malatesta insistette su
un'azione politica che puntasse a "realizzare quanto più di anarchia è possibile in mezzo a gente
che non è
anarchica". La stessa identica politica andava seguita nel caso del verificarsi dell'evento "rivoluzione",
poiché
esso non sarebbe certo stato una manifestazione dell'anarchia ma solo uno stadio possibile del progresso verso
di essa. In quanto al comunismo, Malatesta continuò a definirsi sino alla fine della vita un
anarco-comunista,
intendendo con ciò solo ed esclusivamente l'espressione di una sua preferenza
individuale. Anzi, sin dagli inizi
degli anni Venti egli insistette sulla necessità di intendere l'anarchia come sistema di economia mista:
"comunista
anarchico", scriveva nel 1922, "volendo cioè che il comunismo sia il risultato naturale, e liberamente
accettato,
dei constatati vantaggi economici e dello sviluppo dello spirito di solidarietà, dovrei necessariamente
rispettare
la coesistenza di forme varie di organizzazione. Evidentemente, non vi sarebbe libertà quando non vi
fosse
possibilità di scelta". E nel 1929 sposava apertamente un pragmatismo sperimentalista e antidogmatico
che
scartava a priori l'ipotesi di una soluzione "comunista" universale e coartata:
In conclusione a me sembra che nessun sistema possa essere vitale e liberare realmente
l'umanità dall'atavico
servaggio, se non è il frutto di una libera evoluzione. Le società umane [...] debbono essere il
risultato dei
bisogni e delle volontà, concorrenti e contrastanti, di tutti i loro membri che, provando e riprovando,
trovano
le istituzioni che in un dato momento sono le migliori possibili e le sviluppano e cambiano a misura che
cambiano le circostanze e le volontà. Si può dunque preferire il comunismo, o l'individualismo,
o il
collettivismo, o qualsiasi altro immaginabile sistema, e lavorare con la propaganda e l'esempio al trionfo delle
proprie aspirazioni; ma bisogna guardarsi bene, sotto pena di un sicuro disastro, dal pretendere che il proprio
sistema sia il sistema unico e infallibile, buono per tutti gli uomini e in tutti i tempi, e che si debba far trionfare
altrimenti che con la persuasione che viene dall'evidenza dei fatti.
Orfano dell'aggancio alle ideologie positiviste, Malatesta trovò una base accettabile di questa
versione
postpositivista dell'anarchismo nel volontarismo etico, e in particolare nella "morale anarchica" esposta da Emile
Armand. L'italiano negò che si trattasse di un'etica specificamente "individualista": era "anarchica in
generale,
anzi più che anarchica, morale largamente umana, perché fondata su quei sentimenti umani che
rendono
desiderabile e possibile l'anarchia". Armand aveva identificato il nucleo dell'aspirazione "morale e umana a un
tempo [...] nell'individuo che nega l'autorità e il suo corollario economico [e] che tende alla realizzazione
d'un
tipo nuovo: l'uomo che non sente alcun bisogno di regolamentazione o costrizione esteriore, dappoiché
egli
possiede sufficiente potenza volitiva per determinare i suoi bisogni personali e per conservare la propria potenza
di resistenza individuale". Malatesta, sempre pronto a denunciare la dottrina in nome del pragmatismo,
precisò
che anche questo tipo di morale rappresentava comunque solo un'"aspirazione" (stesso termine usato nella
traduzione italiana di Armand), o, per meglio dire, un "ideale" regolativo.
I liberali del socialismo L'intera opera dell'ultimo Malatesta (dalla fine della
prima guerra mondiale in poi) era stata interamente costruita
su un presupposto, che molti suoi compagni non intendevano né, forse, potevano accettare e che lo stesso
Malatesta non esplicitò, se non in casi sporadici. Lo fece però, e ripetutamente, uno dei suoi
più assidui seguaci:
"noi siamo sprovvisti di coscienza politica", dichiarò Berneri già nel 1922 alludendo agli
anarchici, "nel senso
che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra
letteratura di propaganda". Occorreva un"nuovo abito mentale", un nuovo "anarchismo critico", che "senza essere
scettico, non s'accontenti delle verità acquisite, delle formule sempliciste, un anarchismo idealista e
insieme
realista, un anarchismo, insomma, che innesti verità nuove al tronco dei suoi rami fondamentali, sapendo
potare
i suoi vecchi rami". Questi ultimi andavano identificati nel "pedante socialismo scientifico", nel "comunismo
dottrinario chiuso nelle sue caselle aprioristiche" e in "tutte le altre ideologie cristallizzate". Negli anni
successivi Berneri approfondì sempre più la sua critica, che lui stesso non si peritava di
definire apertamente revisionista
("ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi") e che lo condannò a un certo
isolamento: "io sono
un anarchico sui generis", scriveva a Libero Battistelli sul finire degli anni venti, "tollerato dai
compagni per
la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. [...] La generalità degli anarchici è atea
e io sono agnostico,
è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio
cooperativi e lavoro
e commercio individuali"). Il fascismo, il bolscevismo e l'esperienza dell'esilio lo spinsero a un'analisi
impietosa del dogmatismo imperante
tra gli stessi suoi compagni. Egli individuò soprattutto in tre sfere la prevalenza di formule dottrinarie:
dal punto
di vista dell'analisi sociale l'anarchismo "era imprigionato nel dualismo proletariato-borghesia, mentre il
proletariato tipico è minoranza ed è fiacco e disorientato, e vi sono vari ceti intermedi, ben
più importanti e
combattivi". Inoltre il "fatto economico" veniva sopravvalutato, conducendo l'anarchismo a presentarsi come
"comunista a ogni costo". Infine, lo schematico rifiuto di entrare sul terreno concreto e immediato della politica
e di misurarsi con le altre forze sul terreno delle opzioni pratiche e praticabili nell'immediato marginalizzava
irrimediabilmente il movimento: "chiuso nell'intransigenza assoluta di fronte alla vita politica, l'anarchismo
puro è fuori dal tempo e dallo spazio, ideologia categorica, religione e setta. Fuori dalla
vita parlamentare, fuori
da quella delle amministrazioni comunali e provinciali, non ha saputo e voluto condurre delle battaglie di
dettaglio, suscitanti, volta a volta, consensi; non ha saputo agitare problemi interessanti grande parte dei
cittadini". "La politica", concludeva, "è calcolo e creazione di forze realizzanti un'approssimazione della
realtà
al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte a essere agitanti,
polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico". Berneri si auspicava
così un "anarchismo attualista", capace di "economizzare" le sue forze in un costante
confronto con la realtà concreta. In questo faceva sua la prospettiva possibilista e fallibilista di Malatesta,
situando l'anarchismo nel contesto tipicamente novecentesco della "società aperta". Dissociandosi,
come Malatesta, dallo "scientifismo libertario, residuo del determinismo materialista e del
positivismo kropotkiniano", Berneri si rese conto che "nella nostra epoca lo spirito critico si è affilato
e [... la
vita è complessa; per l'incrociarsi delle varie correnti ideologiche e il trasmutare di valori morali, per
il
poliedrico aspetto dei problemi di vita politica, economica, sociale". Occorreva una nuova spregiudicatezza,
avversa alle vacche sacre. Adattando il linguaggio dell'hegelismo italiano alle suggestioni del liberalismo radicale
alla Salvemini, Berneri dichiarò che "la base del concetto di libertà" - fondamento a sua volta
dell'anarchismo
- stava nella "relatività", condannando nel contempo tutte le definizioni asssolutistiche del termine e
proponendo
un approccio alla società in termini di sviluppo concreto di molteplici e differenti libertà. La sua
riflessione si
orientò - con maggiore decisione intellettuale rispetto a Malatesta - nel risituamento dell'anarchismo nel
campo
del radicalismo liberale (ovvero nella tradizione più "antiistituzionale" del pensiero e della civiltà
liberale). Non
soprendentemente, tra i suoi interlocutori più significativi troviamo Gobetti e Rosselli, cui Berneri
propose - in
tempi diversi ma con identica elaborazione - di considerare l'anarchismo come l'ala liberale del socialismo: gli
anarchici, scrisse a Gobetti, sono in effetti "i liberali del socialismo". Fatta piazza pulita di ogni illusione
comunista-bolscevica, Berneri auspicò quindi una "rivoluzione italiana",
basata su "un indirizzo autonomista in politica e socialista-liberista in economia" e rinvigorita dall'esercizio
costante e irrinunciabile dello spirito critico e antidottrinario. "L'anarchia è la filosofia della tolleranza",
scrisse
usando uno dei concetti chiave del liberalismo, e alludendo, in questo più vicino a Karl Popper che a
John Locke,
non tanto a un preciso meccanismo istituzionale quanto piuttosto a un modello sociale complessivo che
valorizzava in senso epistemologico la differenza e il pluralismo:
Così la nostra concezione di assoluta libertà di stampa, di parola, d'insegnamento
è basata sulla convinzione
che non siano dannose varie e contrastanti correnti di pensiero, quando queste si correggano reciprocamente
nel libero gioco della loro concorrenza. Anche nel campo economico, la nostra tolleranza si afferma, riguardo
all'artigianato di fronte alla grande industria, alla piccola proprietà rurale di fronte all'agricoltura
collettiva.
Noi siamo i liberisti del socialismo appunto per questa fiducia nella possibilità di fusione degli estremi,
di
soluzione armonica degli opposti. E per il senso dinamico della vita, che alla rigida uniformità ci fa
preferire
l'infinita varietà e negli uomini e nelle cose.
Come aveva fatto Malatesta, Berneri sostituì al determinismo e al materialismo ottocentesco un
volontarismo
storico-sociale e un umanesimo etico che investivano i presupposti stessi dell'attività degli anarchici.
L'anarchia
"diverrà se la vorremo, [...] se la costruiremo in noi e negli altri giorno per giorno con la propaganda e
con
l'azione": si trattava in primo luogo di uno stile di vita e di una preferenza etica. E se anche l'anarchismo si era
sviluppato come "corrente socialista e movimento proletario", al suo interno l'umanesimo si era affermato "come
preoccupazione individualista di garantire lo sviluppo della personalità e come comprensione, nel sogno
di
emancipazione sociale, di tutte le classi, di tutti i ceti, ossia di tutta l'umanità". Anche nel caso di
Berneri il progetto veniva infine ripiegato in un'ethos, le cui caratteristiche erano
presentate
come il fondamento non solo del peculiare programma anarchico ottocentesco, ma di qualsiasi programma
anarchico futuro. L'azione intellettuale di Malatesta e Berneri può esser letta come un tentativo di
scrostare
dall'ethos dell'anarchia il dottrinarismo e il dogmatismo prodotto dai miti razionalisti e illuministi
del secolo
precedente, lasciando a nudo un nucleo fondativo riassunto nell'idea di un'autonomia individuale che si dispiega
in una pluralità di forme di vita e di sperimentazioni più diverse. Sia Berneri sia Malatesta
tentarono - non
sistematicamente, e più il primo che il secondo - di reinterpretare la storia stessa dell'anarchismo
valorizzando
in primo luogo questo ethos, presentando cioé i "maggiori" e i "maestri" in una chiave
eterodossa (per lo meno
secondo gli standard abituali): si veda per esempio il curioso e immaginativo tentativo di Berneri di far passare
Bakunin per un simpatizzante del "liberalismo nord americano" e per un coerente nemico del comunismo. La
"revisione" dei due italiani si fondava quindi su una concettualizzazione dell'anarchismo come lente
etico-politica del mondo, come modello di interpretazione della società e della storia, in cui gli elementi
che
componevano il tessuto stesso della realtà venivano letti e giudicati attraverso il principio
dell'autodeterminazione del singolo, del federalismo libertario e del pluralismo delle forme di vita. Nel contempo
il "progetto", eliminate le sclerotizzazioni del classicismo ottocentesco positivista, materialista e comunista,
assumeva contorni possibilisti e pragmatici, riflettendo non più specifiche dottrine sociali e politiche
ma
piuttosto una marcata consapevolezza fallibilista della complessità del reale. Prendendo a prestito una
locuzione
di Nico Berti, potremmo dire che l'ethos dell'anarchia era "contro la storia", mentre il progetto si
poneva con
decisione "dentro la storia".
La Riforma, l'individuo, l'anarchia Se adottiamo questo punto di vista, risulta
evidente che l'ethos cui facevano riferimento Berneri e Malatesta si
era dispiegato nell'immaginario occidentale in modo complesso, non limitandosi semplicemente a plasmare il
progetto classico, ma modellando anche esperienze storiche e intellettuali precedenti e contemporanee. Come
ho cercato di dimostrare, esso si focalizzava sul principio dell'autonomia e dell'autodeterminazione
dell'individuo. Andando alla ricerca delle radici storiche di queste categorie, ne troviamo la matrice forse
più
convincente nel radicalismo protestante, ovvero in quegli interpreti, quegli stili di pensiero, quelle tradizioni
culturali che, a partire da una peculiare versione delle dottrine teologiche di Lutero e degli altri classici della
Riforma, costruirono un immaginario fondato sull'idea che l'individuo, in quanto individuo (e non in quanto
cittadino, proprietario, capofamiglia), godesse di uno spazio privato, al di fuori della competenza di chicchessia,
in cui usare liberamente ragione e passioni. Lutero era tutt'altro che un libertario; e tuttavia, nella sua lotta
contro il potere della chiesa di Roma, creò
immaginativamente l'idea di un singolo completamente autonomo, sganciato da qualsivoglia obbligazione nei
confronti di chiesa, stato, società, famiglia, e così via, che trovava realizzazione e ragion d'essere
in un rapporto
peculiare con la divinità. Il monaco benedettino dichiarò che il singolo aveva obblighi solo nei
confronti delle
Scritture: e nell'ottica ermeneutica protestante ciò corrispondeva a innalzare la coscienza a giudice
ultimo delle
cose umane. Lutero riprese la concezione agostiniana della salvezza, usando però un linguaggio che
traslava
il disprezzo ontologico di Agostino per il mondo in un disprezzo per le relazioni temporali d'autorità e
di
gerarchia. Nella Libertà del cristiano scrisse che
un cristiano non ha bisogno di opere che lo giustifichino; e se non ha bisogno di alcuna opera, egli
è certamente
sciolto da tutti i comandamenti e leggi. E se è sciolto, è certamente libero. Questa è la
libertà cristiana, la sola
fede, la quale non fa che stiamo in ozio o facciamo il male; ma che non abbiamo bisogno di nessuna opera per
ottenere pietà e beatitudine.
In questa costruzione lessicale l'idea di libertà corrisponde allo scioglimento del singolo dagli
obblighi
tradizionali, ovvero alla sua autonomizzazione. Non che fosse questo lo scopo di Lutero, che ben presto si mise
a perseguitare tutti coloro che da queste sue elaborazioni, e da quelle del tutto simili dei suoi seguaci in campo
riformato, traevano la giustificazione di comportamenti trasgressivi, disobbedienti ed eterodossi. All'alba della
modernità la teologia era un linguaggio universale, uno dei principali strumenti di legittimazione della
pratica
e della teoria nelle differenti sfere dell'azione umana. Libertini, anabattisti e spiritualisti vari si impadronirono
della retorica della liberazione dei riformati, imponendo slittamenti semantici e traslazioni di senso che portarono
le implicazioni individualiste e antiautoritarie della dottrina della salvezza della Riforma negli ambiti del sociale
e del politico. È in questa peculiare concezione dell'autonomia che ritroviamo almeno una delle
matrici più significative
dell'ethos anarchico, quel porsi di fronte al mondo delle relazioni sociali terrene in chiave di critica
del dominio
e della gerarchia, in quanto princìpi che mettono in discussione la sovranità del singolo. I germi
del
protestantesimo più radicale penetrarono nella cultura europea moderna anche nella forma
complessa di ideologie
libertarie e antiautoritarie: i percorsi che mi sembrano più rilevanti, agli effetti della specifica
articolazione
dell'ethos anarchico, sono quelli dell'antinomianesimo - attraverso il quale passarono le istanze
di autonomia
e autodeterminazione individuale più estremiste - e quello della tolleranza fallibilista -
attraverso il quale si
sviluppò l'ideale della libera sperimentazione. (*) Gli antinomiani ritenevano che la
sfera d'autonomia del singolo fosse tanto ampia da permettere al cristiano in
stato di grazia di non obbedire alla legge morale, ovvero ai dieci comandamenti. Ciò si configurava
soprattutto
come una giustificazione della trasgressione nella sfera propriamente etica, che però tracimava
prontamente in
quella sociale (famiglia, sesso, matrimonio, lavoro, ecc.) e in quella delle obbligazioni politiche. Alla coscienza
del singolo veniva delegata la possibilità di decidere della natura del bene e del male, indipendentemente
dai
valori sociali condivisi o dalle decisioni di qualsivoglia autorità positiva (la chiesa, lo stato, il partito,
ecc.). I
ranter, i più noti rappresentanti della tendenza, all'epoca della Rivoluzione inglese trasformarono la
dottrina in
uno strumento di critica della ragion d'essere delle autorità temporali. Essi si pronunciarono
esplicitamente contro
l'organizzazione gerarchica, le norme sessuali, la logica patriarcale e l'etica del lavoro, smascherando e
attaccando i presupposti autoritari su cui si reggeva la società. I loro argomenti positivi sottolineavano
invece
gli aspetti legati alla "naturalità" più conviviale e liberatoria: una libera sessualità
condita da danze e alcool, uno
spirito egualitario e comunitario, una concezione quasi ludica della vita associata. Diffondendosi nella cultura
settecentesca e ottocentesca, spesso per vie marginali ed eccentriche, questi temi persero gran parte della loro
strutturazione religiosa, prendendo spesso la forma di una nuova enfasi sull'autonomia morale del singolo e il
rispetto per le "leggi di natura". In quanto alla tolleranza, il soggetto è tutt'altro che irrilevante. Si
tratta infatti del principale focus intellettuale
per mezzo del quale si è discusso in Occidente di argomenti centrali per la cultura libertaria: la misura
ammissibile del dissenso individuale, la determinazione dello spazio della sperimentazione sociale di singoli
e gruppi, la natura del potere che le istituzioni positive e non - si tratti dello stato o della comunità -
possono
esercitare sulle coscienze. I suoi apologeti più radicali concepivano la libertà religiosa come il
prodromo di una
complessiva liberazione del pensiero, in vista di un ampliamento degli ambiti della sperimentazione individuale
e collettiva nella sfera dell'economia e della politica, del sesso e della famiglia - una tradizione di pensiero che
va da Jacopo Aconcio, uno dei difensori di Michele Serveto, sino a Denis Diderot, Thomas Paine e Thomas
Jefferson. Nel suo Statagemata Satanae (1564) Aconcio sostenne che, sebbene l'intelletto
umano non potesse giungere alla
comprensione delle verità finali e ultraterrene, la ragione, pur essendo fallibile, era in grado, se non di
ascendere
alle vette ultime, per lo meno di avanzare costantemente verso la conoscenza, in modo graduale e infinito. Le
controversie, i dibattiti e i confronti avrebbero quindi contribuito - sia se l'idea in discussione si fosse rivelata
vera, sia se si fosse rivelata falsa - alla crescita della conoscenza. Le conclusioni implicavano un quasi
incondizionato elogio della libera sperimentazione: poiché nessuno poteva aspirare al
possesso della verità
assoluta, era impensabile l'imposizione di qualsivoglia ortodossia; ogni idea e ogni pratica dovevano di fatto
esser messe alla prova e sottoposte al libero gioco dell'esame razionale. Queste implicazioni fornirono in
alcuni casi un quadro concettuale in cui organizzare teorie etiche e politiche,
ecclesiologiche e storiche. Nel mondo di lingua inglese i separatisti, i libertini e tutto il variopinto mondo del
dissenso religioso ne fornirono con verve le più differenti interpretazioni (sia pure in un
quadro generale
improntato dai valori di continuità, tradizione e gerarchia). I teorici della supremazia congregazionale
riconobbero ai singoli il diritto a esercitare liberamente la propria ragione, mettendo radicalmente in discussione
il principio d'autorità; poi si pronunciarono per la gestione collegiale degli affari della congregazione,
infine
conclusero che i ministri del culto non erano necessari, scegliendo una specie di "autogestione". Spinti dalla
necessità di giustificare il proprio dissenso, trasformarono l'apologia della tolleranza in una difesa della
differenza, adottando una prospettiva in cui si valutavano con positività le innovazioni e le
novità, prodromo
appunto della crescita della conoscenza. Le ragioni del pluralismo divenivano così uno strumento per
la
giustificazione di soluzioni autonomiste e decentraliste, che non di rado si allargavano dall'ecclesiologia al
sociale e al politico. Parte dell'eredità di questa cultura, pur percorrendo sentieri marginali e occulti,
venne
immagazzinata nelle speculazioni degli eccentrici e degli estremisti (personaggi come Jean Meslier o William
Blake), costituendo un'immaginario che doveva riemergere in grande stile dopo la Rivoluzione francese e
trasmigrare poi nel pensiero propriamente anarchico.
L'anarchismo tra ethos e progetto La "revisione" di Malatesta e
Berneri, fondata sulla contrapposizione tra ethos e progetto, si pone quindi come
un momento di recupero delle valenze più propriamente etico-epistemologiche dell'anarchismo, le cui
matrici,
lungi dall'ancorarsi al progetto classico, risalgono invece allo sviluppo più ampio di uno spirito libertario
nella
modernità (pur senza dimenticare che furono però gli esponenti del classicismo anarchico a
precisare
compiutamente i modi in cui questo spirito si era articolato nella realtà sociale, nelle istituzioni, nelle
interrelazioni tra gli uomini). Tuttavia, nonostante la riflessione dei due italiani e dei loro seguaci abbia
indicato strade e percorsi non solo
suggestivi ma anche rilevanti dal punto di vista dell'impostazione dell'azione politica, essa si è per molti
versi
rivelata un binario morto. É vero che buona parte dei pensatori anarchici contemporanei che ho citato
nel primo
paragrafo si muovono ormai in una sfera postclassica; d'altro canto, questo recupero in grande stile
dell'eredità
revisionista è stato il frutto di una profonda crisi storica dell'anarchismo, culminata proprio nelle illusioni
sessantottine e nei fallimenti degli anni successivi che non può certamente dirsi compiuta. Come abbiamo
visto,
Malatesta e Berneri avevano ripensato la loro esperienza politica in seguito all'esaurimento della spinta
propulsiva dell'anarchismo e alla sua progressiva emarginazione come opzione praticabile. La sconfitta in
Spagna nel 1936 contribuì a spazzar via le illusioni, le speranze e forse anche le prospettive utopiche
di una
generazione. Di conseguenza il dopoguerra è stato contrassegnato dalla scomparsa dell'anarchismo come
presenza di massa, consegnando i militanti a un periodo di stagnazione intellettuale, di crisi generazionale e di
sostanziale subordinazione alle parole d'ordine della "sinistra". Forse l'aspetto più importante di questo
allineamento alla retorica del socialcomunismo negli anni della guerra fredda è stata l'incapacità
di sviluppare
e ampliare le indicazioni di Malatesta e Berneri, che puntavano al risituamento dell'anarchismo nella sfera della
civiltà liberalradicale, della società aperta e del pluralismo delle forme di vita: ovvero in una
sfera di valori e
proposte che erano anatema agli occhi dei fautori del socialismo di stato, del comunismo coartato, dello
schiacciamento programmatico del dissenso e degli altri elementi del totalitarismo marxista e dei suoi
derivati. In altri termini, il movimento anarchico è arrivato al '68 con un'armamentario teorico e una
strumentazione
concettuale palesemente inadeguati. I giovani si sono appropriati delle parole d'ordine dell'ethos
dell'anarchia,
ponendo l'enfasi sulla necessità dell'autonomizzazione, sulla critica della gerarchia e del dominio, sulla
valorizzazione della sperimentazione e del pluralismo culturale. Nel contempo, l'anarchismo offriva loro una
progettualità desueta, palesemente in sudditanza rispetto alle tendenze dominanti
comunisto-rivoluzionarie. La
"via anarchica" propriamente intesa non si rivelava abbastanza caratterizzata, o abbastanza diversa. L'orizzonte
utopico e l'ethos anarchico hanno continuato a esercitare fascino e influenza, ma il "progetto",
ancorato ai
"mugiki russi" da un lato e all'ortodossia socialista dall'altro, si è dimostrato irrimediabilmente
obsoleto.
*Questo saggio è una versione ridotta della relazione che ho tenuto al Convegno internazionale di
studi sulla
cultura libertaria (Grenoble, marzo 1996). In essa si esponevano con maggiore ampiezza le caratteristiche e la
strutturazione intellettuale delle idee centrali di questi due "percorsi". Si vedano tuttavia i miei Il dio dei
blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese, Unicopli, Milano 1993, dedicato allo sviluppo
dei temi
antinomiani, e Fallibilismo e tolleranza nella Rivoluzione inglese. Separatisti, battisti e indipendenti
1640-1649,
di imminente pubblicazione presso Franco Angeli, in cui sono approfonditi i rapporti tra la tolleranza, il
fallibilismo e la libera sperimentazione.
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