Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 238
estate 1997


Rivista Anarchica Online

Gli anni della rivolta: 1968 - 1977
di Guido Barroero

Preziosa e intelligente è stata l'iniziativa della Biblioteca Franco Serantini, del Circolo Agorà di Pisa e del Centro di Documentazione di Pistoia di dedicare una giornata di studi agli "anni della rivolta", ovvero al decennio 1968-1977. Anni che, al di là di ogni retorica, hanno segnato in profondità il modo stesso di concepire la politica come pratica collettiva, rompendo e superando gli schemi consolidati dei tradizionali rapporti tra ceto politico (di qualunque colore esso fosse) e masse popolari e proletarie. L'irruzione sulla scena dello scontro sociale, nei paesi occidentali industrializzati, di centinaia di migliaia di giovani (dapprima solo studenti, ma in seguito, in Italia e Francia soprattutto, anche operai) sconvolse i riti della politica fondati sulla delega e la rappresentazione mistificata dei rapporti di forza. Protagonismo e assemblearismo, fantasia e immaginazione furono il primo portato di un'esplosione di ribellismo giovanile che trascese presto - in coscienza e consapevolezza - i limiti della conflittualità generazionale. La dura repressione dei poteri statuali e borghesi fece il resto e, nella radicalizzazione delle lotte e dei movimenti, traghettò molti verso il riconoscimento maturo della necessità di riaprire duramente e reinterpretare quello scontro di classe che la cappa stalinista e l'ambiguità togliattiana avevano derubricato a "tenzone democratica" all'interno delle regole del sistema. Per molti giovani della mia generazione - compresi quelli che come me già facevano politica nella FGCI - quel movimento ebbe una funzione maieutica di emancipazione coscienziale dalle ambiguità di un'azione politica di piccolo cabotaggio, appena scossa dalle prime manifestazioni per il Vietnam.
Per la verità - come ho scritto in un sintetico commento per Umanità Nova - mi sono recato a Pisa vagamente perplesso e leggermente preoccupato. Temevo amarcord di militanti dai capelli grigi (troppi ce ne hanno già elargiti giornali, TV e anche certa pubblicistica di estrema sinistra, in merito alla vicenda Sofri). Temevo anche il paternalismo nei confronti degli eventuali giovani presenti (il '68 ve lo racconto io che c'ero) e, di converso, un atteggiamento di bonario compatimento (tipo quello che si ha per i vecchi parenti noiosi) di questi ultimi, magari alla ricerca di materiali per tesi o dissertazioni.
I miei timori sono risultati eccessivi e debbo dire ingiustificati alla prova dei fatti. Praticamente tutte le relazioni sono riuscite nel non facile compito di contestualizzare esperienze, movimenti e avvenimenti, di storicizzarli (coglierli dunque nella loro causalità) e recuperarne dunque "l'attualità". Compito quest'ultimo non certo facile perché ogni "attualizzazione" corre il rischio di trasformarsi in una supposta riproposività delle situazioni o in una meccanica considerazione di continuità dei processi economico-politico-sociali, entrambi frutti malsani delle ideologizzazioni. A meno che non si parta dalla considerazione che lotte, sconfitte, errori, fughe in avanti, elaborazioni, strategie, analisi, illusioni di cui sono costellati i grandi eventi sono, non parte, ma, in senso stretto, il processo stesso con cui il corpo sociale, diacronicamente, si scontra con la ragnatela di "abitudini" (rapporti economici, politici e sociali istituzionalizzati, introiettati e cristalizzati) che esso stesso ha secreto.
Ritornando a Pisa e al corpus delle relazioni presentate, queste si potrebbero raggruppare in almeno quattro filoni di indagine: il primo concernente singole esperienze - più o meno specifiche, sia dal punto di vista della territorialità che da quello della connotazione politica e sociale -costituito, con buona approssimazione, dalle relazioni di Cesare Bermani (L'esperienza del Circolo R. Luxemburg a Novara nel 1969), di Giorgio Sacchetti (Il '68 aretino: la provincia italiana negli anni della rivolta), di Cosimo Scarinzi ("Collegamenti per l'organizzazione diretta di classe": un esempio di rivista militante fuori dalle linee) e, in parte, di Pina Sardella (Verso il '77. Il ruolo del movimento femminista nelle vicende politiche degli anni '70) e di Franco Schirone (L'anarchismo italiano dal '68 al '77); il secondo inerente le radici culturali e politiche degli "anni della rivolta": Luciano Della Mea (Le radici della contestazione. Culture e movimenti), Roberto Niccolai (Quando la Cina era vicina: l'influenza del pensiero di Mao sulla sinistra rivoluzionaria degli anni '60 e '70), Gianfranco Marelli (Non lavorare mai. Come la critica situazionista all'esistente influenzò i movimenti radicali degli anni '70), Diego Giachetti ("Dal movimento ai gruppi": dal Manifesto al Potere Operaio i gruppi dell'estrema sinistra tra gli anni '60 e '70); il terzo inerente il dibattito e la ricerca storiografica sugli anni '70: Oscar Mazzoleni (Il '77 nella storiografia dell'Italia repubblicana) e Attilio Mangano (Il dibattito storico sugli anni '70. La stagione dei movimenti); e infine il quarto orientato a definire i «connotati» politici e gli esiti organizzativi dei movimenti anche in rapporto alla rottura dell'egemonia del PCI: ancora Giachetti e Schirone, Sergio Dalmasso (La politica della sinistra storica nei confronti dei movimenti della "contestazione") e Marco Scavino (La piazza e la forza. Il 1975 punto di svolta della sinistra rivoluzionaria).
In realtà questa quadripartizione risulta abbastanza arbitraria perché quasi tutte le relazioni e gli interventi hanno spaziato ad ampio raggio su più d'una delle problematiche che abbiamo elencato, ma serve a dar conto dell'ampia articolazione del corpus relazionale. Alcuni temi affrontati tuttavia, a mio avviso, hanno dimostrato una maggior pregnanza e sollevato problemi rilevanti. Ne cito almeno tre:
Il primo è stato quello degli esiti organizzativi del movimento del '68, che si è delineato all'incirca nei termini di una potenziale alternativa: la "sedimentazione gruppettara" che ha seguito le prime imponenti lotte studentesche e operaie ha rappresento la cristallizzazione di una spontaneità antagonista, e in nuce rivoluzionaria, degna di ben altre sorti o è stata il portato «necessario» e tutto sommato benefico di una pluralità di opzioni strategico-organizzative tese a incidere con più efficacia nello scontro di classe? Le risposte degli intervenuti si sono ovviamente diversamente articolate lungo lo spettro definito dalle due ipotesi e non a caso si sono spesso avvertiti gli echi della questione, storicamente irrisolta, del rapporto tra movimenti e organizzazione, tra lotte e prospettive strategiche, tra masse e partito.
Il secondo è stato quello della contrapposizione - usata prevalentemente in ambito storiografico, ma anche della riflessione politica - che si tende a fare tra un '68 "buono", solare, denso di speranze e di immaginazione e un '77 "cattivo", cupo, foriero di scontri duri e violenti, l'anticamera degli "anni di piombo". A questo proposito è stato da più d'uno rilevato come la metà degli anni '70 abbia rappresentato un punto critico, di rottura e di presa di consapevolezza definitiva da parte di molti militanti di classe della tenuta e delle capacità di controllo del potere borghese. L'immaginazione non andava al potere e una risata non avrebbe seppellito un bel nulla come ottimisticamente recitavano gli slogan del Joli Mai francese. Si andava ad una radicalizzazione dello scontro le cui premesse tuttavia erano in un certo senso già scritte nella portata e nell'ampiezza degli eventi.
Il terzo è stato quello del rapporto tra i movimenti di quegli anni e gli esiti organizzativi e politici che se ne determinarono e l'humus culturale e politico, il filo rosso, sul quale si innestarono: dalle tradizioni storiche del movimento operaio (l'anarchismo) agli eretismi marxisti vecchi e nuovi (bordighismo, trotskismo, maoismo) per finire al proto-operaismo della sinistra socialista. Direttamente collegata a questa problematica è la geografia delle organizzazioni che furono protagoniste dei primi anni '70 (da Lotta Continua a Potere Operaio, passando per Avanguardia Operaia, il Manifesto, ecc.), la loro forza, le loro strategie e la loro crisi, dalla quale generarono, su filoni divergenti, l'Autonomia Operaia e la galassia del lottarmatismo.
Nel complesso quella di Pisa è stata una giornata di studio e di discussione vivace e proficua, connotati che non è sempre facile trovare associati.
Per concludere questo resoconto, un piccolo rilievo e un auspicio. Il rilievo è che, almeno dal mio punto di vista, sarebbe stato interessante dedicare più spazio al rapporto tra il movimento anarchico e i movimenti degli "anni della rivolta", non fosse altro perché vi fu un'interazione fortissima che travasò da una parte e dall'altra cultura, idee, vivacità, immaginazione. L'auspicio è invece che gli organizzatori - nella loro dimostrata efficienza organizzativa - mettano presto a disposizione gli atti completi del convegno, perché i percorsi della riflessione critica debbono trarre nuovo stimolo da occasioni come questa per poter essere socializzati come patrimonio collettivo.