Rivista Anarchica Online
Lasciate che il vento soffi
di Cristina Valenti
La sperimentazione di nuove forme di organizzazione e strategie di sopravvivenza si pone come necessità
vitale
per il teatro emergente, fra razionalizzazione della spesa pubblica e "normalizzazione" del quadro istituzionale
Ci sono immagini, aneddoti, episodi dall'evidente valore paradigmatico. Ci capita
di riconoscerli, ascoltarli, citarli
noi stessi, a volte, per rendere più efficace il nostro ragionamento. Poi, d'un tratto, è come se ci
parlassero per la
prima volta, e così capita che immagini e aneddoti a lungo frequentati acquistino un nuovo riverbero,
illuminando
di conseguenza il panorama che ci circonda e fornendoci risposte solitamente semplici ed immediate. Come non
averle trovate prima? E' così che mi si è ripresentata l'immagine dei pagliai di Manet,
un'immagine che Judith Malina usa di frequente,
in senso, per l'appunto, paradigmatico: per rendere più chiaro un racconto che, non a caso, riguarda un
momento
di illuminazione. Judith Malina e Julian Beck sono giovani meno che ventenni a New York, artisti in cerca della
propria strada, pieni di insoddisfazione verso il teatro esistente, e gravidi di domande su quello che non
c'è. Improvvisamente, dice Judith Malina, quello che stavamo cercando ci si è rivelato, come
è capitato a Kandinskij
osservando i pagliai di Manet, quando capì che il soggetto dell'arte non erano i pagliai, ma la pittura, il
modo in
cui era stato spalmato il colore, la materia. Beck e Malina compresero allora in che cosa consiste la rottura di una
tradizione: nel rimettere al centro la materia della propria arte. Il soggetto è la pittura, ossia il soggetto
è il teatro.
"Esiste una forma tradizionale e convenzionale da cui apprendiamo ogni cosa, ma quello che dobbiamo fare
è
superarla, risvegliarci al di fuori di essa, prenderne gli elementi e decostruirli, riorganizzarli".(1) Mettere al
centro la ricerca sui fondamenti dell'arte, al di là delle forme e degli stili in cui la vicenda teatrale si
è cristallizzata, così come Manet aveva messo al centro la materia pittorica. Il teatro,
più di ogni altra arte, si fonda sulla trasmissione diretta dell'esperienza. E chi inizia a fare teatro fa
riferimento in genere ad esperienze artistiche fondate su particolari modi espressivi, stili, poetiche, ma anche su
certe condizioni materiali: spazi, circuiti, strutture economiche ed organizzative. Una volta compreso che
materia del teatro non è solo la ricerca artistica, ma anche la dimensione esistenziale,
relazionale, produttiva su cui non di meno si fonda l'esperienza teatrale, è evidente che la riorganizzazione
delle
forme dovrà investire la complessità di tale materia. La vicenda di Julian Beck e Judith
Malina alla ricerca di un proprio Teatro vivente nella New York della metà
anni '40 può servire ancora da guida al nostro ragionamento. Beck e Malina avevano già un'idea
abbastanza
precisa dei testi che avrebbero voluto rappresentare, ma soprattutto sapevano che il loro progetto non avrebbe
potuto avere luogo all'interno del teatro esistente. Il
semplice rinnovamento del repertorio, con l'introduzione di autori contemporanei, non avrebbe realizzato la loro
idea di Teatro vivente. Materia del loro progetto non era il solo contenuto dei testi da rappresentare,
ma il teatro
come processo artistico e insieme di relazioni non ordinarie. Vivente significava già allora,
per loro, momento di
incontro autentico e necessario fra persone in grado di condividere un'esperienza. Non si trattava di conquistare
un accesso a Broadway, ma di costruire il proprio teatro altrove. La storia è nota: dapprima
fu nel loro
appartamento al 789 di West End Avenue, poi in uno spazio nella 14a Strada, costruito con l'aiuto degli amici
del Greenwich: attori poeti scrittori artisti della nascente beat generation. Il teatro aveva un foyer con un chiosco
per il caffè e uno per libri e riviste, dove gli spettatori potevano incontrare gli attori durante l'intervallo
attorno
a una fontana zampillante; la sala teatro era priva di quadro di scena e non prevedeva distinzioni fra palcoscenico
e platea, le iniziative ospitate non erano solo teatrali, ma comprendevano reading poetici, letture pubbliche di
lavori teatrali, happening, concerti... E' un modello che ci è in qualche modo diventato familiare (anche
se non
quanto avrebbe potuto) dagli anni Sessanta ad oggi, ma che nel 1959, quando il Living Theatre aprì i
battenti, era
del tutto innovativo e corrispondeva all'esigenza di sperimentare i modi e le forme del fare teatro in termini
necessariamente connessi con i modi e le forme del vivere.
Memoria e insofferenza Attualmente è sempre più raro che
l'invenzione teatrale significhi anche invenzione di uno spazio speciale e di
particolari modi di concepire l'incontro fra artisti e partecipanti. Generalmente, anche le esperienze più
innovative
prevedono la possibilità di accedere a spazi e contesti "tradizionali". E' sempre meno frequente, per fare
un
esempio banale, che gli spettacoli a pianta centrale non possano essere allestiti anche su palcoscenico. Eppure,
sappiamo bene che il teatro è stato ciclicamente reinventato nel Novecento a partire dai suoi elementi
materiali:
il lavoro dell'attore e le sue condizioni, il rapporto con lo spettatore, l'invenzione dello spazio, le forme di
organizzazione e le strategie di sussistenza. E' una storia che potremmo facilmente riempire di nomi, dai "padri
fondatori" della regia di inizio secolo fino ai protagonisti della rivoluzione teatrale degli anni '50 e '60: Living
Theatre e Grotowski, Bread and Puppet e Odin Teatret, Peter Brook ed Etienne Decroux e ancora Open Theatre,
Teatro Campesino, Tadeusz Kantor... con l'eredità lasciata alla generazione protagonista del grande
mutamento
del panorama teatrale negli anni '70. Oggi c'è evidentemente molto rispetto per tutta questa memoria,
di cui il nuovo teatro ha comunque ricevuto ed
introiettato l'eredità, ma il punto di raccordo con le esperienze precedenti tende ad avvenire al livello degli
ultimi
anelli delle esperienze (ossia dei teatri realizzati), anziché al livello dei primi, che hanno strappato i
progetti alle
utopie trasformandoli in pratica. Il problema è che esiste una dimensione in qualche modo istituzionale
delle
invenzioni teatrali che oggi ricordiamo. Esperienze che sono state di rottura hanno ormai costruito una loro
tradizione artistica e una (maggiore o minore) consistenza istituzionale. In genere, i dati di rinnovamento sono
recepiti anche dalla miopia del legislatore, che accoglie e riconosce fra il teatro "normato" (o da "normare") quello
che a suo tempo è nato fuori dalle norme, dandosi da sé i propri statuti. (Il Living è forse
il solo gruppo uscito
dalla rivoluzione vincente degli anni Sessanta a non godere minimamente dei risultati ottenuti: unanimemente
riconosciuto come esperienza capostipite, non usufruisce di corrispondenti riconoscimenti istituzionali, forse
perché riconoscere il Living significherebbe riconoscere la non programmabilità del fatto artistico,
almeno in
termini di valutazione "aziendale", e questo contraddice lo spirito e la sostanza di ogni legge). I giovani che
attualmente si affacciano al teatro provano, da una parte, una giusta insofferenza rispetto alla storia
delle rivoluzioni teatrali: sono stanchi di sentirsi dire che tutto è avvenuto fra gli anni '60 e '70 e che
è un gran
peccato per loro che sono nati troppo tardi. E, d'altra parte, di quelle rivoluzioni hanno di fronte i frutti ormai
consolidati, che costituiscono altrettante realizzazioni di quella "tradizione del nuovo" che ha attraversato il teatro
novecentesco imprimendovi cicliche cesure e una sostanziale e diffusa eterogeneità. Così, diventa
assai difficile
il dialogo fra le generazioni più vecchie (gli artisti in qualche modo affermati, che tuttavia mantengono
vivo lo
spirito e la memoria della battaglia) e le generazioni più giovani (che delle proprie battaglie conoscono
soprattutto
le difficoltà, senza intravedere ancora spiragli, neppure di sussistenza). Mi è capitato di recente
di partecipare a
un incontro sul teatro di ricerca, durante il quale un artista importante, riconosciuto come punto di riferimento
particolarmente significativo per tutta l'esperienza del nuovo teatro italiano, continuava con indiscutibile
sincerità
ad accomunare in un "noi" collettivo gli attuali rappresentanti del teatro d'arte e di ricerca; allora un giovane
regista di un piccolo gruppo romagnolo alle prime esperienze si è alzato pregandolo molto garbatamente
di voler
meglio chiarire i contenuti di quel "noi": "noi chi?", chiedeva in sostanza. Eppure un soggetto plurale esiste,
e riguarda la multiforme tradizione del nuovo alla quale abbiamo appena fatto
riferimento: una tradizione che ha una sua continuità fatta di rotture e soprassalti, deviazioni e
ridefinizioni; un
andamento a base ciclica nel quale è possibile riconoscere il processo di riorganizzazione degli elementi
artistici
di cui parla Judith Malina. Una tradizione multiforme, e perciò non univoca né maggioritaria, che
si è trasmessa
attraverso il libero rinnovamento degli statuti artistici, anziché la riproduzione "tradizionalista" delle
forme. Tale
vicenda ha conosciuto una fase particolarmente ricca negli anni Sessanta e Settanta, e mostra oggi una rinnovata
vitalità, in un contesto però assai precario, caratterizzato dalla chiusura degli spazi e dai sempre
maggiori tagli
verso il basso dei finanziamenti. Ed è qui, al livello del sistema teatrale, che il "noi" non funziona
più. La ricerca
di nuove forme ha disegnato inusitati pagliai, che ora fanno parte del panorama. Ma il gesto della pennellata, la
scelta della materia e il modo in cui è stato spalmato il colore è ormai invisibile. Fuor di metafora,
i centri e gli
spazi destinati alla ricerca sono oggi una realtà consolidata, eppure il movimento teatrale degli anni
Settanta li
ha conquistati inventandone ex novo la possibilità, e lo ha fatto aprendo brecce inesplorate fra sociale e
istituzionale, agendo in un terreno che coniugava pratiche sperimentate nella militanza politica con riferimenti
e fermenti culturali di respiro internazionale. Ma oggi è normale che anche quello che è nato
fuori dalla norma finisca col sembrare normale, e perciò non sia
più riconoscibile il gesto di rottura originario. Ricordo un altro dibattito, durante il quale il rappresentante
di un
Centro teatrale dotato oggi di un'indubbia consistenza raccontava (giustamente) la sua esperienza in termini di
marginalità, al che una giovane attrice di un nascente gruppo bolognese lo interruppe dicendo (altrettanto
giustamente): "Ma come? Noi vi consideriamo più che arrivati: il vostro è il traguardo che anche
noi vorremmo
raggiungere". Continuando a seguire il filo del ragionamento di Judith Malina, il problema è, come lei
dice, che
la rottura con la tradizione è "un modo per creare una nuova tradizione" (2). O una ulteriore realizzazione
della
tradizione del nuovo, per dirla in altri termini. E' a questo livello che si pone il problema - cui accennavo - della
dimensione istituzionale, tutt'altro che esterna ai processi artistici, ma anzi estremamente condizionante e per certi
versi omologante.
Radici nell'aria Riprendendo il ragionamento sulla situazione italiana. Il teatro
di ricerca è attualmente una realtà consolidata,
importante dal punto di vista produttivo, di mercato e, cosa principale, sul piano dei risultati artistici. Se
osserviamo la vicenda "biologica" di questo teatro, è come osservare la vita di una pianta epifita
(è un'immagine
che piaceva tanto a Fabrizio Cruciani). Le sue radici questo teatro non le ha piantate nel terreno esistente: non ha
dato l'assalto all'istituzione per conquistarla, non ha bussato alle porte dei vari mausolei del teatro italiano
reclamando il rinnovamento delle forme, il ricambio generazionale e imponendo perciò la propria
candidatura.
Le radici le ha piantate nell'aria, suggendo alimento da certe idee che non avevano reale consistenza,
alimentandosi piuttosto di memorie storiche, modelli lontani, utopie (anche non teatrali). Quelle memorie, quei
modelli, quelle utopie sono diventati dapprima realtà extraterritoriale, poi, dissodati nuovi terreni, sono
diventati
territori paralleli, ma con tangenze sempre più frequenti, contaminazioni, salti di frontiera. In questa
storia qualcosa ha funzionato e qualcosa no. Quello che ha funzionato. E' nato effettivamente un nuovo
modo di fare e concepire il teatro: si sono inventati percorsi di formazione al di fuori delle scuole e delle
accademie, circuiti alternativi, nuove forme di accesso ai finanziamenti, spazi e luoghi teatrali non coincidenti
con la geografia storica dei teatri e neanche con la distribuzione centralizzata delle risorse. In assenza di una legge
del teatro, le circolari e le normative ministeriali hanno dovuto via via tener conto del nuovo e registrarlo,
sancendone l'esistenza e regolamentandola attraverso riconoscimenti sempre inadeguati, tardivi e pieni di
incoerenze, ma comunque esistenti. Quel teatro nato per essere altrove è stato riconosciuto nei territori
comuni
dell'istituzione... e qui sono nati i problemi. Le norme, una volta scritte, richiedono adeguamenti a catena. E
lo sforzo maggiore del nuovo teatro è diventato,
da un certo momento in poi, quel lo di regolamentarsi inseguendo i criteri di riconoscibilità previsti dal
balletto
delle circolari che si sono succedute negli anni. Nella congerie burocratica che investe il nostro paese, alle norme
che regolano i finanziamenti si aggiungono quelle riguardanti l'agibilità degli spazi. Nel 1994 la Societas
Raffaello Sanzio, dopo essersi vista cancellata dal novero delle compagnie finanziate in base all'art. 20 (teatro
di ricerca), organizzò un convegno dedicato provocatoriamente alla censura teatrale. Il nesso con la
propria
vicenda era evidente. In una sistema legislativo e di mercato in cui il teatro non può esistere se non
sovvenzionato,
la nuova censura risiede nei criteri di erogazione dei finanziamenti, e anche nelle norme che decidono
dell'agibilità degli spazi: e quest'ultima è una censura di censo (aprire uno spazio realmente a
norma
comporterebbe costi pressoché impossibili, non solo per il teatro di ricerca) ma anche una censura
artistica: "Se
tutte le norme fossero rispettate, tutti i teatri sarebbero identici", faceva osservare Claudia Castellucci in
quell'occasione, aggiungendo: "attenzione, perché le norme creano un'estetica". Ricordo che molti anni
fa,
precisamente durante il Festival di Santarcan-gelo del 1982, un critico teatrale allora assai poco allineato, sostenne
pubblicamente che la particolare vitalità del teatro di ricerca in Italia, e la ragione per cui nel nostro paese
avevano
trovato particolare e prolungata accoglienza tanti gruppi internazionali, si spiegavano con l'organizzazione
sostanzialmente anarchica del settore. Mi colpì (e per questo ancora ricordo) l'uso pressoché
appropriato del termine: ad indicare la felice libertà di
iniziativa extra-istituzionale (o ai margini dell'istituzione) di cui il teatro di ricerca aveva goduto fra le maglie
larghe della scarsa regolamentazione. Erano gli anni in cui, grazie alle sovvenzioni "marginali" delle
municipalità
e degli enti locali, si era disegnato un circuito alternativo e parallelo rispetto al teatro ufficiale, sovvenzionato
dallo stato. Il risultato, è il panorama teatrale diversificato che è sotto gli occhi di tutti (un
panorama, però - va
pur detto -difficilmente dilatabile nella situazione attuale, e soprattutto non in grado di assorbire le nuove
emergenze). E' un fatto, comunque, che in tutti questi anni, quanti lamentavano l'inadeguatezza degli spazi e delle
risorse per il teatro vedevano come un miraggio la prospettiva di una legge, da sempre attesa nel nostro paese.
Oggi che di questa legge l'efficiente vicepresidente Veltroni ha presentato un disegno, credo sia quanto mai
evidente che lo sforzo del nuovo teatro debba essere quello di costruirsi una nuova extraterritorialità. Il
disegno
di legge (che non è comunque questa la sede per analizzare a fondo) prevede in particolare una serie di
steccati
fra ambiti e tipologie teatrali nonché precise distinzioni di competenze fra Stato, Regioni e Comuni, il
che porrà
certamente dei limiti sempre più invalicabili a quella situazione di dialogo diretto ed estemporaneo che
negli anni
migliori ha potuto realizzarsi fra la nascita (o l'arrivo in Italia) delle nuove esperienze e l'attivazione di risorse
locali e decentrate.
Vita nomade Una delle parole chiave del disegno di legge Veltroni è
programmazione, un'altra è progetto, una terza è
stabilità.
Tre parole in netto contrasto con la vita dell'arte teatrale, per sua natura incontrollabile, sensibile al divenire e
capace costantemente di sorprendere, anticipando i tempi e ponendo la pratica prima della teoria. E' persino
superfluo spiegare che l'atteggiamento di controllo del legislatore è quanto di più lontano si possa
immaginare
dalla biologia della cultura teatrale, soprattutto laddove si intende demandare a un nascituro Centro Nazionale
del Teatro organizzato in forma di Società per Azioni l'erogazione dei finanziamenti, sulla base di progetti
triennali da valutare a priori. Figuriamoci se mai una delle esperienze che hanno contrassegnato la storia del
teatro avrebbe potuto essere
programmata o riconosciuta e promossa preventivamente dagli amministratori! Per non parlare del progetto di
istituire due Teatri Nazionali, nonché della straordinaria attenzione data alla drammaturgia italiana
contemporanea, definizione che esaurisce lo spazio dedicato al nuovo e alla ricerca - il che d'altro canto
non deve
stupire, avendo la legge come oggetto il teatro di prosa, come se il secolo che volge al termine non
avesse
ampiamente infranto le distinzioni fra i generi, rendendo definitivamente obsoleta tale formulazione. Ma
tant'è:
il teatro - come abbiamo letto nell'ultimo numero di Teatri di vita - "è da un'altra parte" (3). E mentre
la nuova legge fa passi da gigante verso l'approvazione, un altro miraggio prende sempre maggiore
consistenza: quello delle "case del teatro". E qui farò una parte di autocritica, in quanto mi è
capitato di
appoggiare e dare il mio contributo alla formulazione di progetti che portano questo nome (perché
è in particolare
ai significati veicolati dal nome che si appunta la mia critica). A fronte delle sempre più pressanti richieste
di spazi
per i giovani artisti e gruppi teatrali, in molte città stanno nascendo soluzioni definite "case del teatro",
che
rischiano di nascere già vecchie, come la legge. Intanto, il concetto di casa contiene un significato
di stanzialità e presuppone inoltre l'esistenza di un padrone di
casa, un ospite. Ma la vita del teatro è sostanzialmente nomade e poco inquadrabile in ritmi e regole
"casalinghi".
Il teatro vivente delle città ha bisogno di spazi che gli assomiglino, con caratteristiche di
modificabilità, dove
l'invenzione artistica possa andare di pari passo con l'invenzione dell'ambiente, inteso come struttura fisica ma
anche come insieme delle relazioni umane. Ora, è pur vero che ci sarà (e già
c'è) chi riuscirà a coniugare la stanzialità istituzionale con il rischio del teatro,
ma noi riteniamo che artisti, organizzatori ed amministratori dovrebbero piuttosto dimostrare una più
esplicita
vocazione a lavorare nello spazio dell'imprevedibilità, concependo luoghi dove il vento del nuovo sia
libero di
soffiare. "Lasciate che il vento soffi", chiedeva John Cage, giocando col doppio significato della frase per dire
dello strumento a fiato in particolare e dell'arte in generale. Eppure in tante città si chiudono spazi aperti
al libero
incrociarsi dei venti (spazi recuperati in fabbriche in disuso, o in edifici non teatrali, come è avvenuto
recentemente a Bologna) e si aprono "case", che presuppongono - almeno nell'idea - porte e finestre ben attrezzate
contro gli spifferi. Judith Malina ha continuato a chiamare "teatro" anche l'ultimo spazio aperto a New York. Non
di meno, la notte, era meta dei senza tetto del quartiere che vi trovavano riparo. All'idea di casa del teatro fa
in qualche modo riscontro il concetto di residenza contenuto nel nuovo disegno
legge. E' uno dei punti accolti con maggiore favore, anche da quanti ne sottolineano la sostanziale
ambiguità fra
opportunità di apertura a progetti internazionali e lavoro stanziale sul "territorio". Ma anche in questo
caso, credo
sia la scelta del termine a doverci rendere sospettosi. In altri anni non si sarebbe mai parlato di
residenza teatrale
(o di un teatro residente) per riferirsi a un insediamento "radicale" destinato a produrre nuove
esperienze, sia in
rapporto alla ricerca artistica sia in rapporto al territorio. Si sarebbe parlato di laboratorio, di teatro laboratoriale,
parole ormai desuete, e che forse in passato non hanno esaudito del tutto le premesse, ma che sarebbe il caso di
rilanciare in nome di un recuperato atteggiamento sperimentale. A significare luoghi ed esperienze artistiche intesi
come verifica pratica di orizzonti futuri. Ma in che senso dirigere tale verifica e quali orizzonti è pensabile
prospettare? Arriverò qui alla parte propositiva del mio ragionamento, che è in gran parte
frutto delle riflessioni che hanno
avuto come prima occasione la tavola rotonda sul teatro nell'ambito della 3a Fiera dell'Autogestione di Marina
di Pietrasanta (6 settembre 1996). Credo che l'alternativa al teatro regolamentato e accasato si ponga quanto mai
oggi all'insegna della necessità: necessità di sperimentare forme diverse in termini di
organizzazione sociale ed
economica, oltre che sul piano creativo ed artistico. Ritengo che, per i giovani che cercano oggi la
possibilità di
realizzare un proprio teatro, un atteggiamento di attesa rispetto alle istituzioni rischi di essere
perdente. Da una
parte, l'esistenza di una legge tenderà a restringere inevitabilmente gli spazi "imprevisti" sui quali hanno
potuto
agire con inventiva i giovani di un ventennio fa; e d'altra parte il ridimensionamento dello stato sociale, con gli
inevitabili tagli alle spese per i servizi culturali, già prelude ampiamente a una logica di razionalizzazione
delle
risorse per il teatro decisamente poco favorevole al teatro giovanile. Si tratterà allora, per chi non abita
case né
territori garantiti, di trasformare l'extraterritorialità in risorsa, ossia in condizione di sperimentazione
positiva.
La vera utopia (nel senso corrente del termine) sarebbe oggi pensare che l'istituzione possa essere in grado di
accogliere l'emergenza teatrale (nei due sensi, di teatro in via di affermazione e di teatro in condizione di
precarietà di mezzi) e dare risposte.
Teatro e case Occorre che il teatro faccia propria la riflessione che, proprio in
tempi di crisi del welfare state, sta dando nuovo
vigore al movimento autogestionario nei suoi vari ambiti. Come creare il nuovo nel guscio del vecchio, questo
è il progetto da darsi nell'immediato, dice Judith Malina. E, fuori di metafora, come creare momenti di
autonomia
dall'istituzione, nel contesto di un sistema teatrale basato su logiche di mercato, attraversato da criteri di valore
sempre più aziendalistici e governato da una burocratizzazione sempre più folle. Parafrasando
una riflessione di
Maria Matteo,(4) credo si tratti di creare una sfera teatrale pubblica non istituzionale. Non nicchie di
sopravvivenza, ma proposte capaci di allargarsi al corpo sociale e pervarderlo, coinvolgendo la partecipazione
diretta dei cittadini, ossia del pubblico, da rendere parte integrante del proprio progetto. Un modo per realizzare
l'obiettivo invocato da tanto teatro di ricerca, di fare dello spettatore non un utente ma un soggetto sociale e
culturale attivo e partecipe, da coinvolgere nel progetto e nel reperimento delle risorse. E occorrerà inoltre
pensare
a forme di economia integrate, per creare condizioni di autofinanziamento che consentano uno svincolamento
(almeno parziale) dall'erogazione dei contributi pubblici. In questo senso, almeno inizialmente, la dimensione
ridotta può garantire la sperimentazione. Esistono esempi di tutto questo, per il momento decisamente
limitati (penso al centro culturale Espace Noir nel
Giura svizzero, ma (5) anche alla comune Urupia, nel Salento, che ha in programma l'apertura di una serie di
attività teatrali). Vorrei citare una sola esperienza, significativa nella sua marginalità. Vicino
a Bologna, in località Castello di
Serravalle, è stato di recente realizzato un progetto chiamato "A teatro nelle case", ideato e organizzato
da due
piccole associazioni culturali, Il Baule e il Teatro delle Ariette (che ha anche un'attività agrituristica). Il
progetto,
completamente autogestito e autofinanziato, ha portato nelle case di quanti hanno offerto la loro
disponibilità una
serie di spettacoli, che sono stati pagati dal contributo libero e volontario degli spettatori. L'anomalia del progetto
ha consentito fra l'altro la realizzazione di eventi altrettanto anomali, come l'incontro con Gino Venturi, un
sopravvissuto dai campi di concentramento nazisti, che ha fatto rivivere la sua memoria di fronte a un pubblico
di adulti e bambini. Nel suo complesso, trovo che l'esperienza sia stata significativa perché ha dimostrato
diverse
cose: che il teatro può entrare in case private e trasformarle in luoghi pubblici non istituzionali; che la
sperimentazione di forme alternative ha maggiore possibilità di successo se condivisa e presa in carico,
a livello
progettuale e organizzativo, da attori e spettatori insieme; e infine che nella situazione attuale è necessario
rimettere al centro le ragioni fondamentali del teatro, lavorare nelle zone che sono in grado di esprimere un
bisogno reale e un'adesione autentica, e farlo attraverso una pratica di sperimentazione a tutto campo, che investa
allo stesso modo la ricerca artistica, le forme di organizzazione e le strategie di sopravvivenza.
1. C. Valenti, Conversazioni con Judith Malina, Milano, Elèuthera,
1995, p. 86. 2. Idem, p. 89. 3. La legge del desiderio, in Teatri di vita,
Bologna, ed. riflessi, a. III, num. 5/6 (maggio/giugno 1997), p. 1. 4. Autogestione e cooperazione
sociale, in "A" 218. 5. Cfr. Arcipelago. Bollettino di collegamento delle agenzie/laboratorio per
l'autogestione, a. I, num. 0, estate
1996, p. 8.
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