Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 238
estate 1997


Rivista Anarchica Online

Musica & idee
a cura di Marco Pandin (marcpan@tin.it)

Voix Vulgaires #2

All'articolo introduttivo dal tono "personale", pubblicato nel numero di maggio, facciamo seguire questa seconda ed ultima parte, dai caratteri più "tecnico-informativi". Il tema è lo stesso: come da qualche tempo annunciato Marco Pandin ha raccolto una serie di contributi musicali e poetici provenienti da varie parti del mondo ed ha realizzato una nuova iniziativa discografica a sostegno del nostro giornale.
Il cd (oppure cassetta) è disponibile presso la nostra redazione (vedi la lista di Musica per A) e presso alcuni altri recapiti di gruppi ed associazioni che ci stanno aiutando nella distribuzione. Ecco una presentazione dell'iniziativa e, di seguito, una guida all'ascolto di "Voix vulgaires #2".

Un avvertimento.
Attenzione. Questa raccolta non è destinata alla normale vendita: è un'iniziativa a sostegno del mensile anarchico e pacifista A/Rivista Anarchica.
Questa scritta, peraltro l'unica, riportata sulla copertina di ogni confezione del cd "Voix Vulgaires #2", è nelle intenzioni molto più di un semplice avvertimento ai consumatori. Lo stesso, ha un significato (soprattutto politico e polemico) molto preciso il non aver pubblicato all'esterno della copertina la lista dei nomi dei partecipanti: significa voler chiarire sin dall'inizio che si è partiti da una diversa origine rispetto a una compilation musicale qualsiasi, e che diversa è stata la strada percorsa come diverse sono le intenzioni, le aspirazioni, l'obiettivo.
"Voix Vulgaires" è un progetto iniziato nel 1990: nato come un'iniziativa senza confini geografici, ideologici o culturali, vuol essere, sotto la forma di una raccolta di suoni, rumori e parole, un vero e proprio viaggio sulle deviazioni della musica popolare contemporanea. Un viaggio che si è scelto di fare proprio lontano dalle strade principali della cultura di massa, lontano dalle linee dei treni ad alta velocità, via dalle autostrade sempre uguali, fuori dagli itinerari pubblicizzati nei dépliant. Un viaggio fatto con il cuore e con la mente, seguendo tracce invisibili o inventandone di nuove. Un viaggio in cui si sono incontrate tante persone che non si conoscevano prima, e che si sono trasformate improvvisamente in compagni di viaggio e sono divenute, alla fine, amici lontani sempre presenti nei tuoi pensieri e di cui ci si preoccupa e si sente la mancanza.

Sembra un normale cd, ma...
"Voix Vulgaires" è anche una raccolta di alcuni dei nastri che la gente ci ha spedito in questi anni. Non abbiamo tentato di migliorare la qualità del suono: i vari pezzi sono proprio così come li abbiamo ricevuti. Sono stati scelti «per quello che dicono» più che per «come suonano»: ci interessavano le idee che stanno dietro alle musiche. Dentro a "Voix vulgaires" c'è di tutto: non c'è un disegno fisso, non sono stati usati dei criteri di selezione per genere espressivo musicale (ma tutto questo è stato spiegato l'altra volta...).
C'è stata gente che si è lamentata perchè la qualità delle registrazioni di "F/Ear this!" e "Voix Vulgaires #1" è altalenante: a brani registrati bene sono affiancate cose registrate così così se non proprio male. E' vero, e con tutta probabilità quelle stesse persone diranno lo stesso di questa e delle prossime uscite.
Potrei riprendere e "aggiornare" un vecchio discorso: critiche simili furono fatte ai Crass a proposito delle loro compilations "Bullshit detector". Anche questa, esattamente come quelle raccolte non-profit che hanno fatto la storia dell'anarchismo in musica, non è e non pretende di essere una produzione musicale di lusso. Nonostante il formato tecnologico all'avanguardia, questo non è un "normale" compact disc con dentro musica da consumare. "Voix vulgaires" è una testimonianza, un documento di «certe cose» (poesie, musica, rumori nella fattispecie) che la gente fa, di come e dove la fa: possono essere stanze di casa trasformate in sale prova o i palchi dei centri sociali, cantine raffazzonate o piccoli studi di registrazione. Nessuno si aspetta che una fanzine assomigli a riviste come Vogue, quindi perchè mai il suono di Voix Vulgaires dovrebbe essere come quello ultraraffinato di Michael Jackson o di Madonna?
La musica di questa raccolta non rientra nelle definizioni di «musica alternativa» che la stampa musicale ci impone. Non troverete niente di queste musiche nelle classifiche di vendita, difficilmente riuscirete a sentire qualche frammento di queste musiche attraverso le radio. Nessuno di questi nomi nelle indie charts, nessuna di queste facce nei giornali specializzati o nei programmi televisivi: i musicisti che partecipano a questa iniziativa non rientrano nell'immagine del «musicista alternativo» che la televisione e la stampa ci offrono. E ancora, questo progetto è distante da quello che loro, i mass media, chiamano controcultura.
"Voix vulgaires" non è la schiuma della metropoli né il grido di dolore delle giovani generazioni, non è hip nè trash nè pulp, non è malessere sociale né provocazione da salotto televisivo, non è emarginazione culturale nè povertà obbligatoria, non fa tendenza e non è punto di riferimento.
«Voix vulgaires» non è etichettabile (non offre indicazioni di uno specifico genere espressivo) nè vendibile (caratteristica fondamentale: è un'iniziativa a sostegno di un giornale anarcopacifista), nè commerciabile (non è distribuito nei normali negozi di dischi). "Voix vulgaires", mi ripeto, ha solo l'aspetto di un normale compact disc. Quella che vi proponiamo è una raccolta di suoni, parole e rumori che, a nostro parere, esprimono il vero spirito dell'alternativa musicale: protesta, indipendenza, impegno, originalità e assoluta mancanza di compromessi. Non si scende a patti sulla libertà di espressione.

Niente nomi in copertina: ma, allora, che cosa c'è dentro il disco?
La scelta di non riportare all'esterno della confezione l'elenco dei partecipanti non vuol essere un modo snob per darvi il brivido dell'imprevisto e tenervi un po' lontani da quello che c'è dentro al cd, ma una maniera (discutibile, se vogliamo) per focalizzare l'attenzione su «cosa» piuttosto che su «chi». S'era fatto lo stesso per «F/Ear this!»: nessun nome in copertina (l'apertura della busta era addirittura chiusa da un adesivo con stampata sopra l'a cerchiata), tutte le informazioni su chi, cosa, dove e quando stavano dentro il libretto allegato.
All'interno di «Voix Vulgaires #2», proprio come per entrambe le iniziative precedenti, c'è appunto un libretto: parole, messaggi, i testi, qualche riferimento, le informazioni di base sui vari contributi. Sono stati anche riportati (quando possibile, e quando richiesto) gli indirizzi per i contatti diretti con i musicisti e poeti partecipanti, cioè per un uso non passivo delle informazioni.

Guida all'ascolto.
Il numero che identifica ciascuno dei pezzi che seguono è quello della sequenza «naturale» del cd.

Benvenuta lucciola, dolce regalo fluorescente della notte. Ti chiamerò faro di speranza. Il sole si spegne lentamente dietro una collina distante, cade al di là dell'orizzonte di oggi. E' il segno della tua alba. Stanotte illuminerai il sentiero dei sogni. Benvenute amiche della notte, vi chiamerò fari di speranza. Stanotte la paura si spegnerà fino ad essere dimenticata, e ci guiderete oltre le stelle. Verso orizzonti nuovi. Domani uno sconosciuto entrerà nella mia casa, nella mia caverna di malinconia. Gli offrirò del pane. Mi darà buone notizie da lontano. Gli darò dell'acqua. Porterà con sé un dono di luce.

1. Linton Kwesi Johnson colora le sue parole del sole della Giamaica e della polvere delle strade di Notting Hill Gate a Londra, GB. Il ritmo affascinante delle onde del mare e il rumore puzzolente delle automobili negli ingorghi dell'ora di punta. E' il poeta della rivolta e, insieme, della speranza: le sue canzoni parlano di prigioni e desolazione, storie di periferie male illuminate da cui domani nascerà la luce vivida della rivoluzione. La poesia Beacon of hope (Faro di speranza) è stata scritta originariamente per l'album d'esordio di Peeni Waali (pubblicato nel 1990 dall'etichetta indipendente svizzera Mensch e puntualmente recensito su queste pagine). Mensch ha anche pubblicato su cd i più recenti lavori del poeta, lì approdato dopo il trasloco dalla major Island.

2. Quello dei Kalahari Surfers di Warrick Sony è un nome "mitico" (e non sarei poi così convinto di chiudere questo aggettivo fra virgolette...): un gruppo di sudafricani bianchi, attivisti anti-apartheid che hanno scelto di combattere, armati di strumenti musicali. Chitarre e sintetizzatori come fucili, canzoni come pallottole. Per questa scelta politica sono sempre stati costretti all'anonimato ed alla clandestinità: negli anni Ottanta le loro registrazioni sono state fatte uscire clandestinamente dal Sudafrica per essere pubblicate in Germania ed in Inghilterra con l'aiuto di Chris Cutler.
Il brano End beginnings è tratto da uno dei loro più recenti album, realizzato in collaborazione col poeta Leseko Rampolokeng (è stato pubblicato nel 1993 dall'indipendente ReR di Londra). Sempre su ReR/Recommended sono disponibili tutti gli altri lavori del gruppo: li potete facilmente trovare tra le altre centinaia di titoli distribuiti dal Megatalogo di Sarzana, SP.

3. Peeni Waali è un nome già conosciuto da quelli che già conoscono il primo volume di "Voix vulgaires": è il nome di un gruppo aperto che ruota attorno a due musicisti svizzeri, Fizzè (già tastierista dei Nimal) e Dizzi (percussionista dei Manoeuvres d'Automne). La loro idea è quella di costruire un'alternativa spontanea ed impegnata alla "world music da Club Med": unire persone e confrontare mentalità e culture, piuttosto che giocherellare in uno studio di registrazione con dei nastri rubati a qualche festa popolare e degli strumenti esotici comprati nei negozi di souvenirs per turisti. Il brano che hanno offerto è un esempio di perfetto riciclaggio compositivo. Per realizzare From Nigeria to Siberia Fizzé e Dizzi hanno manipolato in modo inverosimile le registrazioni originali di un brano dei Manoeuvres d'Automne (che è solo per brevi tratti riconoscibile) e si sono avvalsi della collaborazione del poeta nigeriano Monday Longomokheale per la stesura e la recitazione del testo. Verso la fine dello scorso anno l'indie svizzera Mensch ha pubblicato un cd con una vasta selezione dei lavori passati ed una manciata di inediti e remix, mentre per quest'anno è in programma la pubblicazione del nuovo lavoro "The return of Peeni Waali".

"...Il 1 gennaio 1994 entrava in vigore il Trattato di Libero Scambio tra USA, Canada e Messico, conosciuto come N.A.F.T.A., North American Free Trade Agreement, il libero scambio delle merci che ha creato il più grande mercato comune del mondo per estensione e numero di potenziali «clienti». Un trattato che condannava inesorabilmente a morte i dannati di sempre, i contadini del sud, in maggioranza indios che non parlano lo spagnolo, sopravvissuti in condizioni di spaventosa arretratezza, che coltivano la terra con mezzi arcaici (...). Sono i discendenti dei maya che consideravano il mais una divinità, perchè provvede a sfamarli da millenni, il mais che, con l'accettazione delle spietate leggi di mercato, verrà importato dalle immense aziende agricole industrializzate del Kansas e dell'Oklahoma, dove produrlo costa meno che in Messico. (...) Il treno del Grande Nord ha accelerato la corsa, facendo vorticare le cifre sui tabelloni luminosi della Borsa Valori, ma per fare ciò ha dovuto staccare gli ultimi vagoni, i più vecchi e scassati. E il Chiapas, quello dei campesinos dimenticati da tutti, è stato abbandonato sul binario morto..." (Pino Cacucci, dall'introduzione a "Io, Marcos", Feltrinelli 1995)

4. Restiamo ancora per un brano nella zona dei "nomi già conosciuti dagli affezionati lettori": da Montréal, Québec, ecco i corrosivi Rhythm Activism, vale a dire gli anarco-cabarettisti Norman Nawrocki e Sylvain Côté. La loro N.A.F.T.A. Love Song ha le forme di uno sfavillante spot pubblicitario che descrive il nuovo (e terribile) sogno americano secondo gli accordi economici che legano Canada, USA e Messico. Il brano è tratto dal loro primo cd «Blood and mud» (pubblicato nel 1994 da Les Pages Noires di Montréal, Québec). Da poco è uscito il loro nuovo lavoro su cd, intitolato «More kicks!». Tutti i lavori del gruppo (una decina di cassette di ottima qualità e diversa durata) sono autoprodotti e pubblicati per Les Pagen Noires, i due cd dovrebbero essere distribuiti in Europa dagli olandesi terribili della De Konkurrent.

5. Quello che propongono gli Etron Fou Leloublan è l'arrangiamento, fatto in collaborazione con Fred Frith, del testo di Boris Vian dal titolo La Java des Bombes Atomiques, su musiche di Alain Gouraguer. La registrazione del pezzo è stata fatta in Germania nel 1985, durante le sessions per "Face aux élements dechainées", il loro ultimo e bellissimo disco prima dello scioglimento. Questo brano ci è stato concesso, oltre che naturalmente dai musicisti, da Jürgen Königer dell'indie tedesca Recommen-ded/NoMan'sLand che l'aveva pubblicato in un sampler. I vecchi dischi del gruppo, da anni introvabili ed ambita preda dei collezionisti, sono stati ristampati su cd e raccolti in uno specially priced box (in Italia la distribuzione è a cura del Megatalogo).

Lei gira e ti porta via, gira senza un dove e ti porta via
ti coccola col canto e ti spinge via, ti insegna la sua voce.
Ma quello che ho già scoperto
è il trucco di credere che dentro ogni sogno un uomo si stia sognando
che non occorre alzarsi in piedi per vedersi girare,
non serve alzarsi in piedi...

6. Dopo una cassetta d'esordio davvero pirotecnica intercettata su queste pagine di rilancio dalla rivista Usmis, i Mitili F.L.K. (sta per Furlan Liberation Kongress) hanno pubblicato un cd (attenzione: dovrebbe essere prevista in queste settimane l'uscita del secondo) e suonato in molti concerti. Propongono una musica difficilmente etichettabile, ricca di influenze certo, ma ancor più ricca di originalità. Facendo della vivisezione sonora a livello becero, potremmo dire che a volte sembrano un gruppo pop balcanico che suona pezzi degli Area, altre volte una bizzarra formazione di liscio evoluta verso l'etno-rock, altre volte ancora un'affascinante ensemble jazz-popolare. Tutto vero, e tutto falso: i Mitili sono i Mitili e basta. Del loro speciale impasto di influenze ed originalità è un buon esempio Gjostris, la canzone che ci hanno regalato. Il testo, come del resto l'intero repertorio del gruppo, è in lingua friulana: una lingua sorprendentemente duttile e musicale. Il brano è tratto da "Ratatuie", demotape del 1993. I cd dei Mitili sono autoprodotti e distribuiti dalla Compagnia Nuove Indie.

7. Caveman Shoestore è il nome di battaglia del gruppo del batterista Henry Franzoni (all'attivo uno stupefacente demotape, un 7" ed un cd pubblicati da Tim Kerr a Portland, Oregon USA), del quale fa parte anche Fred Chalenor, bassista dei compianti Tone Dogs. Darwin was Wrong è un testo amaro, scritto e recitato da Henry.

8. Quello di Jello Biafra è un nome che dovreste conoscere bene, legato a doppio filo con il più irriverente e pericoloso gruppo punk americano, i Dead Kennedys. Impossibilitato a inviare delle nuove registrazioni, Jello ci ha lasciato scegliere a nostro piacere dalla sua discografia: Vietnam Never Happened! è un pezzo sconvolgente di spoken word sulla commercializzazione della guerra, che è stato tratto da "No more cocoons" (pubblicato nel 1987 dall'Alternative Tentacles di San Francisco USA). Praticamente tutta la produzione musicale di Jello Biafra e dei Dead Kennedys è disponibile su cd tramite l'Alternative Tentacles, distribuita in Italia grazie a Wide Records di Pisa. I lavori di spoken word di Biafra sono tutti nell'enorme catalogo di mailorder degli anarcorivoluzionari scozzesi dell'AK Press.

Combatte per l'Italia, combatte per la Francia, combatte per gli USA. Gli ordini non gli arrivano da lontano: arrivano da qui. Arrivano da te e da me, lo capisci? Ancora quanto tempo dovrà passare prima che si riesca a fermare la guerra?

9. Dire che Eugene Chadbourne è uno sperimentatore e un ricercatore è riduttivo. Dire che Eugene Chadbourne è un virtuoso del suo strumento, la chitarra, è dire solo una piccola parte della verità. Per spiegare Eugene bisogna esagerare. E' autore di una discografia eclettica e sconfinata (ricca di dozzine e dozzine di titoli tra album solisti e collaborazioni, senza contare le innumerevoli cassette autoprodotte), musica senza schemi suonata indifferentemente in compagnia di sconosciuti e di grandi nomi della radical and improvised music di tutto il mondo. Il suo è un repertorio che spazia nei più diversi generi musicali e nel tempo: Eugene sa far rivivere miracolosamente Hank Williams, Jimi Hendrix e Frank Zappa (che sorridono e benedicono, compiaciuti, dall'aldilà), mescola pezzi suoi a canzoni di lotta e agli inni dei pacifisti di Woodstock. Mescola rock, canzonacce da osteria, pop, folk, canzone sociale, inni, blues. Chi ha avuto la fortuna di assistere ad una sua esibizione dal vivo sa bene che un concerto di Eugene Chadbourne riserva delle incredibili sorprese: ad esempio il medley apoplettico tra una versione pseudo-country di "I talk to the wind" dei King Crimson ed una canzone al vetriolo contro la pornografia e "Mr. Soul" di Neil Young separate da un intervallo per una strabiliante chitarra-sturalavandino elettrica, o da un assolo di chitarra-rastrello amplificata e distorta. E' da un suo concerto a Padova del 1989 che è tratta Universal Soldier, un inno antimilitarista composto sul finire degli anni '60 dalla songwriter nativa americana Buffy Saint Marie.

Se ti fermi a chiedermi
E adesso? Dove adesso?
Ti aspetti davvero che ti dia una risposta?
O, più semplicemente, non è dalla tua coscienza che cerchi una risposta?
Io posso soltanto dirti qualcosa, sperando che si riesca a trovare un punto comune.
Nel frattempo noi conosciamo più profondamente noi stessi
e una parte l'uno dell'altro.

10. Questa è l'ultima registrazione ufficiale dei punks anarcopacifisti inglesi Crass. Un brano molto lungo, articolato e sofferto: il testo di Ten notes on a Summer's day è stato scritto da Penny Rimbaud nell'estate del 1984, le musiche composte e registrate l'anno successivo.
Si tratta di una composizione strutturalmente piuttosto complicata e per molti versi atipica: è una ricerca in territori sonori distanti dal sound che rendeva il loro repertorio così particolare e loro immediatamente riconoscibili all'ascolto. Nell'intero corso della loro attività i Crass si vennero a collocare in un'inedita ed inesplorata terra di mezzo tra la vecchia generazione di anarchici e i giovanissimi anarcopunks. L'età anagrafica (soprattutto) e la formazione culturale dei vari componenti potevano farli vedere più facilmente come anarchici "in senso tradizionale", mentre le strategie di comunicazione ed il linguaggio sonoro del gruppo venivano essenzialmente rivolti verso le nuove generazioni. Le forme musicali articolate e scomposte di questo pezzo e soprattutto la forma poetica del testo esprimono il desiderio di voler scavare più a fondo nella filosofia del punk e dimostrarne valori e complessità, contrariamente all'immagine riportata dai mass media che si soffermavano solo sulla banalità delle musiche e sui tratti culturali più violenti e superficiali. Ten notes è stata pubblicata nel 1985 solo su un 12" in tiratura limitata: è la prima volta che viene riproposta. Alcuni dei vecchi dischi dei Crass sono stati ristampati e commercializzati anche su cd: in Italia sono reperibili, e a prezzo corretto, presso Wide di Pisa.

11. La canzone offerta da Stefano Giaccone è una versione di Dante Di Nanni. E' una canzone speciale, per motivi di cuore se volete. Per quelli che, come me, adesso sono attorno ai quarant'anni quello degli Stormy Six è un nome ed un ricordo caro. 1975: avevo diciott'anni. I miei primi incontri con la "musica alternativa" li ho avuti in occasione di un concerto di Henry Cow ed Etron Fou Leloublan: arrivarono in un paio di vecchi furgoni poveramente adattati a camper, e si dimostrarono persone semplici ed affascinanti, condivisero il nostro cibo e ci fecero assaggiare il loro. Non era come agli altri concerti, dove spesso noi si andava "a guardare" e "per esserci": con loro nonostante la diversità delle lingue si poteva parlare, scambiare delle opinioni, persino scherzare. La sera, più che ad un concerto sembrava di stare ad una festa, a una specie di circo misterioso e felice. Quel pugno di giovani girovaghi offriva suoni e vibrazioni che non avevano nulla a che spartire con la musica ascoltata prima, ma soprattutto col loro atteggiamento semplice, aperto e sorridente erano riusciti a compiere un miracolo: i ruoli di "musicista" e "spettatore", le etichette "rock" e "jazz" erano improvvisamente divenute espressioni del tutto prive di senso.
Chris, Fred, Ferdinand e Guigou ci raccontarono che da qualche tempo si era stabilita una serie di collaborazioni e contatti tra musicisti di paesi diversi, un'organizzazione che avrebbe in seguito preso il nome di Rock In Opposition: un manifesto, una bandiera, più che un ombrello sotto cui raccogliersi per ripararsi dalla pioggia battente dell'emarginazione. Rock In Opposition aveva una base anche in Italia: un gruppo milanese, gli Stormy Six. Il loro era un impegno politico reale dichiarato ad alta voce e a muso duro sui palchi dei concerti, sulle copertine e dentro ai solchi dei dischi e nella pratica della gestione (con metodi e strategie che in qualche modo anticiparono l'intransigenza del punk) di un'etichetta discografica indipendente, la Cooperativa L'Orchestra.
Stefano Giaccone ha ripreso la storia di Dante Di Nanni da quel capolavoro che è "Un biglietto del tram", un album stupendo pubblicato nel 1975. Dopo il fallimento della Cooperativa L'Orchestra il gruppo fu costretto a pagare (e caro) di tasca propria le scelte coraggiose che avevano contraddistinto pratiche, esistenza e sogni degli Stormy Six: il fatto di aver ceduto i diritti editoriali a case discografiche estranee alla logica dell'autogestione, dell'autoproduzione e dell'impegno sociale ha sino a poche settimane fa impedito la riedizione di grande parte delle loro opere.
E che cosa mi resta da dire di Stefano? Che è un amico, un amico vero e caro, un compagno, che la sua vita è una costellazione di idee, progetti e sogni, che le sue canzoni hanno disegnato l'aria tutt'attorno alla mia (solo la mia?) vita di questi ultimi quindici anni.

12. Il primo incontro con i cinesi Blackbird (cinesi di Hong Kong: quando leggerete queste righe con tutta probabilità in quella parte del mondo la vita non sarà così tranquilla) l'ho avuto nel 1984, al Meeting Internazionale Anarchico di Venezia. Da allora, con le inevitabili pause di silenzio, il rapporto d'amicizia e collaborazione è sempre stato vivo.
History of Hong Kong è un pezzo costruito su una melodia tradizionale popolare, il testo è stato modificato, reso adatto ed aggiornanto alla situazione contemporanea. E' tratto da "East is red", uno dei nastri che il gruppo ha autoprodotto nel 1984. Nel 1995 i Blackbird hanno pubblicato un cd ("Uniracial subversion", recensito prontamente su queste pagine) che comprende musiche e poesie raccolte durante un loro viaggio attorno al mondo.

13. Quante cose si sono scritte, quante cose si sono dette su di lui... Quante volte, specialmente in questi ultimi anni si è vista la sua faccia sbattuta nei manifesti sopra ai muri, sulle t-shirts e sulle bandiere in piazza: vita-morte-mito come merce. Una visione tristemente lontana dalle cose per cui il Che aveva combattuto.
Si sentono spesso parlare di lui gli altri: è più raro sentirlo parlare, lui, Ernesto Guevara, el Che. Questa è una di quelle rare occasioni: un'intervista breve del 1964, calda, umana, spiritosa, trasmessa dall'emittente KPFA di Berkeley, California USA, nell'ottobre 1987. Un'intervista che è stata messa qui dentro con la speranza che qualche programmatore radiofonico l'ascolti e la usi ancora, magari trasmettendola il prossimo ottobre, quando saremo a trent'anni di distanza dall'assassinio del Che. E con la speranza, ancora più grande, che queste parole restino nell'aria.
La registrazione ci è stata inviata da Don Paul della Revolutionary Records di San Francisco, ed è tratta dalla raccolta "Till the bars break, a compilation of Black and North American Indian resistance, words and music» pubblicata da Revolutionary Records nel 1991.

14. Lalli è una delle figure di primo piano della scena underground italiana, oltre che una cara amica e compagna. Di lei, e della sua voce, si è detto/scritto tanto anche su queste pagine. Sono più di vent'anni che Lalli combatte il grigiore quotidiano con la poesia delle sue canzoni, che scaldano il cuore e la mente di chi le ascolta. Vent'anni che non pesano sul suo atteggiamento semplice e gentile, sull'entusiasmo che la spinge a tuffarsi in sempre nuove iniziative e sperimentazioni, sulla disponibilità sorridente che la contraddistingue. Tempo di Vento è un pezzo sinora inedito, che la vede accompagnata dalla chitarra elettrica di Mario Congiu.

Hai seguito la tua strada sino alla fine. Chiamavi il trionfo questa fine del cammino. Siamo stati al tuo fianco, Buenaventura Durruti, ti abbiamo accompagnato sino alla fine del cammino. Il tuo nome, Buenaventura. Ti abbiamo creduto sino alla fine, Durruti. Abbiamo creduto al tuo nome d'avventura. Piuttosto che vivere in ginocchio, meglio morire. Barcellona, 1936. Si spara in calle Fernando, è vicinissimo. Dall'alta sponda della nave, cento cannoni bombardano il porto. Buona fortuna, Buenaventura...

15. Avevo contattato Tony Coe tramite Jean Rochard dell'indie francese Disques Nato per chiedegli l'autorizzazione all'uso di una sua versione a dir poco stupenda di "Hasta siempre Comandante»: avevo recuperato la registrazione di Che Guevara tramite Don Paul, e mi sarebbe piaciuto affiancare le due cose.
Jean, disponibilissimo, mi ha parlato però di una montagna di esagerati problemi legali e di copyright che ha dovuto affrontare per poter pubblicare quel pezzo: d'accordo con Tony ha allora offerto questa composizione su Buenaventura Durruti, ritenendo che sarebbe stata perfetta per una compilation a sostegno di una rivista anarchica. Avevano perfettamente ragione. Il brano è tratto da quel capolavoro che è "Les voix d'Itxassou», pubblicato da Disques Nato nel 1990.

16. Nel 1974 venne pubblicato un disco che, al tempo, non si sapeva proprio come affrontare. Ne aveva portata una copia in radio uno dei compagni giramondo che ogni tanto curava le trasmissioni notturne, uno sulle sue, uno che spariva, girava l'Europa in autostop, poi improvvisamente tornava carico di libri, vestiti, dischi, riviste, storie. Quel disco mescolava poesia, musica elettronica, suoni e rumori: un collage sonoro furioso ed indescrivibile, proprio come il collage inquietante (occhi, bolle, pianeti, fiori) che campeggiava in copertina. Quel disco era "Linguistic leprosy" di Lady June, poetessa e pittrice, la cui rotta artistica era venuta a collidere con quella del pianeta Gong e degli asteroidi impazziti Lol Coxhill, Robert Wyatt, Kevin Ayers (tuttora suo vicino di casa nell'esilio di Maiorca).
Connotations è una poesia di qualche anno fa, letta da una Lady June che non accusa il peso degli anni, accompagnata alla chitarra acustica da un "menestrello senza nome", un anonimo strumentista vagabondo incontrato per caso sulla spiaggia di Deya. La registrazione è stata fatta con mezzi di fortuna: sono cose che succedono, quando l'arte non è al servizio del mercato, quando la creatività non è in vendita. Di Lady June è uscito pochi mesi fa un nuovo album: il secondo in venticinque anni. E rigorosamente autoprodotto.

"...Chi è Marcos? Marcos è un nero in Sudafrica, un omosessuale a San Francisco, un anarchico in Spagna, un indio in Messico, un pacifista in Bosnia, un palestinese in Israele, un comunista dopo la fine della guerra fredda, una donna sola in una notte di Sabato in ogni metropoli messicana, uno studente infelice, un dissidente nell'economia di mercato, un artista senza galleria e, naturalmente, uno zapatista nel Messico sud-orientale. Marcos è tutti gli sfruttati, gli emarginati, le minoranze oppresse che resistono e dicono basta... Se volete vedere che volto c'è dietro il passamontagna è molto semplice: prendete uno specchio e guardatevi..."

17. Un viaggio attorno al mondo, a "quel mondo che ci interessa", non è tale senza passare per il Chiapas. Come lasciare fuori da "Voix Vulgaires" il Subcomandante Marcos? Ecco il suo discorso tenuto il 7.1.1996 in occasione del Foro Especial de Derechos Indigenas, San Cristobal de las Casas, Chiapas, Mexico. Non un discorso formale, piuttosto una storia, una parabola, una leggenda: la leggenda dei sette arcobaleni. Non c'era l'intenzione, e neanche la possibilità "tecnica", di fare un discorso formale: Marcos è sbucato dalla foresta a cavallo, ha letto questi fogli, è sparito ancora. Dietro a lui i cani da caccia, la CIA, l'esercito e la polizia messicana.
La registrazione ci è stata gentilmente concessa da Massimo Tennenini, che assieme a Fiamma Montezemolo ha realizzato il cortometraggio "Gli uomini senza volto".

18. All'inizio di questo pezzo si sente distintamente il vagito di un bambino appena nato. Il rumore della vita che comincia, il rumore che prendono le speranze. Anche il testo è un collage di frasi che descrivono il sogno di un mondo più bello, più giusto, più tranquillo e pacifico, più colorato. Voci di bambini e di grandi vecchi (qui dentro nientemeno che la voce da brivido di Taj Mahal), risate in faccia alle avversità dell'esistenza. Violini strappacuore, arrangiamenti strappalacrime e melodie strappabudella: Peeni Waali colpisce al cuore con Colorace, inno all'arcobaleno delle diversità.

19. E in chiusura? Un frammento bizzarro: una "cosa seria" trattata con spirito giocoso. Non una presa in giro, sia chiaro, piuttosto un sorriso aperto, una nuvola che spruzza di pioggia una mattina di sole: i Rhythm Activism propongono una versione al tempo stesso rigorosa e buffa di Quando l'Anarchia Verrà. Una maniera un po' particolare per dire che il gioco continua.