Rivista Anarchica Online
Sionismo e anarchismo
di Pascal Touch
Identità, esilio, internazionalismo, nelle riflessioni di un sionista anarchico
Un soggetto poco comune Bisogna ammettere che, anche se in giro ci sono
sempre più anarchici, il movimento rimane comunque in gran
parte confidenziale. Per questo non è un fatto usuale discutere di questa filosofia sociale che oggi attiene
più al
campo dell'azione che a quello della riflessione. In un altro senso, ma con l'identico risultato, bisogna
ammettere che, se pure i sionisti sono numerosi, la
discussione di principio non varca i limiti degli ambienti ebraici. In effetti il termine di sionismo provoca
l'anatema più che lo scambio di vedute. Oggi il sionismo è politically incorrect. L'antisionismo
è anche, di
regola, di sinistra, e serve nel migliore dei casi a giustificare la causa araba, nel peggiore da paravento
all'antisemitismo. D'altro canto è interessante vedere come certi apologeti del marxismo più
dottrinario si
convertano al revisionismo prima di unirsi alle schiere dell'estrema destra. Ma non è questo il mio
intento. Sionismo e anarchismo non hanno nessun rapporto con gli andamenti ondivaghi
dei difensori dell'ideologia totalitaria.
La mia storia personale Sionismo e anarchismo formano la trama della mia
storia personale. Ecco perché questo testo è stato per me
l'occasione per un chiarimento e per una ricerca. Non metterò in contrasto i due termini. Le due idee
non appartengono allo stesso ordine. L'anarchismo è una
filosofia che si allarga per diventare una teoria sociale. Il sionismo è un movimento che, partendo dal
senso di
identità, si materializza nell'esistenza di uno Stato e nella trasformazione di un popolo. Risalendo
all'origine, noto come un individuo non scelga freddamente le proprie idee confrontandole
scientificamente sul catalogo delle filosofie in offerta sul mercato. Un individuo, in movimento in quanto
vivo, si ritrova e si realizza in una come in più idee, simultaneamente o
successivamente. Certe volte, poi, non si realizza affatto o pensa di non avere idee, o si lascia trascinare
nell'esistenza senza ricercare. In tutti i casi, a partire da una storia e attraverso un profilo psicologico, le idee si
fanno strada e si accomodano nella sua testa. Tutto ciò rappresenta una presa di posizione,
consapevole o no, rispetto all'unico vero interrogativo: chi sono,
da dove vengo, dove sto andando? Bisogna aggiungere: in quale stato sto vagando?
Le risposte possono essere tante e vanno dalla fede in Dio al principio del piacere. Tutte hanno in comune
il
passaggio per il potere e in generale il potere sull'altro. La scommessa dell'anarchia è quella della
realizzazione
dell'individuo attraverso il potere su se stesso e senza oppressione dell'altro.
Combattere il potere L'uomo, animale sociale, esiste solo per la società
e grazie a lei. La sua fragilità alla nascita, la durata del periodo
di apprendimento lo integrano in modo definitivo, per cui il rifiuto della società è già un
rivendicare al contrario
lo stato di animale sociale. "L'inferno sono gli altri", perché il permanere del bisogno degli altri
s'impone come ostacolo definitivo alla piena
e completa esistenza individuale. Allora la risposta istintiva è quella del potere sugli altri. Ma sono
possibili altre strade. Infatti l'individuo può trovare la sua completa realizzazione nella relazione con
l'altro. Per questo bisogna combattere il Potere. Questo passa dalla conoscenza dell'altro, la condivisione di
modalità comuni e il riconoscimento della differenza. É ovvio che questo modo di procedere non
dev'essere
imposto né da un'autorità esterna né da una ragione qualsivoglia, neppure da quella
suprema di un qualche Dio. La scelta dev'essere compiuta dall'individuo per se stesso. Per chi rifiuta il
Potere l'obiettivo è rappresentato dal saper gestire la relazione con l'altro, e quindi la parola e
il Verbo. ยป chiaro che la gestione della relazione non significa manipolazione, ma condivisione, scambio,
fraternità. Per motivi che riguardano solo me e la mia psiche, io ho deciso di rifiutare il rapporto
dominante/dominato.
Questo rifiuto si fa teoria quando incontro l'anarchismo. Mi piace questa filosofia, che vuole istituire una
società
senza rapporti di potere. Certo, si tratta di un ideale. In effetti, nonostante la mia repulsione per le situazioni
dominante/dominato, il mio
posto nella società lo prendo attraverso rapporti di potere. E tuttavia, essendo anarchico per idee e forse
per
natura, cerco di stabilire rapporti diversi. Questa ricerca dà senso alla mia esistenza e mi conferisce questo
battesimo laico: sono un uomo tra gli altri uomini. Ma l'anarchismo è qualcosa di più di una
filosofia d'uso individuale. Esso pone la necessità di modificare i
rapporti sociali, perché se l'individuo è riconosciuto, non è misconosciuta la pressione
sociale. Per l'anarchico l'individuo non è solo il prodotto del proprio ambiente e allo stesso modo non
è parte della
volontà collettiva. Ma è anche questo, e la sua liberazione passa dal saper gestire la pressione
sociale. In quanto risultato di molteplici rapporti di potere, la pressione sociale va oltre alla semplice
costrizione materiale.
I rapporti di potere non sono solo quelli che derivano dalla lotta per i mezzi di sopravvivenza. Essi si fondano
anche sul possesso del sapere, della decisione politica, oppure di una sedicente supremazia legata alla razza o al
sesso.
Sopprimere il potere Così, per me, l'individuo è unico e
indivisibile, di volta in volta dominante, dominato e, per fortuna, certe volte
anche uguale. In ogni caso, pur subendo la pressione sociale, egli conserva sempre un potere sul proprio destino.
La prova più lampante di questo fatto è la capacità del dominato di trasformarsi in
dominante. Lo schiavo più
miserabile esercita un dominio sulla propria famiglia e talora sul proprio operare. Io credo, nel senso più
forte di
questo termine, io credo che si conservi sempre un'oncia di potere sul proprio destino. Mentre milioni di ebrei
subivano le persecuzioni e si lasciavano morire nei campi, quelli del ghetto di Varsavia
decisero di morire a testa alta e ripresero in mano il proprio destino. Questa fede nell'individuo, l'anarchismo
la mette alla base del proprio pensiero sociale. La lotta tra le classi
assume allora un'altra dimensione. Non è più questione del dominio di una classe sull'altra, la
dittatura del
proletariato è negata e la questione è appunto la soppressione del dominio. Proudhon poneva
una variante platonica dell'idea che si viene scoprendo ed è appunto della ricerca della verità
che si tratta. Lasciando ai marxisti la verità rivelata, gli anarchici conducono una battaglia diversa.
L'azione
sociale non è un fine in sé: la lotta si porta sì contro le classi dominanti, ma permette
anche di realizzare tra gli
anarchici una relazione che sfugge ai principi del Potere. Non è possibile separare queste due
battaglie: quella per il miglioramento dell'individuo e quella per il progresso
della società.
Rivoluzione Io non credo a un cambiamento rapido e radicale della
società. Una trasformazione del genere, anzi, mi fa paura. L'esperienza verifica la teoria. davanti a
una rivoluzione gli uomini formatisi nella vecchia società si spaventano
e si cercano padroni nuovi. Sono nati così gli Stalin e gli altri dittatori nel nome del socialismo.
Invece, la Spagna repubblicana ha saputo
trovare forme diverse d'organizzazione, perché, prima del '36, anni di pratica avevano cambiato gli
uomini. É ovvio che le cose non sono così semplici e questo mio breve compendio è
riduttivo. Resta comunque il fatto
che la paura e la frustrazione dei piccoli sono mostruose quanto la crudeltà e la protervia dei
grandi. Per stabilire rapporti che superino il dominio, la lotta condotta all'interno di un'organizzazione
libertaria è un
mezzo importante. Non è l'unico, ma assommando il peso della rivendicazione sulla società e il
lavoro sulla
relazione tra individui, secondo me, il sindacalismo libertario si rivela essere la strada maestra
dell'emancipazione. Quanto alla trasformazione radicale della società, questo è l'obiettivo
che spetta alla generazione che sarà pronta
a realizzarlo. Non si passa dall'essere schiavi all'essere liberi senza percorrere un certo cammino. Così
la società
senza classi e senza Stato è questo sogno che dobbiamo condividere e rappresentare come una sorta di
comunione
laica.
Qualche semplice idea Ecco rapidamente esposta qualche semplice idea che
orienta il mio modo di procedere. Non sono un ideologo,
e tutto questo è un po' raffazzonato. Ma il brillante successo degli intellettuali rappresenta un
incoraggiamento
a pensare semplice e con la propria testa. Da Stalin a Pol Pot, i grandi del pensiero hanno giustificato tutti
gli abomini di questo secolo, hanno dimostrato
tutto e il contrario di tutto. Allora sì, qualche pagina di Proudhon, un rapido volo su Platone, qualche
romanzo di Malraux e di Camus, ed
ecco che noi, i piccoli, siamo capaci di pensare, semplice ma giusto. Il risultato non sarà peggiore di
quello dei
tempi in cui delegavamo ai laureati questa funzione essenziale: pensare. Da anarchico, io rispetto gli altri
come rispetto me stesso e pertanto attribuisco un valore a tutti i prodotti della
riflessione umana. Ciò non vuol dire che io accetti tutte le ragioni. Significa che tengo conto non
aprioristicamente
di quello che dicono gli altri, senza fermarmi né alla condizione sociale né ai titoli universitari
del mio
interlocutore. Con Proudhon, penso che la verità si sprigioni dai fatti. per di più, mi sembra
che i fatti non abbiano valore se non
attraverso gli uomini che li vivono e li filtrano. Mi oppongo quindi anche al discorso tecnocratico di pretesa
obiettività o scientificità. Infine, rispettando me stesso e rispettando l'altro, rispetto l'ambiente
in cui vivo: animali e piante, naturalmente,
ma anche il mondo che mi sta intorno nella sua complessità chimica, in quanto assicura la vita, il principio
dei
principi. L'antropocentrismo è per me una tara, nata dal dominio di un sedicente spirito su
una supposta materia. La scienza moderna ci insegna che i limiti della materia non ci sono noti
e appaiono molto relativi. Io credo a
una continuità tra materia e spirito. Rifiutare il creatore non elimina l'anima e se è necessario fare
a meno di Dio,
resto convinto che questo è solo per meglio scoprire l'idea.
La vita in primo luogo L'anarchico crede nella vita
in primo luogo, la vita che impone agli uomini una pratica di fraternità, di libertà e
di uguaglianza. Pensare che l'uomo sia più o meno responsabile del proprio destino significa riconoscergli
un
supplemento di spirito che potremmo chiamare "anima umana". In mancanza di questo accessorio, dell'anima,
non resta niente d'incerto, né di bene né di male, di bellezza,
d'amore o d'odio, di potere, di piacere: l'uomo diventa uno schema meccanico. Ora, la mia stessa esistenza, fatta
di contraddizioni e di slanci affettivi, costituisce di per sé una prova dell'inanità dei pensieri
materialisti
meccanicisti. Quanto all'apparente contraddizione tra l'uomo animale sociale e uomo portatore di un'anima,
questa si risolve
come si risolve quella che riguarda la questione della luce, materiale o immateriale. La dialettica dei contrari cara
a Proudhon è perennemente operante nell'universo come all'interno dell'uomo. É così che
per me la vita acquista
il proprio senso. Poi, basando il mio atteggiamento sociale su qualche principio filosofico e morale che ho
appena esposto, io
respingo ovviamente lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo con tutti i corollari che questo comporta, dall'esercito
al potere della scienza, passando dalle oppressioni religiose, colonialiste e sessiste. Così facendo,
rivendico la
società senza classi, senza Stato e senza dominio dell'uomo sulla natura o della natura sull'uomo. Ecco
com'è
il mio essere anarchico. Il sionismo è un'altra storia e il termine "storia" è qui il più esatto
che esista. Perché si
tratta proprio di storia. In effetti la parola sionismo rimanda a quella di ebreo, perché il sionismo
è spesso definito il movimento per il
ritorno degli ebrei in Israele. Il quale ritorno in Israele è una costante della storia ebraica, che non
è che una serie
di esili e di ritorni. Ma non voglio anticipare niente e ritorno al sionismo che richiama il termine di ebreo e che
accetta numerose definizioni. Fin dall'antichità gli Ebrei, o Giudei, sono stati un popolo la cui storia
è raccontata in diversi testi, il principale
dei quali è ovviamente la Bibbia. Popolo monoteista, unito da una terra, una cultura e una religione, ha
partecipato
alla vita intensa dell'area mediorientale prima dell'Impero Romano. Quando dico popolo, non parlo
necessariamente di popolo in termini di generazione per sangue, ma di un gruppo
umano che ha un destino comune. In effetti, per esempio, chi può certificare che il popolo uscito con
Mosè
dall'Egitto fosse per sangue quello che vi era entrato? Queste genti che si liberano dal Faraone possono essere
il popolo ebraico, ma anche la classe inferiore, unita dagli
ebrei intorno a un progetto di liberazione. Così dicendo, prendo immediatamente le distanze da una
visione razzista del popolo ebraico. Rabbini o antisemiti,
coloro che definiscono gli ebrei in base al sangue, non hanno capito niente del progetto universale del
giudaismo. Sarebbe tempo di riflettere sulla missione di Giona. Il popolo ebraico, dunque, subisce un'altra
volta l'esilio nel primo secolo dopo Cristo. L'esilio degli ebrei è allora
molteplice e continua ancor oggi... Certo, fin dal XII secolo, su invito dei sultani turchi, alcuni ebrei ritornano
in Palestina. Ma sono un'infima
minoranza. Se attraverso il guidaismo si trasmette il culto di eretz Israel, bisogna arrivare al 1890 perché
gli ebrei
comincino a pensare concretamente a un ritorno collettivo. Non dirò che cosa siano stati i diciannove
secoli d'esilio: la storia è fin troppo feconda e varia. Resta il fatto che
alla fine dell'Ottocento esistono importanti comunità giudaiche in tutta Europa, nel Maghreb, in America
e in
Australia.
Dal francese israelita Alla nascita del movimento
sionista, in Francia, la comunità ebraica è costituita principalmente da ebrei francesi,
ma cominciano ad arrivarne altri che provengono dall'Europa dell'est. Gli ebrei francesi dell'epoca non si
definiscono d'altra parte ebrei, ma israeliti. Figli della Rivoluzione francese, sono integrati nel sistema laico
repubblicano come operava all'epoca. Sono
francesi di religione israelita. Non esiste una forte rivendicazione d'identità ed è per questo che
l'affare Dreyfus
li prende in contropiede. Non esiste nemmeno un forte sentimento di solidarietà con gli altri ebrei della
Diaspora.
Questo stato d'animo si perpetuerà d'altronde fino alla Seconda Guerra mondiale tra gli ebrei d'origine
francese. Non bisogna dimenticare che le istituzioni comunitarie saranno fedeli alla Francia fino a
Pétain, tentando
addirittura di salvarsi la pelle a spese degli ebrei immigrati. Questi ultimi, invece, non si faranno coinvolgere nella
farsa legittimista e ben presto formeranno i contingenti più attivi della Resistenza, soprattutto i FTP-MOI
(Francs
Tireurs et Partisans - Main d'oeuvre ouvrière immigrée). É facile capire allora che
gli ebrei francesi non erano ardenti sionisti prima del 1945. In effetti il sionismo, ispirato
da Herzl, si dichiara un movimento di liberazione e socialista. Si tratta di dare agli ebrei una patria. E, voglio
sottolineare, i primi ebrei volevano creare una patria ebraica e non uno Stato ebraico. D'altronde, fin dal 1890,
gli ebrei dichiarano la loro volontà di rispettare le popolazioni arabe e intavolano negoziati con le
autorità
religiose della Giordania e dell'Arabia Saudita. Le prime ondate di ritorno in Israele, di quelli che si chiamano
gli allyas, riguardarono soprattutto gli ebrei dell'Europa orientale, impregnati di socialismo e in
generale poco
o per niente religiosi. Tra le due guerre, sotto il mandato britannico, arrivano altri allyas. Ma
la colonizzazione in massa comincia con il ritorno dai campi, nel 1945. In questo caso si tratta di
allyas spinti
dalla situazione storica. Il sionismo non è più una scelta individuale, ma qualcosa cui ricorrono
le popolazioni
disperse nel dopoguerra. Gli inglesi lasceranno la Palestina in fretta e furia. E malgrado i numerosi negoziati,
la buona volontà dell'ONU
non porterà alla stabilizzazione di due Stati, ma alla creazione di uno solo nel sangue e nell'odio. Il
sionismo entra allora in una nuova epoca. I nuovi allyas saranno d'ora in poi allyas
nei confronti dello Stato
ebraico. Non si tratterà più di dare un'anima e uno spazio all'ebraismo, ma si tratterà
soprattutto di difendere
Israele. Intanto gli ebrei francesi riscoprono di essere ebrei e non solo israeliti. La shoah li ha rivelati a loro
stessi. Questo
movimento tenderà sempre più ad accentuarsi dopo la guerra dei sei giorni, nel 1967. Sulla scia
della Resistenza
e della rivolta del ghetto di Varsavia, un ebreo nuovo si ridesta, un ebreo che non è più un vinto
e un perseguitato.
... all'ebreo sionista É il periodo in cui al complesso di persecuzione
e alla ricerca di un'onorabilità si sostituisce il complesso di
superiorità. E tutti, o quasi tutti, gli ebrei della Diaspora si dichiarano sionisti. Non perché
crescono in Israele,
ma perché sostengono il loro Stato. Il francese israelita scompare e lascia il posto all'ebreo sionista.
Vichy ha definitivamente sepolto uno spirito laico
repubblicano che non aveva saputo evolversi. Gli ebrei riflettono per Israele e grazie a Israele. Inoltre dalla guerra
nasce una solidarietà internazionale che accompagnerà la rinascita culturale degli ebrei, tramite
o al di là dei
legami religiosi. Negli anni ottanta si assiste a un'evoluzione degli ebrei francesi. Sotto la pressione dei
sefarditi di origine
nordafricana, le correnti religiose si radicalizzano, pur restando nettamente minoritarie. Si sviluppa un sionismo
messianico e fascistizzante. Ma, nello stesso tempo, altri ebrei prendono coscienza della tragica sorte dei
palestinesi. La politica d'Israele è infatti contraria ai valori ebraici di universalità e lo sviluppo
di un ebraismo
laico si coniuga con una rimessa in discussione del mito dello Stato ebraico senza macchia e infallibile.
Ma a che servono gli ebrei? L'avanzata del movimento ebraico liberale, lo
sviluppo di correnti che si dichiarano di un ebraismo laico , sono
altrettanti indici di una trasformazione degli ebrei. Non riconoscendosi nel vecchio laicismo che livella verso il
basso, gli ebrei cercano rapporti nuovi con la Repubblica. Nello stesso tempo partecipano al dibattito
internazionale sul post-sionismo. Perché oggi è questo il problema. Israele è
oramai una realtà, l'antisemitismo non è più una minaccia immediata, gli israeliani sono
diventati un
popolo libero e indipendente dagli ebrei della Diaspora. Il problema può pertanto riassumersi in questa
semplice
domanda: ma a che cosa servono gli ebrei? Per me la risposta è facile: gli ebrei non servono a niente;
esistono,
come esistono i francesi del ceppo originario o i curdi di Francia. Quanto al termine di sionista, esso ha
riguardato diversi atteggiamenti nelle diverse epoche. La sola costante è
stata la volontà di ritorno e il sostegno agli ebrei d'Israele. Questa rimane e si arricchisce in un nuovo
contesto. Gli accordi di Oslo hanno ridestato le idee, sopite dopo il 1947, come quelle di un progetto
federalista o della
coabitazione fraterna tra ebrei e palestinesi in due Stati fratelli. Di qui può nascere un nuovo sionismo,
con
caratteristiche di universalità e di umanesimo, di valori che la storia aveva occultato, ma che pure sono
all'origine
del popolo ebraico e della Bibbia. E se oggi la pace sembra un po' più distante, restiamo comunque
in tanti a pensare che il periodo aperto dal Likud
non è che l'ultima impennata degli estremisti. In effetti, che siano gli islamici che sfruttano la tensione
prima delle
elezioni o gli ebrei ortodossi che rifiutano lo Stato laico, gli estremisti hanno approfittato di una situazione
transitoria. Israeliani e palestinesi sono laici nella loro grande maggioranza. Il sentimento che prevale si
può riassumere in
questo modo: quale che sia la legittimità degli uni e degli altri, entrambi esistono e dovranno fare la pace
insieme.
Un progetto universalista... Anch'essi laici in maggioranza, per più
della metà con una moglie o un marito non ebreo, gli ebrei francesi stanno
avviando un doppio movimento: la riconquista di un'identità oltre la religione e la redifinizione di un
progetto
ebraico e quindi universalista. Questo processo si inserisce nella visione di una società francese
repubblicana, laica e multiculturale. Lieberman, il direttore del Centre d'Etudes juives laiques, definisce
l'ebreo come colui che si identifica con la
storia presente e futura del popolo ebraico. Il sionismo appare allora come una ricerca di realizzazione
individuale tramite un doppio progetto: l'integrazione
nella società francese da un lato e, dall'altro, la possibilità di emigrare verso un Israele
pacificato. Infatti, per francese che sia, un ebreo ritrova in Israele una radice che gli è stata trasmessa
e vive quotidianamente
attraverso i suoi valori, i testi che ne stanno alla base e la sua affermazione di appartenenza. Ma io sostengo
che sentirsi ebreo non implica un'adesione alla tesi del grande Israele. Il diritto che hanno gli ebrei
di viverci non è, d'altra parte, diverso dal diritto che ha ogni individuo di scegliersi una propria terra
d'elezione.
E se la storia ha lasciato in eredità un conflitto tra Stati, nulla impone all'anarchico di allinearsi
all'estremismo
dell'un campo o dell'altro, né a cercare la legittimità storica dell'uno o dell'altro contendente. La
realtà finisce
con l'imporsi e la storia non torna indietro.
... e internazionalista Per quel che mi riguarda, se l'anima ebraica trova quello
che cerca in Israele, l'anarchico non ha niente da ridire.
Egli combatte per la giustizia e per la ricerca della pace, opponendosi in questo ai militaristi come agli integralisti,
vincitori o sconfitti che siano. É vero che il sentimento di identità ebraica può
sembrare strano in un anarchico. Ma non si dimentichi che
l'anarchico non è un uomo nuovo, ma in individuo che ha radici che gli sono state tramandate e che ha
il diritto
di riconoscersi in una cultura piuttosto che in un'altra, come ha il diritto di avere una famiglia in Israele e di
amarla sinceramente. In questo non c'è nessun nazionalismo, semplicemente bisogna accettare le diverse
realtà
culturali e individuali, se si vogliono impedire le ondate nazionaliste fascisteggianti. Frustrare un sentimento
di appartenenza o la somma di volontà individuali finisce col provocare reazioni violente
ed estreme. Ora, fin quando il sentimento di appartenenza o la somma delle volontà individuali non si
traducono
nell'oppressione di un potere iniquo, non c'è nessun motivo di rifiutarli. Tocca ai sionisti far nascere dalle
proprie
aspirazioni un bene per tutti, ebrei e palestinesi; spetta a loro far sì che l'avvenire d'Israele non si edifichi
contro
i giusti diritti dei palestinesi. Certi sionisti si allineano a questa logica e il tono di un giornale come "Tribune
Juive" è eloquente a questo riguardo. Il mio sionismo mi rende un convinto internazionalista,
perché so bene a che punto siano limitati e distruttivi i
sentimenti nazionalisti. I drammi degli ebrei e dei palestinesi rappresentano una lezione che porta verso la
fratellanza universale. Così non ho paura di rivendicare il mio essere sionista, nel senso che intende dare
a questa
parola chi in diaspora o in Israele pensa che sia dovere degli ebrei partecipare alla creazione di un mondo
più
umano, universalista. É un sionismo, questo, che non si oppone all'idea anarchica che è in me.
É vero che in certi casi l'anarchico e il sionista si possono trovare talora in conflitto. D'altra parte
l'anarchico si
trova sempre in conflitto con una realtà che non corrisponde mai alla sua etica e al suo ideale. L'avvenire
del
movimento anarchico sta nella capacità di ognuno di applicare soluzioni cattive, approssimative, per
risolvere in
modo costruttivo le contraddizioni tra il reale e l'idea. In qualunque situazione le belle soluzioni hanno sempre
prodotto bei massacri; per conto mio preferisco le
soluzioni ibride e pacifiche che permettono di continuare a vivere.
(traduzione di Guido Lagomarsino dal giornale belga Alternative
libertaire)
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