Rivista Anarchica Online
Un caso da non riaprire
di Carlo Oliva
Il potere, oggi come ieri, non può permettersi il lusso che sia messa in discussione l'accidentalità
della morte
dell'anarchico Pinelli
Un editorialista del Corriere della Sera di cui, al momento, mi sfugge il nome, ha
recentemente invitato i suoi
lettori a "salvare Sofri da Dario Fo". Questo dopo che il noto comico milanese, fresco dell'investitura del Premio
Nobel, aveva dichiarato di volersi impegnare in prima persona per la liberazione dei tre ex leader di Lotta
Continua detenuti per l'assassinio del commissario Calabresi, e di volerlo fare, guarda un po', a partire dalla
denuncia delle responsabilità della morte di Giuseppe Pinelli, riprendendo, con la nuova autorità
che un
riconoscimento così prestigioso gli conferiva anche sul piano internazionale, quella che era stata, tanti
anni fa,
una delle sue più importanti campagne civili. Un'intenzione pericolosa, che non può procurare
che danni, anche
a coloro a favore dei quali è stata formulata, che non potranno certo sperare di uscire di galera se qualcuno
si
ostinerà a mettere in dubbio la "verità" ufficiale. Come se le implicazioni di quel tragico episodio
di quasi
trent'anni fa facessero ancora paura a qualcuno. E' strano, però. La detenzione di Sofri, Bompressi
e Pietrostefani, evidentemente, è vissuta con molto disagio
da buona parte dell'opinione pubblica, dei mezzi di informazione e del ceto politico. A favore della loro
scarcerazione si sono (più o meno) impegnati non soltanto gli ex compagni di movimento, a prescindere
dalla
loro collocazione attuale, ma un numero considerevole di commentatori e leader politici di tutt'altra estrazione,
per non dire delle decine di migliaia di semplici cittadini e dei quasi duecento parlamentari che hanno firmato la
petizione di grazia. E visto che, come ha stabilito Scalfaro - che per una volta tanto, dal suo punto di vista,
qualche ragione ce l'ha - la grazia non sembra proponibile a breve scadenza, ecco che si ricercano altre vie per
ottenere lo stesso risultato, anche le più imbarazzanti ideologicamente, come quella della legge ad
personam.
Evidentemente per gli attuali detentori del potere in Italia la ricerca di un certo tipo di consenso fa premio sulla
necessità di evitare contraddizioni clamorose sul piano formale. Il che per noi va benissimo,
perché il vero
problema, dal punto di vista carcerario, è quello di far uscire più gente possibile dalle galere e
rendere sempre più
difficile mettercene dell'altra e una legge, per quanto contradditoria, che desse una mano in tal senso non potrebbe
che farci piacere. Naturalmente i lettori di "A" ricorderanno che già in passato un governo, costretto
dalle reazioni dell'opinione
pubblica e dalle pressioni del movimento di massa, è dovuto ricorrere a uno strumento del genere per
risolvere
un problema abbastanza simile. Il riferimento è a quando, alla fine del 1972, per poter rilasciare Pietro
Valpreda,
la cui permanenza in carcere, allora, faceva altrettanto scandalo di quella di Sofri oggi, furono frettolosamente,
e provvisoriamente, modificate le norme sulla detenzione preventiva (si parlò, appunto, di "legge
Valpreda"). Ma
le due situazioni, in realtà, sono piuttosto differenti. Valpreda fu liberato sulla base di una specie di
presunzione
collettiva di innocenza che era, al tempo stesso, una precisa attribuzione di responsabilità politica a
qualcun altro
e la sua situazione processuale era ancora in una fase iniziale, il che dava spazio, nonostante l'evidentissima
riluttanza della magistratura a smentire se stessa, a una lotta per strappare anche sul piano giuridico
un'affermazione definitiva d'innocenza (che sarebbe stata pronunciata, pur con la formula ambigua
dell'"insufficienza di prove" dalla Corte di Assise di appello di Bari nel 1985 e confermata dalla Corte di
Cassazione nell'87). Sofri, Bompressi e Pietrostefani sono in tutt'altra situazione: hanno esaurito il loro iter
processuale e la loro condanna è considerata definitiva. Una scarcerazione che non passasse attraverso
la via della
revisione del processo (se questo è il termine esatto) non sarebbe altro che una "negazione di innocenza",
e non
per niente i tre protagonisti, che la propria innocenza continuano a proclamare, non si sono mai dichiarati
interessati nè alla grazia nè alla libertà provvisoria per lontananza cronologica dell'evento.
Ma mentre su
quest'ultima ipotesi le disponibilità non sembrano mancare, il rifiuto di prendere in considerazione l'altra
possibilità (l'unica logicamente sostenibile da un punto di vista veramente innocentista) è ben
fermo. Come a dire che a qualcuno non dispiacerebbe che i tre ex di Lotta Continua uscissero dal carcere,
a patto che loro
e i loro amici rinuncino, esplicitamente o implicitamente, ad affermare la loro innocenza. Il fatto è
che l'affermazione della colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni (in rappresentanza, suppongo, di tutta
la loro organizzazione) zelantemente perseguita attravverso anni e anni di indagini mirate e in otto processi
dall'esito contradditorio per tutti i tre gradi del giudizio, è sempre stata considerata necessaria per chiudere
definitivamente il caso Calabresi. E il caso Calabresi, nella sua complessità storica e giudiziaria,
comprende
anche la morte di Pinelli, sulla quale non a caso si invita a non rimettere becco. Quel caso, nella sua interezza,
deve restare chiuso, definito una volta per tutte nella configurazione che in più di vent'anni si è
riusciti a dargli,
una configurazione che prevede da un lato che Pinelli sia morto senza colpa di nessuno (l'unica
responsabilità
poliziesca riconosciuta, quella di averlo trattenuto illegalmente in Questura, è destinata a venire sanata
da una
banale amnistia) e dall'altro la condanna definitiva dei tre di Lotta Continua per l'assassinio di Calabresi. Chi
turba questo schema mette a rischio, tra l'altro, la pur possibile liberazione dei tre detenuti. Il tutto
perché? Forse per scegliere tra le tante risposte possibili non è necessario perdersi in troppi
esercizi di
dietrologia. Il fatto è che il potere, oggi come ieri, non può permettersi il lusso di lasciare che sia
messa in
discussione l'accidentalità della morte dell'anarchico Pinelli. Su quell'evento si innestano troppe
menzogne, troppi tentativi d'intimidazione, troppe acrobazie logiche, troppe
negazioni dell'evidenza. Perché tutti sappiamo che dal rifiuto della verità ufficiale discende
con inesorabile consequenzialità la
consapevolezza del carattere "di stato" della strage, intendendo per "strage" non solo il massacro di piazza
Fontana, ma tutta quella sequenza di fatti di sangue che il 12 dicembre del 1969 aveva appena cominciato a
stravolgere il nostro paese e a cambiare il senso della lotta politica. Quel rifiuto significava e significa il rifiuto
di tutta una ricostruzione della nostra storia recente. Della qual cosa, naturalmente, varrebbe ogni tanto la
pena di tener conto.
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Via Pinelli, via Calabresi?
La Federazione Anarchica Torinese, di fronte alla lotta politica toponomastica su Pinelli e Calabresi, che vede
ulivisti e fascisti dividersi equanimemente le soglie dei morti buoni e cattivi, ricorda che la verità storica
non
si afferma nè con l'attribuzione di targhe stradali nè con "democratiche" spartizioni. Mettere
sullo stesso piano Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico assassinato dallo stato, e il poliziotto Luigi
Calabresi, che delle strategie stragistiche fu fedele esecutore, non è solo moralmente ignobile ma
smentisce le
stesse risultanze delle recenti indagini giudiziarie. Tutto ciò risponde a una logica revisionista che
nell'ansia di pacificare fascismo e antifascismo, carnefici e
vittime, contribuisce ad azzerare la memoria e, soprattutto, la prospettiva dei movimenti di emancipazione
sociale. Gli anarchici federati torinesi, nel riaffermare che nessuna intitolazione di vie o corsi può
mutare il giudizio
che sin dal primo momento espressero i protagonisti delle lotte che la strage di stato voleva fermare, ribadisco
la loro lontananza da operazioni strumentali tutte interne alle diverse lobby del sottopotere. La memoria di
Giuseppe Pinelli vive nelle lotte degli sfruttati di ieri e di oggi.
Federazione Anarchica Torinese |
Pinelli nel Nobel
La tradizione non-istituzionale gioca un ruolo determinante nel teatro di Fo. Spesso fa riferimento ai giullari
(joculatores) medievali, alla loro comicità e ai loro misteri. L'opera centrale "Mistero buffo" del 1969 si
basa
su vecchie fonti, interpretate nello spirito foesco. Ma anche la commedia dell'arte e scrittori del novecento
come Majakovskij e Brecht sono stati importanti fonti di ispirazioni. Un altro dei momenti più alti
della vasta produzione di Fo è "Morte accidentale di un anarchico" del 1970.
L'antefatto sono gli attentati dinamitardi dell'estrema destra del 1969, di cui le autorità e la stampa
accusavano
gli anarchici. Durante gli interrogatori a Milano un innocente "precipitò" da una finestra del quinto piano.
La
piéce parla di questi interrogatori, che man mano cominciano a svolgersi intorno ad un personaggio simile
ad
Amleto, il Matto, che possiede quella sorta di follia che svela la pubblica menzogna.
(dalla motivazione del premio Nobel a Dario Fo - Accademia di Svezia, 9 ottobre
1997)
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