Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 241
dicembre 1997 - gennaio 1998


Rivista Anarchica Online

Un caso da non riaprire
di Carlo Oliva

Il potere, oggi come ieri, non può permettersi il lusso che sia messa in discussione l'accidentalità della morte dell'anarchico Pinelli

Un editorialista del Corriere della Sera di cui, al momento, mi sfugge il nome, ha recentemente invitato i suoi lettori a "salvare Sofri da Dario Fo". Questo dopo che il noto comico milanese, fresco dell'investitura del Premio Nobel, aveva dichiarato di volersi impegnare in prima persona per la liberazione dei tre ex leader di Lotta Continua detenuti per l'assassinio del commissario Calabresi, e di volerlo fare, guarda un po', a partire dalla denuncia delle responsabilità della morte di Giuseppe Pinelli, riprendendo, con la nuova autorità che un riconoscimento così prestigioso gli conferiva anche sul piano internazionale, quella che era stata, tanti anni fa, una delle sue più importanti campagne civili. Un'intenzione pericolosa, che non può procurare che danni, anche a coloro a favore dei quali è stata formulata, che non potranno certo sperare di uscire di galera se qualcuno si ostinerà a mettere in dubbio la "verità" ufficiale. Come se le implicazioni di quel tragico episodio di quasi trent'anni fa facessero ancora paura a qualcuno.
E' strano, però. La detenzione di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, evidentemente, è vissuta con molto disagio da buona parte dell'opinione pubblica, dei mezzi di informazione e del ceto politico. A favore della loro scarcerazione si sono (più o meno) impegnati non soltanto gli ex compagni di movimento, a prescindere dalla loro collocazione attuale, ma un numero considerevole di commentatori e leader politici di tutt'altra estrazione, per non dire delle decine di migliaia di semplici cittadini e dei quasi duecento parlamentari che hanno firmato la petizione di grazia. E visto che, come ha stabilito Scalfaro - che per una volta tanto, dal suo punto di vista, qualche ragione ce l'ha - la grazia non sembra proponibile a breve scadenza, ecco che si ricercano altre vie per ottenere lo stesso risultato, anche le più imbarazzanti ideologicamente, come quella della legge ad personam. Evidentemente per gli attuali detentori del potere in Italia la ricerca di un certo tipo di consenso fa premio sulla necessità di evitare contraddizioni clamorose sul piano formale. Il che per noi va benissimo, perché il vero problema, dal punto di vista carcerario, è quello di far uscire più gente possibile dalle galere e rendere sempre più difficile mettercene dell'altra e una legge, per quanto contradditoria, che desse una mano in tal senso non potrebbe che farci piacere.
Naturalmente i lettori di "A" ricorderanno che già in passato un governo, costretto dalle reazioni dell'opinione pubblica e dalle pressioni del movimento di massa, è dovuto ricorrere a uno strumento del genere per risolvere un problema abbastanza simile. Il riferimento è a quando, alla fine del 1972, per poter rilasciare Pietro Valpreda, la cui permanenza in carcere, allora, faceva altrettanto scandalo di quella di Sofri oggi, furono frettolosamente, e provvisoriamente, modificate le norme sulla detenzione preventiva (si parlò, appunto, di "legge Valpreda"). Ma le due situazioni, in realtà, sono piuttosto differenti. Valpreda fu liberato sulla base di una specie di presunzione collettiva di innocenza che era, al tempo stesso, una precisa attribuzione di responsabilità politica a qualcun altro e la sua situazione processuale era ancora in una fase iniziale, il che dava spazio, nonostante l'evidentissima riluttanza della magistratura a smentire se stessa, a una lotta per strappare anche sul piano giuridico un'affermazione definitiva d'innocenza (che sarebbe stata pronunciata, pur con la formula ambigua dell'"insufficienza di prove" dalla Corte di Assise di appello di Bari nel 1985 e confermata dalla Corte di Cassazione nell'87). Sofri, Bompressi e Pietrostefani sono in tutt'altra situazione: hanno esaurito il loro iter processuale e la loro condanna è considerata definitiva. Una scarcerazione che non passasse attraverso la via della revisione del processo (se questo è il termine esatto) non sarebbe altro che una "negazione di innocenza", e non per niente i tre protagonisti, che la propria innocenza continuano a proclamare, non si sono mai dichiarati interessati nè alla grazia nè alla libertà provvisoria per lontananza cronologica dell'evento. Ma mentre su quest'ultima ipotesi le disponibilità non sembrano mancare, il rifiuto di prendere in considerazione l'altra possibilità (l'unica logicamente sostenibile da un punto di vista veramente innocentista) è ben fermo.
Come a dire che a qualcuno non dispiacerebbe che i tre ex di Lotta Continua uscissero dal carcere, a patto che loro e i loro amici rinuncino, esplicitamente o implicitamente, ad affermare la loro innocenza.
Il fatto è che l'affermazione della colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni (in rappresentanza, suppongo, di tutta la loro organizzazione) zelantemente perseguita attravverso anni e anni di indagini mirate e in otto processi dall'esito contradditorio per tutti i tre gradi del giudizio, è sempre stata considerata necessaria per chiudere definitivamente il caso Calabresi. E il caso Calabresi, nella sua complessità storica e giudiziaria, comprende anche la morte di Pinelli, sulla quale non a caso si invita a non rimettere becco. Quel caso, nella sua interezza, deve restare chiuso, definito una volta per tutte nella configurazione che in più di vent'anni si è riusciti a dargli, una configurazione che prevede da un lato che Pinelli sia morto senza colpa di nessuno (l'unica responsabilità poliziesca riconosciuta, quella di averlo trattenuto illegalmente in Questura, è destinata a venire sanata da una banale amnistia) e dall'altro la condanna definitiva dei tre di Lotta Continua per l'assassinio di Calabresi. Chi turba questo schema mette a rischio, tra l'altro, la pur possibile liberazione dei tre detenuti.
Il tutto perché? Forse per scegliere tra le tante risposte possibili non è necessario perdersi in troppi esercizi di dietrologia. Il fatto è che il potere, oggi come ieri, non può permettersi il lusso di lasciare che sia messa in discussione l'accidentalità della morte dell'anarchico Pinelli.
Su quell'evento si innestano troppe menzogne, troppi tentativi d'intimidazione, troppe acrobazie logiche, troppe negazioni dell'evidenza.
Perché tutti sappiamo che dal rifiuto della verità ufficiale discende con inesorabile consequenzialità la consapevolezza del carattere "di stato" della strage, intendendo per "strage" non solo il massacro di piazza Fontana, ma tutta quella sequenza di fatti di sangue che il 12 dicembre del 1969 aveva appena cominciato a stravolgere il nostro paese e a cambiare il senso della lotta politica. Quel rifiuto significava e significa il rifiuto di tutta una ricostruzione della nostra storia recente.
Della qual cosa, naturalmente, varrebbe ogni tanto la pena di tener conto.

Via Pinelli, via Calabresi?

La Federazione Anarchica Torinese, di fronte alla lotta politica toponomastica su Pinelli e Calabresi, che vede ulivisti e fascisti dividersi equanimemente le soglie dei morti buoni e cattivi, ricorda che la verità storica non si afferma nè con l'attribuzione di targhe stradali nè con "democratiche" spartizioni.
Mettere sullo stesso piano Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico assassinato dallo stato, e il poliziotto Luigi Calabresi, che delle strategie stragistiche fu fedele esecutore, non è solo moralmente ignobile ma smentisce le stesse risultanze delle recenti indagini giudiziarie.
Tutto ciò risponde a una logica revisionista che nell'ansia di pacificare fascismo e antifascismo, carnefici e vittime, contribuisce ad azzerare la memoria e, soprattutto, la prospettiva dei movimenti di emancipazione sociale.
Gli anarchici federati torinesi, nel riaffermare che nessuna intitolazione di vie o corsi può mutare il giudizio che sin dal primo momento espressero i protagonisti delle lotte che la strage di stato voleva fermare, ribadisco la loro lontananza da operazioni strumentali tutte interne alle diverse lobby del sottopotere.
La memoria di Giuseppe Pinelli vive nelle lotte degli sfruttati di ieri e di oggi.

Federazione Anarchica Torinese

Pinelli nel Nobel

La tradizione non-istituzionale gioca un ruolo determinante nel teatro di Fo. Spesso fa riferimento ai giullari (joculatores) medievali, alla loro comicità e ai loro misteri. L'opera centrale "Mistero buffo" del 1969 si basa su vecchie fonti, interpretate nello spirito foesco. Ma anche la commedia dell'arte e scrittori del novecento come Majakovskij e Brecht sono stati importanti fonti di ispirazioni.
Un altro dei momenti più alti della vasta produzione di Fo è "Morte accidentale di un anarchico" del 1970. L'antefatto sono gli attentati dinamitardi dell'estrema destra del 1969, di cui le autorità e la stampa accusavano gli anarchici. Durante gli interrogatori a Milano un innocente "precipitò" da una finestra del quinto piano. La piéce parla di questi interrogatori, che man mano cominciano a svolgersi intorno ad un personaggio simile ad Amleto, il Matto, che possiede quella sorta di follia che svela la pubblica menzogna.

(dalla motivazione del premio Nobel a Dario Fo - Accademia di Svezia, 9 ottobre 1997)