Rivista Anarchica Online
Prediche di capodanno
di Carlo Oliva
Perché ci convince poco il garantismo che da qualche tempo caratterizza il dibattito politico in Italia
Strane cose succedono, a volte, in questo paese. Il presidente della repubblica, in
un'occasione tradizionalmente
dedicata all'elencazione di un certo numero di cortesi banalità, qual è il messaggio televisivo per
gli auguri per
capodanno (un'occasione di carattere non istituzionale, non rientrando nei doveri del capo dello stato quello di
fare gli auguri ai cittadini, ma di notevole portata mediatica, che è poi la cosa che conta) si lascia sfuggire
ad arte
una banalità un po' meno banale delle altre. I magistrati, dice, non devono "abusare" della carcerazione
preventiva. Il comportamento di quanti fra di loro minacciano gli indagati con la classica frase "o parli o rimani
dentro", oltre a essere, gli si consenta, un sintomo di rozzezza, "non ha spazio nella civiltà giuridica di
nessun
Paese", anzi, "ha spazio sotto la voce tortura" e "il tintinnio delle manette davanti alla faccia di uno che è
interrogato da qualche collaboratore è un sistema abietto". Tutti, naturalmente, il giorno dopo gli daranno
ragione:
se da un lato è ben noto a chiunque che quel sistema, per rozzo e abietto che sia, è largamente
impiegato dagli
organi polizieschi e inquirenti di tutto il mondo, Italia compresa, dall'altro il presidente ha avuto la bontà
di non
fare nomi, di parlare, come si dice, in via generale, e in via generale dargli ragione non costa nulla. Lo stesso
procuratore Borrelli, uno che a far tintinnare le manette non ha mai avuto scrupoli particolari, dichiara che il pio
Oscar Luigi "ha enunciato una serie di principi generali" dai quali non vede "come sia possibile
dissentire". L'unico che s'incazza, a quanto pare, è il senatore Di Pietro. Forte della sua fama di
salvatore del paese per via
inquisitoria, costui prende la penna e manda a Scalfaro una bella lettera aperta. Le sue dichiarazioni, scrive, non
gli piacciono proprio, soprattutto per la loro vaghezza, che "lascia alla libera interpretazione dei soliti noti la
possibilità di adattare le sue parole ai propri interessi". E poi, "a chi e a quale caso" si riferisce il signor
Presidente? Quale carcerazione preventiva, per lui, "è stata un eccesso?" Insomma, si creda a lui:
carcerare
preventivamente si può e si deve fare. L'affermazione, provenendo dal più noto pubblico
accusatore della nostra
storia recente, ha in sé un che di excusatio non petita, che poi è sempre, come noto, un'accusatio
manifesta. Nello
specifico, un'autoaccusa, un'autoassunzione del ruolo di Grande Incarceratore. Infatti nei giorni successivi lo
scritto di Di Pietro offrirà ampie occasioni di polemica a quanti sostengono che Scalfaro ha parlato pro
domo loro,
cioé a quegli esponenti del Polo impegnati da un pezzo contro le procure e la loro bizzarra pretesa di
sottoporre
a processo i Berlusconi e i Previti, e getterà nel più fiero imbarazzo i politici dell'Ulivo, che da
un lato si
professano amici dei giudici, ma dall'altro devono fare i conti con un certo numero di preclusioni ideologiche
garantiste retaggio del loro passato e adesso si trovano in casa uno che dà sulla voce al presidente a
proposito
della liceità di usare la minaccia del carcere come strumento di pressione. Ben gli sta.
La solita comparsata Il bello è che, per una volta, il ragionamento di
Di Pietro è ineccepibile. In fondo ha semplicemente invitato
Scalfaro a entrare nei particolari, a fare i nomi. Perché una cosa è dire che una tale azione non
si deve fare perché
non sta bene, così, in astratto, e un'altra è dichiarare che il tale l'ha commessa, in quella specifica
circostanza,
con quegli specifici risultati. Nel primo caso siamo di fronte a una predica, nel secondo a una denuncia
circostanziata, ed è ovvio che non di prediche, ma di denunce quanto più circostanziate possibile
il paese ha
bisogno. Ma, in fondo, anche Di Pietro è ricaduto nell'errore che rimprovera al suo interlocutore,
perché si è
guardato bene dall'entrare nei particolari che lo riguardano. Ha fatto capire che minacciare di incarcerazione
qualcuno per farlo parlare non è poi una cosa così abietta, quando lo richiede il bene del paese,
ma si è ben
guardato dal dichiarare "Ebbene sì, io quel tal giorno ho prospettato l'idea di un lungo soggiorno in
prigione al
Tale e al Talaltro, ricavandone piena ammissione di responsabilità e larga denuncia dei corresponsabili
e me ne
vanto". Ci mancherebbe altro. Ormai è un politico anche lui e maneggia da maestro l'arte, politica
quant'altra
mai, della comunicazione traversale. Insomma, i cittadini, ancora esausti dalle fatiche natalizie [nota per
Tobia Imperato: questa è una battuta, non
sottintendo che tutti i cittadini debbano festeggiare il Natale], si sono trovati di fronte alla solita comparsata, in
cui due aspiranti, rispettivamente, alla permamenza e al subentro in carica hanno cercato di sfruttare a vantaggio
della propria immagine due linee ideologiche che variamente s'intersecano nella pubblica opinione: il
compiacimento per l'opera di una magistratura che, quali che siano stati i suoi metodi, ha ostensibilmente
eliminato una certa quantità di politici corrotti e la preoccupazione che quei metodi prendano (o abbiano
preso)
un po' troppo piede, con grave danno per le guarentige di libertà personale. E lo hanno fatto entrambi
tenendosi
accuratamente nel vago, guardandosi bene dall'entrare nei problemi concreti. Tra i quali, come si sa, il principale
è quello rappresentato dalla pretesa della destra di condizionare il proprio assenso alle "riforme"
istituzionali a
suo tempo concordate alla concessione di un'ampia amnistia a tutti i rei di corruzione, condannati, indagati o in
corso di indagine, a partire, ovviamente, dall'on. Berlusconi e dai suoi collaboratori più stretti. Pretesa
a cui
sembra di poter dedurre che Scalfaro, con quel suo modo caratteristicamente tortuoso, ha, questo capodanno,
conferito un po' di peso in più (ma questa è solo un'impressione di chi scrive e staremo a
vedere). Di questa pretesa, naturalmente, non varrebbe neanche la pena di parlare (chiunque, ovviamente,
ambisce a non
pagare il fio delle sue eventuali malefatte ed è disposto, a tal fine, a ricorrere a tutti i mezzi a sua
disposizione),
se non si incrociasse con almeno un paio di problemi più seri. Il primo è che, in un modo o
nell'altro, si è riusciti
a legare impropriamente il problema dell'amnistia per i corruttori e i corrotti (meglio noto come "uscita da
Tangentopoli") con quello, ormai, vetusto dell' "uscita dagli anni di piombo", ovvero della eliminazione, mediante
indulto o per altra via, delle conseguenze abnormi della legislazione d'emergenza sul destino carcerario di un
certo numero di detenuti per fatti variamente legati alla lotta armata negli anni '70. Si è capito, ormai,
che una
certa parte politica non è disposta a consentire che si risolva il secondo problema se prima l'altra parte
non avrà
ceduto sul primo. Ora, non è il caso di ritornare oggi su un argomento che ho avuto fin troppo spesso
occasione di trattare per i
lettori di "A", ma è evidente che la contrapposizione, oltre che artificiale, è del tutto impropria.
Sono pronto a
concedere che, forse, una certa percentuale degli indagati per corruzione e affini può avere a proprio
favore delle
ragioni che meritano di essere valutate e non auguro comunque a nessuno di loro di finire in galera (nemmeno
all'on. Previti, che non penso comunque ci finirà), ma l'equivalenza tra le due categorie non si può
proprio fare.
Considerazioni di pericolosità sociale a parte (e sono ben più pericolosi certi corruttori e
concussori socialmente
potenti che non gli sconfitti di una lotta chiusasi più di vent'anni fa), resta indubitabile che i duecento ex
militanti
della lotta armati e presunti tali ancora in carcere o in esilio scontano o devono scontare una serie di condanne
ormai definitive, che hanno esaurito un iter giudiziario che ha presumibilmente chiarito tutto quanto c'era da
chiarire, mentre i processi ai vari indagati di "Mani pulite" sono ancora, in gran parte, tutti da celebrare e la
verità
giudiziaria sul loro conto è ben lungi dall'essere definita. La differenza, checché possa pensarne
l'on. Berlusconi,
non è di poco conto.
Giustizia di classe L'altro problema è ancora
più grave. È che non possiamo far finta di non capire che l'ondata di garantismo che
da qualche tempo caratterizza il dibattito sui problemi della giustizia in Italia si è avviata da quando, per
un
motivo o per l'altro, nel mirino delle pubbliche accuse sono finiti personaggi di un certo peso sociale e politico.
Da quando, per una serie di complicazioni bizzarre e probabilmente tutt'altro che volute, il rischio di finire in
galera, o comunque di perdere i propri privilegi e il proprio potere, lo corrono certi "distinti" esponenti della classe
dirigente. Non è la prima volta che Scalfaro, che ha un lontano passato di magistrato alle spalle, parla
degli "eccessi" dei
pubblici ministeri (ha cominciato, se non erro, nel 1993, nel corso di una visita di stato in Spagna, e Di Pietro,
che allora era solo un magistrato in carriera, sia pure illustre, dichiarò di essere perfettamente d'accordo),
ma, sarà
un caso, lo ha fatto soprattutto in relazione esplicita o implicita con episodi di questo livello. E in fondo anche
le "vittime" dei vari Di Pietro, salvo un paio di casi esemplari, in galera ci sono soltanto passate di striscio. Hanno
incassato le loro brave accuse, hanno detto quello che dovevano dire e sono usciti tutti di gran carriera. Mentre
sappiamo tutti che la prassi giudiziaria italiana è piena di poveri cristi che dietro le sbarre ci finiscono
subito e
poi si vedrà, che parlino o che non parlino, di malcapitati socialmente trascurabili su cui il sistema si
accanisce
con meccanica impersonalità e le cui vicende non fanno neanche cronaca. Che la giustizia, in Italia come
in tutti
gli altri paesi, ha certe caratterizzazioni "di classe" di cui non è di moda parlare, ma che lasciano assai
perplessi
quando si sente parlare del suo funzionamento come se fosse socialmente neutrale. Di tutto questo,
comunque, sarà difficile sentir parlare nelle prossime prediche di capodanno.
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