Rivista Anarchica Online
Science fiction: Leggere Philip K. Dick
di Marzia Rubega
In una enciclopedia su CD rom P. K. Dick viene così menzionato: «Dick,
Philip K.// Il lavoro di P. Kindred
Dick, nato a Chicago il 16 dicembre 1928, morto il 2 marzo 1982, riflette il suo interesse per la
natura umana e
la realtà psicologica. I suoi personaggi non sono eroici, ma impegnati a risolvere situazioni conflittuali
e ciò
sottolinea lo stato d'animo dello scrittore...». Forse questo nome può suonare sconosciuto e poco
evocativo, ma
basterà citare il film di Ridley Scott Blade Runner per illuminare i perplessi, chi non ricorda
infatti la bellissima
mutante ribelle e capace di provare sentimenti «umani»? E proprio da un libro del 1968 di Dick Il
cacciatore di
androidi la sceneggiatura, che si annovera tra una delle migliori produzioni cinematografiche sul tema del
doppio meccanico, è tratta. Autore estremamente prolifico (qui ci si limita solo a qualche riflessione)
e per anni quasi
ignorato, Dick scrive il suo primo romanzo Il disco di fiamma (Solar Lottery) nel 1955. L'argomento
è politico,
dietro all'apparato proprio del genere, alla coreografia bizzarra, in un mondo popolato di personaggi surreali e
al tempo definiti in termini piuttosto credibili, si scorgono immagini di una società tecnologica spietata,
proiettata
in uno dei futuri possibili, che rivela inquietanti analogie e somiglianze con il reale. La trama di questo romanzo
sembra per alcuni aspetti profetica: i quiz radiotelevisivi hanno sovrastato e imposto una nuova egemonia sugli
organi istituzionalmente deputati a formare un governo e le leggi che reggono e regolano il consenso delle masse.
L'unica istituzione sopravvissuta a tutti gli accadimenti è il gioco, un gioco mortale e all'ultimo sangue
che ha
come obiettivo finale il potere assoluto, il dominio incontrastato del Quizmaster. La gara affidata ad un'estrazione,
tra le carte di riconoscimento di tutti i cittadini, sancisce il nuovo despota e inaugura contemporaneamente la
caccia all'uomo, al predecessore destituito. Teoricamente chiunque può accedere alla massima carica
sociale, ma
in pratica molta gente non possiede la carta di catalogazione e quindi non ha nessuna chance, nessuna
possibilità
di mobilità all'interno di un sistema caratterizzato da una gerarchia ossificata in imperscrutabili codici,
dove
vigono nei grandi monopoli industriali rapporti di lavoro di tipo feudale (si presta giuramento di fedeltà
al proprio
superiore!). La stessa economia si basa sui Giochi, inventati da due matematici, su un complicato sistema di
distribuzione delle merci a premi, anche se, ovviamente per ogni persona che vince un «video per
l'omeogiornale », una macchina o altro, milioni restano senza. Lentamente la disintegrazione della
società a tutti i suoi livelli «era
scesa tanto in profondità che la gente aveva perso la fiducia persino nelle leggi di natura... Le
predizioni statistiche erano diventate popolari. La gente non aveva che una speranza: avere fortuna...» (p.21).
E la Fortuna, quindi, assurge ad unico valore e temuto signore-padrone di questo universo allucinato, in cui gli
uomini si muovono come sunnambuli-burattini nel timore di avversità fatali e invincibili. Il senso non
esiste più,
il principio di causaeffetto è stato ormai dimenticato e sostituito dall'adesione incondizionata ad un'oscura
forza,
alla quale si possono opporre soltanto scongiuri e amuleti di svariate forme, copiosamente utilizzati in ogni
strato della popolazione. Tematiche ricorrenti sono individuabili in tutta l'opera dickiana, vastissima, quanto
poco
valutata durante la sua vita, al punto che per sopravvivere (letteralmente per non morire di fame!) era costretto
a scrivere circa 60 pagine al giorno. I suoi personaggi sembrano animati dal desiderio spasmodico di carpire
proprio quel senso che supera la realtà imposta e il presente desolato in cui sono relegate le loro esistenze.
L'anelito ossessivo nei confronti di una pacificazione del dilemma più antico dell'uomo domina la cupa
solitudine
nella quale tali figure sono profondamente calate. L'autore si interroga su cosa sia veramente «umano» con
meticolosa insistenza, tratteggia mondi paralleli e realtà altre (mondi virtuale), pone l'accento sul rapporto
uomo-macchina, anticipando ciò che oggi viene definito cyberpunk. In Vedere un altro
orizzonte (The crack in the space del 1966) emergono chiaramente problemi di una società
tecnologica avanzatissima, post-capitalista, dove l'unica soluzione per porre fine alla sovrappopolazione si
manifesta nella pratica diffusa di «surgelare», ancora vivi, gli individui appartenenti alle classi più
emarginate
destinati altrimenti ad una perpetua indigenza, senza nessuna speranza occupazionale. Il dialogo iniziale, tra due
giovani sposi di colore che richiedono l'ibernazione e il responsabile di un agenzia del Dipartimento Speciale di
Salute degli Stati Uniti, introduce elementi fondamentali (e comuni ad numerosi altri racconti) intorno ai quali
il romanzo si snoda: il razzismo, innalzato a diritto inalienabile alla vita dei bianchi-minoranza- sui
neri-maggioranza, l'aberrante corruzione politica e i suoi legami con la sfera economica (!) e infine, ancora una
volta,
l'anelito ideale ad un'esistenza migliore, più «umana». Argomento frequente di buona parte della
letteratura
cyberpunk è ciò che-già presente e anticipato nell'opera di Dick- Baudrillard chiama
«iperrealtà» ovvero la
dimensione virtuale in cui la tecnologia ha trasportato gli uomini, generando una sorta di «allucinazione
consensuale» affrancata dalla realtà. E se qui la realtà virtuale gioca un ruolo essenziale come
teatro dell'azione
e come possibilità di fuga dall'aumento di mondi distopici, nei testi dickiani essa assume, invece, un
significato
antitetico e prospetta un'ottica completamente differente. Nei suoi racconti i protagonisti lottano sempre
disperatamente nel tentativo di trovare il reale, cercano di liberarsi
dal mondo virtuale in cui sono incagliati in preda, non ad una «allucinazione consensuale » ma, al desiderio di
scorgere l'uscita. In Ubik, capolavoro del 1969, tale motivo è brillantemente
rappresentato. La storia si dipana lungo un intricato percorso di graduali scoperte che mettono totalmente in
discussione eventi apparentemente inopinabili: la
spedizione sulla luna di un gruppo di uomini e il loro capo, proprietario di un organizzazione «prudenziale »,
ucciso in uno strano incidente, attribuito ad un'associazione avversaria. Le certezze razionali si sgretolano
una dopo l'altra a causa di messaggi e segnali misteriosi che sembrano provenire dall'aldilà, dalla voce
del defunto.
I piani temporali e cronologici si confondono in un gioco di oscillazioni e criptici rimandi che conducono alla
rivelazione eclatante del decesso avvenuto dell'intera squadra e non del padrone dell'agenzia. Tale scoperta si
mostra lungo un percorso tortuoso di luci e ombre, frammenti di un ricamo sul nulla insidiano ogni ragionevole
deduzione per ricusare le false certezze nella Terra del confine e della più angosciosa attesa. A proposito
di questo
affascinante romanzo, Goffredo Fofi ha scritto: «tra incubo e speranza, Dick esplora un territorio che è
insieme
nuovo e antichissimo. Da Alice frastornata, da Giobbe disperato. È un oscuro scrutare, il suo e il nostro,
ma
intensamente, il suo, da dentro le profondità opache e velate dello specchio.» Spezziamo quindi una lancia
a
favore di Philip Dick (anche se ne abbiamo parlato in modo sommario) e della science fiction che, nonostante
l'opinione largamente condivisa, non è solo un genere minore o una lettura da autobus, poiché
descrive situazioni
che non distano poi anni luce, forse sono solo celate e mascherate da una pesante coltrina.
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