Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 103
estate 1982


Rivista Anarchica Online

La morte come pena
di Monica Giorgi

Dopo «Culpa-colpevolezza» ed il saggio di cultura storica e interdisciplinare «Storia dell'intolleranza in Europa», Italo Mereu, professore di esegesi delle fonti della storia del diritto italiano, si presenta al grosso pubblico con un agile e serrato lavoro. Seppur specifico, esso ha il pregio di non cedere all'accademico e al linguaggio professorale, caratteristiche che viceversa accompagnano solitamente le opere di natura giuridica. Il titolo è: «La morte come pena» (Espresso Strumenti, Milano 1982, pagg. 182, lire 4.000); un excursus critico su un tema-principio che ha informato tutta la legislazione penale europea.
Positivo è il fatto che, fin dall'introduzione, viene ben sottolineata la differenza tra uno studio che si propone di indagare lo sviluppo storico della pena di morte e quello, praticato nel saggio, di analizzare il concetto della morte come pena. La distinzione non è una sottigliezza da sofisti, ma un cosciente intendimento a cogliere il problema nel suo nucleo centrale, scoprendone cioè le radici. E' uno stile di indagine che ricorda quello di M. Foucault nel suo «Sorvegliare e punire». Non di astrattezza ma di generalità essenziale si tratta. Parlare della pena di morte nella materialità della norma è qualcosa in meno che sviscerare l'essenza della sua origine anche quando questa è «normativamente» assente negli statuti e nei codici. Non a caso Mereu definisce l'ergastolo, pena prevista e largamente applicata ai giorni nostri, una «morte al rallentatore» .
Altra conseguente ed onestissima premessa è la dichiarazione di «faziosità», cioè di «saggio metodologicamente orientato», espressamente rilasciata dal Mereu per quanto riguarda la sua opera. Al complesso e ricorrente problema sulla neutralità ed oggettività della ricerca scientifica viene dato, in questo modo, un contributo di chiarezza ed esplicitazione, a mio avviso, non indifferente. Misconoscere l'inevitabilità del «punto di vista» di chi riflette e scrive sarebbe una garanzia da struzzo. «Il punto di vista» condiziona perciò il contenuto dell'opera a cui va evitata, piuttosto, l'ipocrisia di una maschera di asetticità formale fine a se stessa, senza cioè che questa sia corroborata da una documentazione costante e puntigliosa. Tutto non è neutrale, si potrebbe dire; ma niente è più falso di una non riconosciuta relazione ai valori che sottostanno all'impegno. E all'opera di Mereu non difettano certo simili requisiti.
«La morte come pena» si articola in due tronconi fondamentali: il contesto storico-politico, su cui si innesta il quadro giuridico, e l'analisi monografica del pensiero di teologi, filosofi, addetti ai lavori, politologi e letterati che contribuiscono ad avvalorare o a smitizzare l'opportunità legislativa della pena di morte. La ricchezza di citazioni, apportata dal Mereu, consente di tralasciare la ricostruzione a posteriori delle responsabilità soggettive dell'imbarbarimento giuridico del sistema penale che, definito come «tecnica della composizione» fino all'alto medioevo quando ancora vigeva il «guidrigildo», si sclerotizza in «tecnica della coazione» proprio dal basso medioevo (l'epoca cioè di Federico I, II, Dante, ecc.) al rinascimento (di cui si mette in discussione l'immagine oleografica di periodo aureo dell'umanità) fino a tutto oggi. La chiesa, lo stato, tutti i poteri costituiti risultano essere gli indefessi portatori della «civiltà della morte come pena». E' la tesi sostenuta e dimostrata dall'autore in maniera rigorosa e, a volte, perfino emotivamente accanita. Il pathos della verità storica eccita la meticolosità dell'indagine. Perciò dal libro del Mereu sorgono, man mano, elementi focalizzanti, atti a stimolare dibattiti più approfonditi e a dar adito a nuove conclusioni. Si evidenziano, infatti, il contrasto tra l'ideologia cristiana dell'amore caritatevole e l'effettività penale dei tribunali dell'Inquisizione della chiesa cattolica; il suo «tartufismo curiale»: il lasciar uccidere l'eretico per mano del braccio secolare, salvo poi intentare un processo per eresia allorquando la condanna a morte non venisse eseguita. Si riflette sull'affermazione giuridica, con l'Editto di Milano (313), del «principio di intolleranza», principio politico e sociale che legittima l'operato dell'«omicidio legale», sulla base della alternativa drastica del «consenso o repressione». E' questa la chiave di volta per tutte le operazioni di violenza istituzionale condotte dal potere sia esso teocratico o secolare, in difesa della rivoluzione borghese o della restaurazione, che lo faccia in nome dell'unità nazionale o delle dittature proletarie.
Si punta il dito sull'«ordine del terrore» scaturito dalla metodica della tortura e della morte legittimate da un diritto propriamente qualificato «diritto penale terrorizzante». Si denuncia il paradosso del processo usato come mezzo per appurare esclusivamente la dignità dell'imputato ad essere ucciso. Da qui la logica conseguenza che il processo si presenti un puro atto formale per attuare un giudizio già formulato da una legge stabilita dal potere dominante.
Si analizzano la violenza e la ragion di stato quali capisaldi su cui è attecchito e attecchisce lo spirito giuridico della legislazione criminale, insistendo ancora su quel concetto totalizzante di pena che è sintomo ed effetto di una società mortificante. «Ma la colpa di tutto ciò non è del criminalista, o non è solo sua. E' piuttosto da attribuire al fascino demiurgico che la violenza esercita e in cui tutti credono: lo stato e i privati, gli uomini politici e i giuristi, gli spiriti religiosi e i "libertini". La violenza è il transfert liberatore dove la libido repressa trova il suo sfogo o mediante il delitto gratuito o brutale, oppure nell'uccisione "legale" appagante per tutto il sadismo di atti e di cerimonie con cui è accompagnata. Alla violenza dei privati, lo stato, che sorge e si organizza proclamandosi tutore e garante della salvezza della repubblica, oppone la propria violenza, prestabilita, formalizzata, solenne, esemplare, ed inesorabile...». E così la Ragion di stato trova il suo equivalente storico nel «quod principi placuit»: ciò che piace al Principe ha valore di legge. Si smaschera il meccanismo della «normativa rinnegante» di cui furono abilissimi maestri i teologi inquisitori: «Si dice che l'individuo non può andare contro il precetto divino del non uccidere ma si ammette che il giudice possa farlo quando la legge glielo comanda». Una lezione questa perfettamente appresa dai politicanti di mestiere, a qualsiasi epoca o colore appartengano.
Non manca infine l'allusione morale e politica al presente quando si prende in esame quel furbesco sintagma che è «il bene comune», in nome del quale «cattolici e protestanti, codini e rivoluzionari, monarchici o repubblicani, liberali o comunisti, si serviranno senza risparmio» per debellare il dissenso e la «peste anarchica». Anche il dissacratorio commento all'opera del Beccaria, dove mai viene messa in discussione la morte come pena, bensì l'opportunità di praticarla o meno, e che conduce il Mereu a qualificare il famoso «Dei delitti e delle pene» l'«overdose del riformismo illuministico», rientra nella sfera del rapporto con l'odierno. Più esplicito, a questo proposito è l'ultimo paragrafo del libro: «La quiete dopo la tempesta». L'accenno alla legislazione «parallela», quale tendenza odierna della politica legislativa, fa dire al Mereu che si ha a che fare con un «revival dei più logori, perché non è altro che riportare l'Italia all'epoca dei bandi, delle grida, delle costituzioni, degli specialia, dei fori separati, ecc». E di questo spirito restaurativo è intrisa la tanto richiesta e programmata riforma istituzionale; punto primario del governo Spadolini e cavallo di battaglia per le pressanti ambizioni della segreteria del PSI.
L'utilità della ricerca storica sta nel guardare il passato con occhi che contemplano il presente e si proiettano nel futuro. Il libro di Mereu soddisfa queste esigenze e proprio per questo il suo pregio combacia con le idealità sottintese nel polemico, onnipresente, aspro, sincero e razionale rifiuto di tutto ciò che è violenza e morte. Soprattutto violenza legale e morte codificata.