Rivista Anarchica Online
Ancora sulla nonviolenza
Dalla lettera di Andrea Papi su «A» 105 mi sembra di capire che in effetti arriviamo a risultati
molto simili, in termini di prassi, partendo però da presupposti diversi. Oggi, nel dibattito culturale e politico, la nonviolenza è diventata un tema centrale. Si parla da ogni
fronte, da quello clericale a quello della sinistra più o meno istituzionale, di nonviolenza. Tutti
discutono, ricordano o celebrano più o meno solennemente chi per primo formulò ed applicò questa
linea di pensiero e di azione. Ma nella maggior parte dei casi sia Gandhi che il suo pensiero
vengono strumentalizzati per fini di istituzionalizzazione di tutte le lotte politiche e sociali e quindi
di rigenerazione del tessuto culturale che regge lo stato. Ritengo allora necessario, in questo
polverone, continuare a definirsi nonviolenti, ma dando alla parola quei significati che travalicano
decisamente il semplice contenuto letterale, che erano all'origine della traduzione dell'Ahimsa. L'antiviolento di Andrea coincide col nonviolento che avevo cercato di descrivere. Nonviolenza,
secondo me, non significa semplice astensione dal violare, non ha un significato puramente
passivo. Ha, altresì valore attivo. Non «astenersi da ogni violenza», ma «agire in modo tale da
raggiungere il tuo fine positivo con la maggiore riduzione possibile della violenza a lungo termine
ed in tutte le sue forme». Se alla parola dò un significato puramente letterale, allora sono
perfettamente d'accordo con Andrea: tale nonviolenza porta, per forza di cose, alla passività e alla
sottomissione ed io non sarò certo un nonviolento. Un omicidio è una violazione di un'entità
vivente. Se so che un uomo in un determinato momento sta per uccidere molte persone in un
momento in cui ho pochi minuti di tempo e so che non ho altri mezzi per impedire la strage ed
uccido quell'uomo, ho commesso un atto in sé e per sé violento, ma non per questo non sono un
nonviolento (se per nonviolenza intendo quei significati non letterali e culturali già descritti).
Questo è il primo insufficiente esempio che mi viene in mente lì per lì. Ogni individuo può essere nonviolento secondo le sue possibilità e capacità ed a seconda delle
circostanze in cui si trova ad agire. Se vogliamo pensare per assurdo, è impossibile eliminare la
violenza dal mondo. Uccidiamo e sfruttiamo esseri viventi per vivere. Non esiste un'ideologia vera
e propria della nonviolenza. Non esistono vangeli di alcun tipo. L'importante nel raggiungere una società futura, la più bella possibile e concepibile, è cercare, con
tutti i mezzi che la coerenza ci permette, di eliminare la violenza, sia a livello sociale che interiore,
non rendendola più necessaria. Il problema reale sta, però, nel saper vedere quando, in una
determinata situazione, è lecito il mezzo estremo e cioè l'azione veemente, la violenza in senso
stretto. Le domande che Andrea mi fa si basano su ipotesi troppo generiche ed eccessivamente
teoriche. Posso fare un esempio più concreto. Non esiterei, per quanto mi ripugni profondamente fare del male ad alcuno, a combattere nelle
organizzazioni guerrigliere di liberazione del Salvador o del Guatemala. E combatterei come
anarchico nonviolento. In questo caso, infatti, per la maggior parte delle volte, qualsiasi forma di
lotta più specificamente nonviolenta sarebbe eccessivamente rischiosa, perché i militari o chi per
loro non esiterebbero a massacrare in breve tempo intere popolazioni. Ma qualora se ne presenti
l'occasione, quando cioè non sarà più necessario combattere con le armi, mi darei da fare perché la
rivoluzione possa continuare in modo nonviolento (rivoluzione non solo fisica o politica ma anche
culturale). Combattere con le armi non significa, in questo caso, essere dei violenti. L'azione in sé è violenta
ma è perfettamente conciliabile con la cultura nonviolenta di cui posso essere portatore. Anche
Gandhi combatté in varie occasioni. Se dò un significato letterale alla nonviolenza, Gandhi non è
stato, né ha voluto essere, un nonviolento. Ma comunque egli ha agito da Ahimsa. L'eliminazione della logica violenta che anima questa società non può avvenire, come troppi
«nonviolenti» pensano, in maniera immediata e radicale. Gli esseri umani di oggi, sottoposti alla
continua azione culturale condizionante del potere, non diventeranno certo dei nonviolenti di colpo,
ma debbono lottare come meglio credono nelle situazioni varie in cui si trovano, ma cominciando
gradualmente a far nascere una nuova cultura nonviolenta dalla prassi continua, dalla crescita
collettiva e individuale della coscienza politica. Le rivoluzioni, quelle vere, non nascono mai all'improvviso, ma possono partire da situazioni
improvvise, e magari contraddittorie per crescere, maturare ed evolversi. Questo vale anche per la
nonviolenza che rimane, come la intendo io, una componente fondamentale del socialismo
anarchico.
Marco Serventi (Roma)
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