Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 108
marzo 1983


Rivista Anarchica Online

Non mi accetto, dunque vivo

Ho letto sullo scorso numero la lettera di Giuseppe Vezza «No alla cultura della sfiga». Il titolo incuriosisce. Avevo anche letto sul numero 106 (dicembre/gennaio) l'articolo di Paolo Arduino «...Altro amor io preferia...»: alla fine della lettura di quest'ultimo avevo provato - e lo riproverei se lo rileggessi - un sentimento di «non essere solo», un incoraggiamento; insomma, come se qualcuno condividesse la mia volontà di cambiare, la mia «tensione etica di trasformazione», i miei sforzi ... la mia vita. «...È necessario aver chiaro che essendo anche noi oggetto di repressione, siamo in qualche modo, in qualche più o meno remoto anfratto del nostro cervello, nemici del progetto...»: sono sempre stato di questo parere, del parere di Arduino e di tanti altri, spero, e la mia gioia di fine lettura mi sembrava - e mi sembra - motivata. Non posso fare a meno di rispondere a Vezza, pur con le dovute precauzioni, dato che la concisione con cui si esprime (motivi di spazio?) può avermi fatto fraintendere il senso del suo discorso.
La sua lettera mi ha lasciato perplesso, con l'amaro in bocca, preda del dubbio. Non che ciò mi dispiaccia: ho fatto del dubbio la base della mia vita. Era l'amaro in bocca che non riuscivo a sopportare. Vezza scrive: «qualche volta è preferibile accettare se stessi per quel che si è anziché vivere nel logorio psicofisico di chi tende incessantemente ad essere migliore e così facendo non vive affatto il presente bensì spera nella vita futura»; e parla di «rischio di diventare complessati cronici», di «coscienza di Zeno», di «cultura della sfiga». Non sono d'accordo.
Ciò che oggi mi salva dall'essere complessato cronico è proprio il non accettarmi, il «logorio psicofisico di chi tende incessantemente ad essere migliore».
Io non so come Vezza viva il suo «essere anarchico» oggi. Io lo vivo come un «tendere a diventare anarchico», e l'incoraggiamento datomi da Arduino ha subito un duro colpo dalla lettera di Vezza.
«Educare, purtroppo, vuol dire anche questo; abituare il fanciullo a convivere con la noia, abituarlo a pensare al mondo senza piacere, convincerlo intimamente dell'impossibilità di unire il lavoro ad un gioioso coinvolgimento (politica dei sacrifici e del dovere)». Volontà di incidere sul sociale: bene! Ma in che modo? Come fare qualcosa di concreto, visto che «come anarchici di concreto non si fa niente?».
«Costruire strutture alternative al sistema, dove poter vivere la maggior parte del proprio tempo e crescere in coerenza»: bene anche questo! Quello che non riesco a capire è come Vezza possa allontanare la «tensione etica di trasformazione» da tali strutture. O Vezza non ha capito Arduino o io ho frainteso Vezza. Potrei anche aver frainteso Arduino - vivere il nostro tempo in tali strutture alternative riuscirebbe poi effettivamente a farci crescere in coerenza? E il nemico che si annida in noi stessi? Il nemico forse più tenace? Basterebbero tali strutture a snidarlo? Non sarebbe meglio considerarle come centri di «tensione etica di trasformazione»? O dobbiamo continuare a considerare i nostri sforzi come una coscienza di Zeno?
Essere anarchici oggi, dopo la profonda e continua educazione impostaci, è una sofferenza. La volontà di cambiare, il non accettarsi continuo, il continuo mettersi in critica, il vivere il rifiuto, l'immaginario, l'utopia: tutto ciò allevia la sofferenza.
Ma un anarchico soffrirà sempre in un mondo come quello in cui viviamo. Preferisco continuare a snidare il tenace nemico: anche questa è la mia rivoluzione oggi! Perché ho paura che accettare se stessi, seppur «qualche volta», per quello che si è, possa portare, un giorno, ad accettare anche ciò che ci circonda. E allora ...
Saluti anarchici.

Taso (Racale)