Rivista Anarchica Online
Eroina e potere
di Stefano Fabbri
Nel presentare,
sul penultimo numero della rivista ("A" 130, agosto/settembre
'85), l'ampio dossier su "San Patrignano & dintorni",
riconoscevamo di esserci occupati relativamente poco della "questione
droga". In passato, infatti, sull'argomento avevamo pubblicato
solo qualche intervento sporadico, con un'unica eccezione: l'ampio
resoconto dell'esperienza della cooperativa romana "Bravetta
'80" ("A" 88, dicembre '80/gennaio '81). Quel dossier
era firmato da Stefano Fabbri, che di "Bravetta '80" è
stato fra i membri più attivi. È
sempre Stefano Fabbri il curatore del dossier che pubblichiamo in
queste pagine, costituito da due interviste a nostro avviso di grande
interesse. Nella prima, a parlare è la dottoressa Franca Catri,
rinviata a giudizio nel maggio '84 per aver prescritto morfina a
scalare, per la disassuefazione dei tossicodipendenti, prima che tale
prescrizione non fosse più considerata reato. L'altra voce di questo
dossier è quella di Paolo Morelli, un ex-tossicodipendente: la sua
testimonianza, tanto diversa da quelle a cui ci hanno abituato i
mass-media, aiuta a comprendere alcuni meccanismi che portano alla
tossicodipendenza, ma soprattutto sviluppa considerazioni originali
sulle possibilità/modalità di uscire dal famoso tunnel, senza
rinunciare alla propria dignità e personalità, anzi. Esattamente il
contrario di quanto avviene a San Patrignano e nei mille "luoghi
separati" preposti ad un recupero che passa attraverso la
distruzione/rimodellazione della personalità del "peccatore".
L'unica maniera è togliergli la preda
Ai primi di
maggio del 1984 c'è stato il rinvio a giudizio di alcuni medici che
hanno prescritto morfina prima del Decreto Aniasi. Come tu sai, e
credo che anche i compagni sappiano, l'intervento terapeutico della
Cooperativa "Bravetta '80" che prevedeva l'uso della
morfina a scalare per la disassuefazione dei tossicodipendenti, è
iniziato nel '79, quando la materia non era assolutamente regolata da
nessun tipo di legge e praticamente ci si doveva rifare ad una
vecchissima farmacopea ufficiale del '32, in cui era regolamentata la
prescrizione di questa sostanza per altri casi, dal momento che la
tossicodipendenza non era un fenomeno di massa. La successiva
emanazione del decreto Aniasi nell''80, che è stata promossa in
pratica da noi, oltre che da Corradeschi a Firenze e da altri che
hanno lottato in questo senso, ha implicitamente riconosciuto la
validità di tale intervento perché ha ammesso la morfina in questo
tipo di terapie. Solo che io ho
cominciato prima e sono stata una di quelli che lo ha fatto in modo
più eclatante, perché avevamo tanti tossicodipendenti, perché ho
sempre sostenuto battaglie politiche, sono sempre stata sui giornali,
ho fatto interventi, articoli, mi sono battuta per far cambiare la
prima stesura del decreto. L'inchiesta della magistratura, che poi è
sfociata in questo rinvio a giudizio, è iniziata da un cosiddetto
"morfinaggio sporco", che faceva capo soprattutto alla
farmacia di Viale Libia a Roma, per cui ci eravamo fortemente
preoccupati perché volevamo mantenere al nostro intervento un
carattere di correttezza e validità. Prima di allora
noi stessi ci recavamo dai medici chiedendo le liste, che non sempre
ci davano. È successo
che quando ci siamo accorti che alcuni prendevano morfina da più
parti abbiamo fatto una conferenza stampa richiamando l'opinione
pubblica su questo modo di procedere, non solo della farmacia di
Viale Libia, ma del "morfinaggio" in sé, che andava
incontro allo sfacelo. La magistratura,
che già stava facendo un'inchiesta su queste cose, ha dovuto
affrettare i tempi. Ma per tutta risposta ha ordinato una
perquisizione al mio studio, mi ha fatto recapitare un avviso di
reato per "prescrizione ad uso non terapeutico di morfina", mi
ha fatto portare al nucleo "antidroga". Il magistrato ha
deciso di rinviare a giudizio alcuni medici, ne ha prosciolti cinque
che facevano le stesse cose che facevo io, anche se in maniera meno
eclatante, da privati e soprattutto non come azione politica. Io sono
stata chiamata a giudizio insieme a quei cinque medici che
prescrivevano dietro pagamento direttamente sopra la farmacia di
Viale Libia, insieme a speculatori e spacciatori, con l'art. 77 che
punisce questo reato che equivale al grande spaccio: rischio da 4 a
20 anni.
Chi parla è Franca
Catri, medico di una delle strutture di base più poliedriche ed
indicative fra quelle sorte sulla questione-droga nell'ambito del
"movimento" negli ultimi anni in Italia. Di questa
esperienza ho ampiamente riferito in passato sulle colonne di questa
rivista ("A" 88, dicembre '80/gennaio '81), dato che vi presi
parte attivamente anche insieme ad altri compagni anarchici e perché
ritenni molto interessante dal punto di vista libertario l'intervento
socio-terapeutico aperto allora. L'evoluzione della
Cooperativa venne bloccata dalla bagarre delle istituzioni che,
mentre finanziano con centinaia di milioni comunità coercitive di
stampo ecclesiastico, o associazioni più o meno di partito che
trattano il problema solo dal punto di vista culturale con
scarsissimi approcci diretti, mentre dilapidano ingentissime somme
per foraggiare servizi pubblici assolutamente inadeguati, ambigui e
contraddittori e di carattere medicalizzante (oltretutto messi in
condizione di non agire quando gruppi di operatori cercano
d'impostare un discorso corretto e globale, viceversa semplicemente
mantenuti come cronicari o luoghi d'imboscamento di personale
protetto e inefficiente), hanno tenuto ai margini da tutti i punti di
vista "Bravetta '80", la quale vantava un numero di "utenti"
maggiore di quello di svariati servizi di assistenza capitolini messi
insieme. In ultimo con questa assurda montatura giudiziaria. Questo pezzo assume
oggi ancora più valore dal momento che, nel clima generale di
restaurazione, la morfina sarà bandita dalle terapie a scalare per
tossicodipendenti. Lo ha stabilito il "Comitato Tecnico
Interministeriale Sanità" che ne ha dato comunicazione il 19
settembre '85. Tale decisione, che preannuncia un prossimo decreto
del ministro, è ancora più grave poiché si rifa ad una presunta
sperimentazione svolta dall'epoca del decreto dell''80 ad oggi (anzi,
il "Comitato" stesso parla di chiusura della "fase
sperimentale", che sarebbe iniziata con la promulgazione della
legge 685 del '75) che per la morfina non è praticamente stata mai
condotta in modo continuativo, chiaro e sistematico, tranne che da
alcune strutture di base come appunto "Bravetta '80" (che
si vide poi costretta a chiuderla bruscamente a seguito delle
pretestuose comunicazioni giudiziarie recapitate alla dottoressa
Catri), dal CMAS di Firenze, che ne sosteneva pure la validità e da
alcuni altri servizi pubblici messi in breve nell'impossibilità di
continuarla da specifiche disposizioni regionali. Pochissimi sono
stati infatti i piani a morfina portati a termine nei tempi stabiliti
e non interrotti anticipatamente "d'ufficio". È
anche per questo che la lotta di Franca Catri per uscire dalla
grinfie dell'inquisizione va sostenuta, anche al di là della
naturale diversità d'opinioni che su determinati argomenti è forse
possibile riscontrare. A lei ho chiesto:
praticamente sei stata accomunata a coloro che si
facevano pagare per fornire le ricette e che invece di fare un
discorso morale e politico si interessavano solo del proprio
tornaconto, a volte senza neanche fare anamnesi e accertamenti?
In pratica sì. Noi
invece abbiamo sempre tracciato storie personali, profili
socio-psicologici, fatto prove anamnestiche. Tanto è vero che ci
sono le nostre schede alla Regione, dato che allora era d'obbligo
inviargliele.
Molte strutture
pubbliche hanno fatto poi uso di morfina, spesso con gli stessi
dosaggi?
Sì, dopo il
decreto Aniasi ciò è stato sperimentato, sebbene nella maggioranza
dei casi in modo discontinuo e scorretto. Ma noi avevamo cominciato
prima, oltre che per stimolare la sperimentazione in questo senso,
anche dietro un appello dell'allora Assessore alla Sanità Mazzotti,
che sui giornali, all'Università, all'Ordine dei Medici, aveva
chiesto a chi faceva la professione di farsi carico del problema. Noi
abbiamo risposto prendendoci in carico centinaia di soggetti e
"curandoli" secondo scienza e coscienza, dal momento che su
tutti i trattati di farmacologia sta scritto che l'intossicazione da
oppiacei si cura con le stesse sostanze a scalare.
L'appiglio
legale è stato fornito alla Magistratura dal fatto che l'attività
di "Bravetta" era cominciata precedentemente alla
pubblicazione della normativa vigente, ma in ogni caso il fatto che
alcuni medici siano stati prosciolti dalle tue stesse accuse
evidenzia un iter persecutorio?
Evidenzia per lo
meno un maggiore rischio per chi fa battaglia politica su queste
cose.
Passiamo ora ad
altri argomenti. Tu hai avuto modo di conoscere tutte le proposte di
legge. Mi puoi sinteticamente esprimere la tua opinione su queste?
C'è innanzitutto
quella di "Democrazia Proletaria", alla stesura della quale
ho collaborato attivamente sebbene da "esterna" e non in
qualità di "militante", che prevede la "legalizzazione",
ovvero la distribuzione controllata delle sostanze sostitutive e
dell'eroina stessa, da attuarsi presso servizi resi chiaramente
agibili e opportuni, non "specializzati", ma nell'ambito di
quelli pubblici che si devono occupare del problema benessere e
salute di tutta la popolazione e non solo dei tossicodipendenti. La
questione dei servizi è grossa, ma si deve affrontare in ogni caso e
per tutto, non solo per la tossicodipendenza. C'è poi una proposta
del Pdup che è quasi simile a quella di Dp ed una dei Radicali nella
quale ci sono pure dei punti in comune.
Quali le
differenze?
Con il Pdup la
differenza è minima, si parla di giorni in cui uno può dare la
ricetta. Per quanto riguarda i radicali le differenze sono un po'
più accentuate perché sono in parte per una liberalizzazione: si
tratta di una proposta di Teodori molto vecchia, e ci sono anche dei
punti sulla distribuzione controllata che non quadrano per una
cattiva impostazione del problema, forse soprattutto per mancanza
d'esperienza, ma indipendentemente da ciò è abbastanza simile alla
nostre. Differisce invece
quella elaborata dal PCI. Cancrini, che ne è l'esponente più
qualificato, oltre a fare un discorso sullo spaccio, il che sarebbe
ottimo per quanto riguarda il grosso mercato, fa però una battaglia
di repressione marginale, vedi la storia delle "Madri di
Primavalle", ove si colpisce il piccolo smercio. D'altra parte
fa una proposta di tipo fantascientifico: si afferma che si devono
andare a cambiare le coltivazioni di tutti i paesi produttori. Ciò è
impensabile: prima di tutto questo puzza molto di etnocentrismo,
infatti sarebbe come se altre nazioni venissero ad imporci di
eliminare le coltivazioni a vite perché l'alcool fa male. L'oppio
gestito nell'ambito di certe culture e popoli non ha mai procurato i
grossi danni provocati da noi con la diffusione clandestina. Poi
questo è irraggiungibile in tempi brevi: in clima di proibizionismo
nessuno può esser certo che pur alternando equilibri
economico-politici internazionali o addirittura promuovendo una
"guerra dell'oppio alla rovescia", riuscendo magari a far
seminare patate, le colture clandestine non sorgerebbero ugualmente,
dato il grosso affare in gioco.
Quindi questa
proposta si può tranquillamente definire demagogica?
Lascia comunque
scoperto un versante importantissimo che è quello di mezzo fra
repressione marginale e cambiamento delle coltivazioni. L'unico da
affrontare concretamente se si vuole dare una risposta in tempi
brevi.
Prima hai
accennato alle "madri di Primavalle". II PCI ha avuto varie
uscite in questi anni su questo problema, adesso pare sempre più
impegnato a promuovere simili aggregazioni o ad appoggiarle, facendo
un discorso che si accentua più sul lato repressivo diretto che su
un discorso terapeutico. Così non va essenzialmente verso la
stigmatizzazione della "devianza"?
Come tutte le
battaglie di repressione marginale, è chiaramente di retroguardia,
non perché non sia importante che le madri, invece di chiudersi
dentro casa a piangere, escano allo scoperto e cerchino di capire
qualche cosa della questione e di lottare. È
politicamente importante aver voglia di diventare
protagonisti. Quello che è sbagliato è come si indirizza questo
sforzo. Come ho scritto in un articolo su "Paese Sera", che
mi hanno tagliato, se le madri di Primavalle, che forse sono le
stesse che hanno lottato contro l'aborto clandestino, capissero che
bisogna combattere contro la droga clandestina e non contro la
sostanza in sé o il piccolo spacciatore, questo determinerebbe
qualcosa di veramente positivo. Bisogna giungere ad un clima di non
proibizionismo, non nel senso di far arrivare l'eroina in tabaccheria
o dal droghiere, perché in questo caso entrerebbero in gioco molti
problemi legati al consumismo in senso lato ed altri di carattere
internazionale, dato che presumibilmente ci sarebbe un mercato in
uscita dall'Italia verso altri paesi. Quello che si dovrebbe capire è
che spingere i politici e gli amministratori della cosa pubblica a
fare una lotta contro un pericolo immediato come questo significa
costringerli a fare delle cose per cui la gente non debba più morire
nelle piazze o continuare a potenziare il mercato. Poiché questo non
lo si può colpire né in alto né in basso, l'unica maniera è
togliergli la preda, il consumatore. Tutto il resto è atteggiamento
consolatorio: facciamo tutto purché non cambi niente.
Oppure
essenzialmente di tipo repressivo, per calmare ed ingraziarsi il
"benpensante". Come mai Cancrini ha questo tipo
d'approccio, secondo te?
È
una persona che sa fare anche delle analisi molto affascinanti, ma ha
un tipo d'impostazione che gli viene da due fronti: prima di tutto è
uno psichiatra, quindi ha una visione soprattutto di tipo
psichiatrico, cioè di terapia relazionale: tutto sta "già
dentro la persona". Con un riferimento anche ai servizi che mancano
ecc... Poi ha l'altro vizio di fondo che è quello di essere un uomo
di partito, quindi impersona quella che è la posizione ufficiale del
PCI e non se lo può scordare. Un partito che avanza pieno di paura
di perdere i consensi della gente, che è molto cauto nell'affrontare
problemi che "scandalizzino" come la tossicodipendenza.
Cancrini è da una parte il "prudente" del PCI, dall'altra
è lo psichiatra. Tra questi due poli si stabiliscono dei modi di
affrontare la cosa che secondo me sono viziati anche dal fatto che
Cancrini è molto favorevole alla parte cattolica: gomito a gomito
con Don Picchi, ha un modo di vedere il problema che è ulteriormente
repressivo, perché la comunità o è strettamente coatta o non
regge. Qui ci avviciniamo
ad un altro glosso punto dolente, perché io capisco che a certe
persone il discorso della comunità in alternativa al carcere può
sembrare positivo. Ma si farebbero diventare queste strutture una
enorme "riserva" per "diversi", perché
dovrebbero bastare per l'80 per cento della popolazione carceraria
che è tossicodipendente. Sarebbe quindi un arcipelago carcerario
chiamato con altri nomi, come il manicomio giudiziario quando è
sorto, ed abbiamo visto poi quello che è diventato. La comunità può
essere utile per alcuni soggetti che la chiedono in alcuni momenti,
tipo alloggio-crisi, ma non quale risposta pianificata o come
"soluzione finale". Poi si tratta sempre di un altro modo
per separare il "deviante" dal sociale: quando torna a
contatto con l'ambiente di prima non ha risolto niente.
C'è l'ulteriore
rischio della dipendenza dalla comunità?
Sì, anche questo è
un grosso dato, la dipendenza da queste figure carismatiche che
ricreano un legame simile a quello preesistente con la sostanza. Poi
c'è lo sfruttamento del lavoro, la speculazione sull'assistenza, la
cosiddetta "mafia bianca" che a volte è peggio di quella
(nera) dello spaccio. C'è la grossa collettività, per cui si entra
solo tramite raccomandazioni ed entrano solo quelli che non si
"fanno" più da almeno 6 mesi/un anno, quindi coloro ai
quali serve meno. La questione delle rette, ecc...
Non credi che ci
siano anche problemi legati al tipo di approccio di molte comunità
verso il tossicodipendente? Si sente parlare spesso di casi di
destrutturazione della personalità.
Certamente, perché
gli utenti sono gestiti interamente da altri. L'intervento dovrebbe
invece essere teso a ri-responsabilizzare l'individuo, verso se
stesso e ciò che gli succede intorno, perché riprenda la sua veste
di "soggetto" e non di "oggetto" sociale. Una cosa
che egli deve conquistarsi. Poi, al limite, è pure comodo per lui
dire: "io sono debole, non ce la faccio, sono incapace, ci
devono pensare gli altri". Ciò diventa un alibi con se stesso
che rinforza appunto il "bisogno" di "dipendere",
in un pericoloso giro vizioso.
C'è l'impiego
massiccio di forme dozzinali e crudeli di "comportamentismo", di
tutta una serie di tecniche relazionali di tipo estremamente
repressivo, quali la deprivazione sessuale, la segregazione e la
coercizione per mesi.
Regole molto
rigide, che se non richiamano alla memoria addirittura
l'inquisizione, sono comunque pesantissime. Non possono vedere
nessuno, avere rapporti, per esempio per 6 mesi. A seconda di come si
comportano si mettono in atto dinamiche di premio-punizione, che sono
quanto di più dannoso anche dal punto di vista pedagogico. Sono
superate per i bambini, figuriamoci per un soggetto adulto: se hai
fatto questo ti nego di telefonare quella volta ogni tanti mesi a
casa, e veri e propri castighi ancora più grossolani. Addirittura
l'impossibilità di fumare, di scrivere o leggere ciò che si vuole,
di discutere di politica. È
tutto sotto controllo ed affidato a quelle due o tre figure che
devono gestire il tutto: queste sono le comunità che "reggono"
nel tempo.
Appunto prima
dicevi che le comunità o sono coercitive o non funzionano?
Secondo me è così
perché se uno è capace di gestirsi da solo in qualche modo, non ha
bisogno della comunità. Se in quel momento non è capace, quasi
chiede che sia di quel tipo. Se non è così il secondo giorno non ce
la fa e scappa. Allora a cosa serve la comunità in sé?
Credi che sia
una risposta di carattere essenzialmente repressivo che viene data in
mancanza di altro, perché non si vuole agire diversamente ed
intaccare le ragioni di fondo?
La gente chiede le
comunità perché non c'è altro. Dove esistono servizi diversi, come
a Firenze con l'esperienza avviata da Corradeschi che è una delle
migliori in Italia come struttura pubblica a morfina, ed è collegata
anche con interventi sociali e di lavoro, non solo di tipo
farmacologico, la richiesta di comunità è molto bassa. Corradeschi
fece una statistica e solo il cinque per cento richiese
l'internamento in comunità, ed anche lì i servizi difettavano di
tante cose. Non servono solo
servizi pubblici ma anche organizzazioni di base. Il pericolo è però
che quando c'è una fetta di torta da spartire entrano in gioco non
solo quelli che veramente vogliono lavorare per cambiare qualcosa, ma
anche quella fascia di cosiddetti "volontari" d'estrazione
cattolica, repressiva, reazionaria, che vogliono tirarci fuori soldi.
Per questo io dico che è necessario anche un servizio pubblico
gestito e controllato in qualche maniera da tutti noi.
Vuoi dire che
bisognerebbe aprire spazi di lotta anche all'interno dei pubblici
servizi e, contemporaneamente, fare chiarezza rispetto alle strutture
di base promuovendo realtà di carattere effettivamente
autogestionario?
Certamente. Poi i
bilanci devono essere controllabili da tutti, perché io i soldi
pubblici non me li posso spendere per andare alle Bahamas.
Per tornare a
Cancrini, ritieni che ci sia anche in questo campo un discorso di
"compromesso storico" fra una certa sinistra ed i
cattolici? Ho visto spesso Cancrini e Don Picchi parlare insieme in
televisione, fare enunciati comuni in clima fraterno.
C'è un gran
piegarsi verso la parte cattolica. Io, discriminazioni di "etichetta"
non ne faccio: esistono "cattolici di sinistra" con cui
sarei prontissima a lottare insieme, come ad esempio il "Centro
Abele" di Torino, anche se il punto di vista può divergere per
alcune cose. Invece c'è proprio un inchinarsi a Don Picchi, e dargli
tanto spazio così vuol dire veramente venire ad un grosso
compromesso.
Da una parte c'è
un continuo proliferare di questo tipo di comunità repressive di
carattere essenzialmente cattolico e dall'altra, anche nello stesso
campo confessionale, v'è una riduzione costante di ogni discorso
aperturista e problematico. C'è stata questa "evoluzione"
dell'intervento cattolico: sono passati dal diacono di piazza alla
Boyer, che richiamava in qualcosa Don Milani, all'intervento di gente
di spirito diverso e che ha un potere economico-politico enorme.
Don Picchi è molto
vicino al Papa, in America è stato ricevuto da Reagan e prende
finanziamenti da più parti per lo stesso tossicodipendente: una
volta come convenzione dal Comune, un'altra per la convenzione con la
Regione, infine dai familiari dello stesso. Dice: "se possono",
ma se è necessario, chi è che non trova i soldi? Poi acquisisce
lasciti, donazioni da istituti di beneficenza, ricavi di mostre
collettive di pittori, introiti dal Vaticano.
È
uno che conta dal punto di vista politico?
È
un uomo di potere. Lui dice che quando escono i tossicodipendenti non
si "fanno" più, ma non si "facevano" neanche
prima di entrare, perché altrimenti non li prende. Per un anno e
mezzo "d'accoglienza" non si devono drogare. I rischi delle
comunità chiuse e coercitive in generale sono tanti. A me sembra che
subiscano una specie di lavaggio del cervello: se li senti parlare
sono individui che hanno perso la loro personalità, che si sono
riadattati passivamente alla società così com'è, che non hanno più
nessuna velleità, nessun progetto di cambiamento. Si sono
reinquadrati nel sistema: gli hanno fatto una manipolazione della
coscienza a livello tale che quelli non si bucano più, ma per la
cultura di sinistra sono perduti, e direi anche per la cultura umana
in genere perché non hanno più niente del valore e del patrimonio
di un essere umano.
Perché ci sono
pochi controlli su queste comunità chiuse, dove neanche i genitori
possono entrare, ed invece proliferano iniziative repressive contro
singoli medici o contro strutture aperte di diverso orientamento?
Io credo un po' per
il grande potere personale che ha Don Picchi, ed un po' perché in
assenza di strutture e servizi la "patata bollente" la
sbattono al prete, come funziona dal tempo dei tempi, quindi anche
per crearsi un alibi.
Non pensi che
comunque sia un tipo di intervento anche funzionale al controllo
sociale?
Certo, ma non alla
cultura di sinistra, insisto, che così viene cancellata con un colpo
di spugna. Io mi auguro che le persone in buona fede, che ci sono
anche nel PCI, specie alla base, le quali non sono affatto favorevoli
a queste cose, si chiedano dove vanno a finire cento anni di
coscienza: questa non è una cosa che riguarda solo la
tossicodipendenza, ma anche la visione della famiglia, della società,
della scuola.
Infatti nella
proposta di legge del PCI si parla di ricovero coatto nelle "comunità
terapeutiche". Nel PCI, in passato, abbiamo visto invece
l'intervento di "Magliana '80" che ricalcava quello di
"Bravetta '80". Questo, nonostante il sospetto tentativo di
recupero strumentale che vi sottintendeva, era pur sempre sinonimo di
apertura rispetto alla questione. C'era poi stato in passato un
notevole dibattito all'interno della FGCI.
La FGCI sosteneva
una legge d'iniziativa popolare che prevedeva la legalizzazione,
insieme a DP e Pdup. Infatti ritengo che i giovani e la parte più
sensibile al problema non abbia capito molto la svolta che s'è
operata nel PCI. Col compromesso anche in questo campo stanno
completamente perdendo di vista troppe cose. Per esempio,
l'atteggiamento odierno è quello di dire: "però, con la
permissività, la famiglia messa in crisi, la scuola messa in
discussione ed in più il terrorismo, siamo andati a finire alla
droga. Allora ricostituiamo il bell'istituto famigliare in modo
preciso perché il problema è tutto lì. Quindi facciamo terapia
relazionale con le famiglie, cerchiamo di risistemare certe cose
visto che è pericoloso andargli a dare una scrollata". Questo secondo me è
un grosso pericolo perché, anche in mezzo alle delusioni, agli
scoramenti, bisogna pur mantenere l'obiettivo, perlomeno una tensione
verso un progetto di cambiamento, altrimenti avviene un salto di
campo.
Per tornare al
processo, i tuoi avvocati, Rocco Ventre e Alfredo Salemi, cosa
dicono?
Se non c'è una
volontà precisa di stigmatizzare e colpire chi è stato più in
vista in questo campo, il processo si dovrebbe risolvere
favorevolmente, in quanto la magistratura ha già discriminato fra
chi ha speculato e chi no. Il problema sta a monte, e riguarda la
volontà politica che può sottendere all'operato dei giudici: tutti
i fatti e gli elementi li hanno già in mano e se hanno prosciolto
cinque persone e me no, vuol dire che ci sarà da faticare veramente.
Il quadro generale di questo momento è pericoloso perché il dare
addosso al sostitutivo è diventato una moda, mentre nei primi
periodi del decreto c'era per lo meno un'apertura, adesso l'hanno
dichiarato fallito senza mai sperimentarlo correttamente. Non solo la
magistratura è contro il sostitutivo, ma addirittura la gente: chi
lo prescrive è un avvelenatore del popolo.
Addirittura la
critica che si faceva "da sinistra" del metadone viene oggi
usata dalla destra per eliminare tutte le sostanze sostitutive dalle
terapie. Il risultato chiaramente sarebbe repressione feroce,
abbandono totale e fuga dai servizi, clandestinità al cento per
cento.
Anche la sinistra è
caduta in questa trappola. Quindi è il momento più sfavorevole: se
il procedimento fosse stato avviato nell''80 ci sarebbe stato un
altro clima. Le famiglie sono più orientate verso la comunità che
verso una struttura come la nostra che magari prescrive morfina
insieme ad altri interventi socioculturali, lavorativi, ecc...
Nell'ordinanza del giudice sono stati citati due testimoni che sono
stati presi a caso o in seguito a degli arresti, Scordo e Ballini,
dei quali uno ha detto che prendeva trenta fiale e che praticamente
l'avremmo fatto diventare noi tossicodipendente, il che è
assolutamente falso perché più di dodici fiale non davamo, ed
inoltre costui è stato allontanato da "Bravetta '80"
quando ci siamo accorti che prendeva più ricette, di cui una a V.le
Libia con grossi quantitativi. Questa probabilmente è stata una
testimonianza dovuta a risentimento, poi probabilmente li avevano
arrestati, stavano in crisi, non vedevano l'ora di andare via...
Ricordo io
stesso quando in un tentativo di avere più fiale questo Sergio
Scordo simulò di tagliarsi i polsi di fronte all'ingresso della
Cooperativa.
Ballini ha detto
che lui praticamente le fiale le prendeva per vendersele. Ora, che
fosse possibile il formarsi di un "mercato grigio" è anche
vero, ma proprio perché potevano prendere le ricette da più parti,
altrimenti quelle che avevano da noi bastavano solo per coprire il
bisogno.
Queste
testimonianze sono fondamentali nel castello d'accusa?
Per l'ordinanza del
Giudice sembra di sì, ma verranno smontate, gli si ritorceranno
contro. Ci sono i registri per giudicare che ad esempio le
dichiarazioni rese da Scordo sono false, che da noi non ha mai avuto
prescritto quel numero di fiale. Ma anche il fatto che non si sono
nemmeno presi la briga di andare a guardare i registri e verificare
che si tratta di una deposizione falsa non impressiona molto
favorevolmente. I vari giudici che si sono succeduti nella fase
preprocessuale dopo Fiasconaro che iniziò l'inchiesta, cioè Stipo,
Rotunno, Miceli, Almerighi, non hanno mai letto la perizia di parte,
a giudicare dalle ordinanze ed i documenti che hanno depositato per
le loro proposte di rinvio a giudizio. Questo o è un modo di
comportarsi che dimostra disinteresse di leggere gli atti e volontà
di rinviare tutto al processo, il che esprimerebbe in ogni caso poca
coscienza, oppure è sinonimo di predeterminazione, di voler
condannare o di voler fare comunque il dibattimento. Non so se in
sede d'udienza il giudice penserà di leggere tutto o meno: certo è
che se vogliono essere obiettivi devono farlo.
Quando comincerà
il processo?
Presumibilmente non
prima di ottobre o anche gennaio. Gli avvocati sostengono che si
tratta di un caso esemplare, che se ne può fare un grosso momento di
dibattito. Poi c'è tutto il Coordinamento Nazionale degli operatori
favorevoli alla morfina che sono molto interessati. Anzi, bisognerà
vedere se sarà il caso, come mi consigliava Bignani dell'Istituto
Superiore di Sanità, di fare una contro-denuncia collettiva: girare
il processo, farlo diventare un momento d'accusa per omissione di
soccorso contro i servizi pubblici e tutti quelli che in quel periodo
sono rimasti latitanti di fronte al problema.
In cosa
consisteva l'intervento dei servizi pubblici prima del decreto
Aniasi?
In niente, rari e
sporadici ricoveri quando proprio la gente stava in coma, e basta.
E il metadone?
C'era, ma in
pochissimi centri istituzionali. Di quelli che allora si chiamavano
CMAS (ora SAT) solo qualcuno dava metadone, molto sporadicamente. Non
si trattava neanche di un intervento di tipo assistenziale: la
maggioranza dava psicofarmaci e ricoveri ospedalieri. Il ricovero
stesso solo se c'era un'indicazione che lo prescriveva, se si
trovavano di fronte a degli stati morbosi gravi, indipendentemente
dalla tossicodipendenza, e sotto la responsabilità del medico.
Tu hai parlato
della pena che rischi con questa incriminazione. Poi c'è anche la
questione dell'Ordine dei Medici.
Con una condanna
vieni sospeso dall'Ordine: è una grossa spada di Damocle rispetto
alla professione. Poi ci sono comunque le enormi spese per sostenere
tutte le eventuali istanze e la grossa fatica per raccogliere una
gran mole di materiale: dibattiti legislativi, processi precedenti,
testimonianze di quanti sono stati in terapia.
Qui finisce la
testimonianza di Franca Catri. Per ora, mentre persone come lei hanno
a che fare con la "giustizia", i corrotti, gli
incompetenti, i venditori di fumo bivaccano al sicuro. Fino a quando?
L'importanza dl
non pentirsi
Paolo Morelli è un
vecchio amico, un vecchio compagno, molti dei nostri trent'anni
passati li abbiamo trascorsi insieme, abbiamo discusso insieme,
vissuto insieme. Ma assai difficilmente avremmo immaginato, 15 anni
fa, quando ci conoscemmo, che ci saremmo ritrovati oggi a parlare
d'una sostanza come l'eroina che allora ci era del tutto estranea. Tante cose sono
cambiate, io che ormai da diverso tempo, dall'esperienza di "Bravetta
'80" in poi, mi occupo della "questione droga", lui che
per lungo periodo se l'è trovata di fronte ogni giorno. Sul piano
"giornalistico" il gioco pare sempre avere ruoli
inamovibili: il tossicodipendente invischiato nella "ragnatela"
che chiede aiuto e l'operatore che cerca una strategia per
"soccorrerlo". Tentiamo di scalfire questa "routine",
convinti come siamo che la tossicomania abbia aspetti e significati
molto complessi, molti dei quali ancora da scoprire e caratteristiche
che vanno ben al di là dei luoghi comuni. Siamo certi di una cosa
sola: chi ha avuto a che fare con sostanze stupefacenti può solo
testimoniare la drammaticità d'un vissuto tutt'altro che semplice,
ma anche contribuire all'analisi di una realtà i cui risvolti sono
fondamentali per la comprensione d'un fenomeno che richiede
innanzitutto la definizione di sempre nuove coordinate conoscitive. Troppo spesso la
tossicomania è stata affrontata in modo univoco. Il fine del
"recupero" ha, anche per un eccesso di zelo, impoverito la
ricerca; troppi stereotipi sono stati imposti all'opinione pubblica.
Lo spettro della malattia e della anomalia, intesa nella sua
accezione più negativa, ha contagiato in questo campo anche chi ha
sostenuto battaglie politiche e sociali molto importanti contro la
maniera "tradizionale" di intendere la devianza. Non credo sia
un caso il fatto che, mentre ci si pone il problema della
salvaguardia della legge 180 sui manicomi, ben poco viene fatto per
arginare quelle manovre retrive che vogliono fare della
tossicodipendenza un nuovo terreno di sperimentazione di pratiche
repressive e psichiatrizzanti. Sempre più alte si
levano le voci a favore del ricovero coatto in comunità per i
consumatori e non soltanto come "alternativa" al carcere.
In questo contesto difficilmente trova spazio un'esperienza diretta
del tossicomane, o anche di chi ne è uscito, se non ha forti
venature autocritiche. Sembra che la serenità necessaria ad
affrontare un dibattito più aperto venga inibita dalla paura del
"contagio". E nel frattempo fiumi d'inchiostro e d'immagini
ci bombardano quotidianamente con i simboli della "Morte per
Droga" in una forsennata campagna terroristica, questa sì di
dubbia efficacia. Ciò che qui si
propone è, in tale panorama, un pezzo "sui generis". La
voce qui registrata, anche se una volta tanto non coperta dal velo
dell'anonimato, emerge bene o male da dietro le quinte di quel
mistificato palcoscenico ove si rappresenta il "dramma della
droga". Si parla di un percorso individuale ed autonomo di
liberazione dalla dipendenze, quanto originale e lucido di convivenza
con la sostanza. Prendono forma interessanti intuizioni che spaziano
nell'analisi del rapporto fra imposizione mediale, deprivazione
sensoriale, "cultura della dipendenza" e tossicodipendenza. Si
potrebbe obiettare che i livelli di consapevolezza espressi sono
desueti fra i consumatori abituali di sostanze stupefacenti, e ciò è
forse vero. Ma non è nostra intenzione "rappresentare" un
soggetto sociale o una particolare condizione esistenziale in tutte
le sua accezioni, bensì portare alla luce una testimonianza degna di
nota che pone sul tappeto interessanti opinioni ed interrogativi, che
fa pensare, pur se le questioni di fondo rimangono aperte e
nonostante il taglio soggettivo delle dinamiche tracciate.
L'eroina è una
sostanza che impedisce di agire?
La pesantezza
dell'eroina come sostanza "sonnambula" o separante fa parte
del luogo comune. Questo, fra l'altro, è facilmente confutabile
dall'esempio di Wall Street, dove persone abituate da anni ad usare
eccitanti, svolgendo un'attività che necessita di una tensione
continua quale quella di chi lavora in borsa, usano oggi l'eroina su
larga scala, sebbene naturalmente trattandosi di ceti abbienti la
sostanza, cara o pura, venga fumata. L'assunzione per via non
parenterale dà la possibilità di non esporsi ai rischi del "buco"
e di circolare liberamente nei posti di lavoro, siano essi fabbrica o
Consiglio Comunale. In realtà ciò che annichilisce è la maniera in
cui nelle strade ci si trova ad assumere la droga. Il
tossicodipendente ha dalla sua, a differenza dell'alienato, la più o
meno consapevole scelta e le indubbie prerogative della separazione
dal dolore della normalità. Si tratta di una dimensione perdente, ma
può resistere alla percezione del dolore come isolamento, noia,
cadenza "normale" del tempo. Anzi direi che si tratta di una
"ipernormalità" in una situazione in cui il dolore è
norma. Ciò non impedisce in ogni caso al metabolismo normale di
riprendere la sua rivincita.
Nell'accezione
più comune quando si parla di tossicomania ci si riferisce
principalmente al mondo giovanile. Ciò è corretto a tuo avviso?
È
questo un altro modo di deviare l'analisi ed al tempo stesso di
nascondere la vera diffusione che è stratificata in tutte le età e
le classi sociali e sempre più capillare, dato che si vende eroina
come ogni altro bene di consumo. È
limitativo il fatto di confinare il tutto in una genesi
giovanilistica che va dal "giovane cretino" che si accosta
alla droga, al "giovane insoddisfatto".
Già molti anni
fa si parlava di eroina come fattore congenito a quest'era. Accertato
che non colpisce più gli emarginati, ma settori sempre più
eterogenei fra loro, si potrebbe cominciare ad impostare, "per
assurdo", un'analisi sul ruolo di questa sostanza nella vita
dell'uomo-medio?
La deprivazione
sensoriale è oggi alla base della vita dell'uomo-medio, che si
evolve seguendo fenomeni implosivi come l'intorpidimento dei sensi.
L'estensione sensoriale necessaria, sempre più "dovuta"
nella vita così come è strutturata oggi, fa sì che l'eroina sia
parte integrante di questo processo di non-sensibilizzazione. L'estensione
dell'uomo rispetto al senso del vedere che viene sempre più devoluto
all'immagine riprodotta, confrontata per esempio alla scrittura,
quindi a mezzi più lenti e meno coinvolgenti, "meno caldi"
come dice Mc. Luhan, fa sì che l'eroina sia parte integrante della
funzione tecnologica. Questo accade proprio perché nei media viene
privilegiato di volta in volta un senso mentre gli altri vengono
intorpiditi completamente. L'eroina s'innesta sul bisogno di
ricomposizione dell'uomo rispetto alla sua "sensibilità
totale". Mentre i media catturano isolatamente i sensi, l'eroina
dà la possibilità, consapevole o inconsapevole, di una sorta di
ri-sensibilizzazione interiore.
Potresti
spiegare meglio l'accostamento di quanto dici con le teorie di Mc.
Luhan?
L'imposizione
dell'immagine mediale sta creando una nuova tribalità (il mondo come
villaggio), e conduce in effetti verso un ritorno alla funzione del
pensiero non scritto e non detto, precedente all'apparire della
parola scritta, che a sua volta rese possibile l'estrema varietà
d'interpretazioni. Nei media non ci sono più "punti di vista". La droga di cui
parliamo è complementare all'uso dei media, dato che fornisce un
tipo di fruizione dell'esistenza avulso da differenziazioni
individuali. L'eroina non è un'opinione, cancella le opinioni,
determina una specie di azzeramento delle funzioni esistenziali. Lo
stesso effetto lo producono i media. Non si può non rendersi conto
di questo, continuare a considerarla semplicemente un nemico,
qualcosa che si possa far uscire dalla porta senza che rientri dalla
finestra.
Tu ritieni
quindi che l'espansione del consumo di droga non sia legata solo al
mercato ed a modi errati di affrontarlo?
I tossicodipendenti
sono solo delle cavie, storicamente inquadrati in questo piano di
cambiamento, inconsapevolmente inseriti in una meccanica
ineluttabile. Senza lasciarsi andare a ipotesi fantascientifiche sono
forse molto più vicini alla "normalità" del futuro di
quanto non sia dato immaginare.
Studi recenti
dotano il tossicomane di un equilibrio mentale insolito, impensato
sino a qualche tempo addietro. L'eroina svolge un ruolo di copertura
rispetto al malessere individuale, pur se determinato da disagio
sociale: in questa prospettiva quali problemi intercorrono nel
periodo di divezzamento?
L'eroina lenisce il
dolore e racchiude in sé virtù considerate taumaturgiche: lo stesso
nome che le è stato attribuito è significativo in questo senso.
L'aspetto nuovo che si può riconoscere oggi nell'uso degli oppiacei
è che la rimozione del dolore coincide con la generale crisi
dell'uomo di fronte all'estraneazione. L'isolamento è la causa
principale del dolore sociale e l'eroina è anche un mezzo per
"reagire" a tutto ciò. Quindi l'incubo del divezzamento è
determinato anche dal passaggio da una "normalità"
metabolicamente forzata dall'eroina alla comune "normalità",
ad un processo di reintegrazione nelle forme di separazione interiore
ed isolamento, come dire di malattia, dell'odierno vivere sociale.
Per questo il processo di divezzamento è così difficile e
complicato, non soltanto perché le endorfine sono castrate nella
loro funzione ma perché alle condizioni di debolezza metabolica si
aggiunge un disagio prettamente esistenziale.
Prima d'iniziare
quest'intervista mi dicevi: "l'eroinomane si sente in cima al
mondo e non sa che sta per morire". Perché?
Perché si creano
delle condizioni di ipertonia ed ipotenia, di carattere metabolico,
ma a questo punto potremmo dire anche a livello esistenziale, che
non sono quelle della normalità. Ma se riusciamo a capire bene il
processo d'implosione tecnologica vediamo che la normalità è
soltanto quella che viene registrata dai mezzi di comunicazione. Però
il drogato non sta davanti alla televisione quindici ore di seguito
perché viene rapito dall'immagine: potrebbe anche rimanere di fronte
ad un muro bianco per lo stesso tempo e con altrettanto interesse.
Questo chiarisce come sia "autosufficiente", come
ricompatti a livello sensoriale la sensibilità perduta dall'uso
estensivo dei sensi del linguaggio tecnologico.
Ma molto spesso
le aspettative sociali, pur se provenienti da differenti settori
politici e culturali, convergono su una cosa: il "drogato"
deve cambiare connotati e ricominciare col prescindere dalla sua
esperienza passata. Perché avviene questo, secondo te?
Di fatto si
pretende un ex-drogato "lobotomizzato". Penso che per
riuscire a dimenticare il periodo della tossicomania, dovrei
semplicemente cancellare gli ultimi quattro anni e mezzo della mia
vita. In una pretesa del genere vedo una sorta di elettroshock con
funzioni sociali ben definite.
La
tossicodipendenza tocca la sfera della sessualità?
Più che come un
inibitore vedo l'eroina come un sostitutivo, poiché contiene già in
sé sia la fonte che l'oggetto del piacere. La stessa cosa avviene
con l'immagine nell'ambito della ricezione passiva dei media, il cui
godimento elimina il bisogno di ogni contatto diretto. L'eroina è
piacere puro e possedendo una sorta di "virtù totale" del
piacere stesso, libera dal richiamo verso l'oggettivazione, ma non è
affatto detto che inibisca fisiologicamente.
Si sente spesso
dire che l'iniezione che viene praticata reciprocamente nella coppia
sarebbe un surrogato dell'atto sessuale.
Ciò fa parte
dell'iconografia e della ritualizzazione dell'atto del "bucarsi",
così come la siringa, che il tossicodipendente a volte venera.
Questo anche se oggi l'uso della droga è divenuto molto più
"laico": "radi e getta" il consumo d'eroina
esattamente come il modo che hai di assumerla.
Per la crisi
d'astinenza si parla, similmente, di analogie con la "crisi di
abbandono" che subentra sia alla fine di un rapporto
significativo che alla scomparsa di una figura d'attaccamento. Alcuni
ritengono che avvenga un analogo blocco delle ghiandole che producono
endorfine (nda: sostanze prodotte dall'organismo, preposte a lenire
il dolore in tutte le sue forme, anche ansiose. Con l'assunzione
reiterata di sostanze morfino-simili come l'eroina, queste ghiandole
interrompono la loro funzione: questo avviene perché le sostanze
introdotte artificialmente sono talmente simili alle endorfine da
sovrapporsi all'azione di queste e l'organismo risponde come se
stesse producendo sostanze in sovrabbondanza appunto irretendo le
ghiandole. Nella crisi abbandonica sarebbe invece il forte shock a
provocare la sospensione della secrezione). Tu che ne pensi?
Al dolore della
separazione da ciò che si ama si risponde organicamente e
psichicamente a seconda delle peculiarità fisiche e caratteriali. Io
penso che il momento del divezzamento sia analizzabile da moltissimi
punti di vista, poiché subentra una specie di rianalisi completa a
seguito della necessità di riacquistare il senso del tempo e dello
spazio. Così come riprendi il tono metabolico normale, ritrovi i
"punti di vista" della normalità, per cui passi un periodo
di ricomposizione che assume i tratti di un ripensamento quasi
cosmico, quasi filosofico. A questo naturalmente si aggiungono
estreme difficoltà causate dal crollo di tutta le dimensione
precedente: cade il significato attribuito alla sostanza. Tieni
presente che la droga viene a volte addirittura "personificata".
Molti tossicomani, fra cui anche degli artisti, parlano dell'eroina
come di una madre.
Durante la fase
del divezzamento ci si sente particolarmente "scoperti"?
Perlomeno fino a
quando non s'è normalizzato il rapporto col dolore.
Sei mai stato in
un servizio d'assistenza per tossicodipendenti?
No. Prima di tutto
perché ho sempre tenuto alla mia integrità e considero essenziale
la fiducia nella mia esperienza, poi perché non ho mai creduto che
una struttura pubblica possa inserirsi in un problema così
personale. La mia è una sfiducia "a priori", che non
prende nemmeno atto della struttura terapeutica dei SAT. Tuttavia mi
pare che oggi la funzione dei SAT sia essenzialmente
"stabilizzatrice" rispetto alla tossicodipendenza o di
"raccordo" fra le sue varie fasi. I SAT sono divenuti dei
"cronicari" anche perché si tende sempre più a farne un
servizio di prima assistenza per poi devolvere alle comunità il
resto dell'iter. Ma spesso le condizioni stesse determinano tutto
ciò, e gli operatori più coscienti sono i primi a rendersi conto
del fatto che i loro assistiti fanno un uso esclusivamente
strumentale del servizio, legato a necessità del momento: impegni
lavorativi che impediscono lo "sbattimento", carenza di
denaro o anche esigenze di scalaggio, quando magari ti sei "fatto"
talmente tanto che vuoi ridurre le dosi per ottenere di nuovo
l'effetto che ormai non provi più: quindi "smettere" per
riprendere però poi in grande stile!
Questa visione
dei SAT come cronicari ha dato il via a molte polemiche. Bene o male,
però, la massa di tossicodipendenti, che non ha purtroppo questi
livelli di consapevolezza, può trovare nei SAT, (certo non in tutti)
un punto di riferimento per pratiche di diminuzione graduale delle
dosi, o anche di "mantenimento", molto più duttili e
serene, soprattutto al momento del primo "impatto" con
l'esigenza di farla finita magari con la vita di strada, di quelle
che tendono a riportare tutto il discorso a forme di coazione e alla
drastica riduzione immediata delle dosi.
Ma in ogni caso
sarebbe almeno un esempio di sincerità il distribuire allora eroina
pura, invece che metadone, la cui scelta per la disintossicazione
istituzionale credo si possa far risalire ad interessi legati alle
commesse industriali ed a una volontà punitiva. Fra le sostanze
morfino-simili isolate il metadone si caratterizza come una delle più
"ruvide". Non per niente fu scoperto dai nazisti per
necessità espressamente chirurgiche durante la guerra, in un periodo
in cui scarseggiava la morfina.
Ma per te è
possibile praticare uno scalaggio autogestito?
Deve essere
possibile, altrimenti si moltiplicano le difficoltà del
divezzamento. E prima o poi tutti provano il desiderio di liberarsi
dalla droga.
Tu come hai
smesso?
Ti posso parlare
della mia esperienza, ma ritengo l'iter per uscire dall'eroina
comunque molto legato alle caratteristiche individuali. In generale
si può dire che si tratta di un periodo lungo, la cui durata dipende
forse più dalla qualità della sostanza assunta che dalla quantità.
La chiave di tutto risiede nel ritrovare fiducia in se stessi, nel
riacquistare la capacità, la forza, il senso e la ragione per non
vivere quotidianamente attraverso la droga. Per far ciò è
necessario "prendere le misure", quindi sperimentare vari
scalaggi (ho provato anche metadone e paracodina), persino astinenze
brutali senza l'aiuto di sostitutivi.
Cosa pensi
dell'eventuale immissione dell'eroina in farmacopea?
La legalizzazione
di questa sostanza sarebbe un passo importante almeno verso un
relativo controllo del mercato. Poi, dal punto di vista del
divezzamento, darebbe una mano immediata a chi invece deve fare salti
mortali per trovare la roba, o anche per far capire il proprio grado
di dipendenza e d'intossicazione nei servizi pubblici. Molto spesso
si ragiona sulle quantità che il tossicomane spiattella al dottore,
quando magari le necessità reali sono altre.
Ci sono, a tuo
avviso, tossicomani fittizi?
Come dimostrano
varie ricerche USA, parecchie persone assumono quantità così
infinitesimali d'eroina, così diluite dal taglio, che non possono
probabilmente essere definite tossicomani nel senso pieno del
termine. Costoro soffrono più d'autosuggestione che d'altro. Ai
poveri viene fornita droga povera e vi sono giovani che fanno uso di
grosse quantità di pasticche tritate pensando così che, per
esempio, l'effetto del "Roipnol" sia quello dell'eroina. In
carcere c'era chi sosteneva di fare uso di 4/5 grammi al giorno ed il
dottore mi ha ridicolizzato quando gli ho parlato del mio mezzo
grammo: valeva in realtà più di 10 dei loro, ma vaglielo a
spiegare... La legalizzazione
creerebbe sicuramente più coscienza del proprio grado di dipendenza.
Quella autocoscienza che è poi l'unico antidoto alla coartazione,
alla reclusione ed a tutte queste altre cure "liberty".
Mi sapresti
indicare altri problemi legati alla disintossicazione?
Tutto dipende dal
grado d'inserimento nella società, dalle facilitazioni, dai contatti
che hai. È chiaro che
una persona isolata contiene più facilmente già in sé il germe di
una ricaduta e deve rimuovere questa condizione prima di tutto.
Adesso di cosa
fai uso?
Solo di sonniferi,
ma in questi mesi sono stato spesso alla ricerca di una droga, non
importava che fosse l'alcool o lo spinello che non ho mai usato
durante il periodo della tossicomania. Lungi da me la volontà
d'avvalorare quelle tesi "dietrologiche" che pongono tutte
le droghe sullo stesso piano, facendo meccanicamente risalire il
primo approccio con le sostanze "forti" al passaggio da
droga leggera a droga pesante. Voglio solo dire che sono "tornato
alle origini": ho assunto persino semplice aspirina con la
birra. Qualsiasi cosa che interpretasse psicologicamente il legame
con una tonia differente del metabolismo.
A questo punto
potresti riassumere i passaggi fondamentali per smettere?
La prima cosa è
l'accettazione di tutto il periodo che si è vissuto nella droga,
perché quasi sempre le motivazioni iniziali hanno origini sociali e
capirle significa comprendere comunque la propria realtà di base.
Oltre ad una
rianalisi, critica ma non "sublimante", dell'esperienza fatta,
cosa serve per uscire?
La fiducia in se
stessi, come ho già detto, e nella possibilità di cambiare; nel
fatto che è una fase, ha un inizio e può avere una fine. Viceversa,
nella "fiducia generalizzata" c'è il sogno di Morfeo: non
sei piantato più su te stesso per cui tendi a buttarti via, a
dimenticare, ad eludere. La ripresa è più facile se nel tuo
"background" è già insita una qualche consapevolezza del
tuo valore, più difficile quando non c'è niente del genere. Ecco
perché le più esposte sono le fasce sociali più scoperte e le
individualità più svantaggiate: tutto ciò rientra nel discorso su
cosa trovi a livello sociale quando smetti. Anche per questo non
capirò mai per quale motivo chi ha i soldi di Salerno e Villaggio
debba andare a farsi legare da Muccioli per trovare fiducia in se
stesso!
Dai dunque
grande importanza alla volontà?
Credo alla volontà
come strumento conoscitivo e non come virtù falsamente taumaturgica
che nasconde un intervento repressivo su se stessi. La forza non può
venire dall'esterno, agendo come una panacea. Se proviene "da
fuori" cade lo stimolo verso un'azione cosciente del soggetto,
svaniscono naturalezza e fiducia. È
invece importante capire cosa ti impedisce di vivere senza droga.
Cosa pensi delle
ricadute?
Ritengo che le
ricadute siano necessarie e che chi ha usato eroina debba continuare
ad usarla saltuariamente e per un tempo ragionevolmente lungo. Non
sto facendo un elogio della "malattia" ma credo inerente al
processo di liberazione l'avere un estremo rispetto per il tuo
passato e per quello stato di percezione, che come abbiamo visto è
forse in alcune fasi meno neuropatico di quello "normale". In
ogni caso la conclusione è che, se il rifiuto del dolore è
connaturato all'uomo, gli oppiacei sono soltanto un mezzo inadatto e
fallimentare.
Eppure oggi si
da molto credito al discorso di una "rifondazione"
dell'individuo basata su pratiche segreganti, così come vengono
rilanciati in grande stile i metodi di comportamentismo, quasi che
fondamentale sia la rimozione di interi segmenti della personalità
del "drogato", più che la loro comprensione.
A tal punto che
brani di teoria "muccioliniana" sono addirittura invalsi nella
pratica lavorativa. Questo bisogno dell'ex-tossicomane di
oggettivarsi e confrontarsi con la società lo rende particolarmente
vulnerabile anche da questo punto di vista. D'altronde ciò
s'inserisce nella pratica selvaggia del lavoro precario, mal
retribuito o persino gratuito. A questo proposito è emblematica la
motivazione della sentenza emessa al termine del processo di S.
Patrignano nella quale anche i giudici paiono stupirsi del
comportamento di un dirigente sindacale come Benvenuto, sceso a
giustificare in quella sede forme lavorative non sindacalizzate.
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