Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 132
novembre 1985


Rivista Anarchica Online

Eroina e potere
di Stefano Fabbri

Nel presentare, sul penultimo numero della rivista ("A" 130, agosto/settembre '85), l'ampio dossier su "San Patrignano & dintorni", riconoscevamo di esserci occupati relativamente poco della "questione droga". In passato, infatti, sull'argomento avevamo pubblicato solo qualche intervento sporadico, con un'unica eccezione: l'ampio resoconto dell'esperienza della cooperativa romana "Bravetta '80" ("A" 88, dicembre '80/gennaio '81). Quel dossier era firmato da Stefano Fabbri, che di "Bravetta '80" è stato fra i membri più attivi. È sempre Stefano Fabbri il curatore del dossier che pubblichiamo in queste pagine, costituito da due interviste a nostro avviso di grande interesse. Nella prima, a parlare è la dottoressa Franca Catri, rinviata a giudizio nel maggio '84 per aver prescritto morfina a scalare, per la disassuefazione dei tossicodipendenti, prima che tale prescrizione non fosse più considerata reato. L'altra voce di questo dossier è quella di Paolo Morelli, un ex-tossicodipendente: la sua testimonianza, tanto diversa da quelle a cui ci hanno abituato i mass-media, aiuta a comprendere alcuni meccanismi che portano alla tossicodipendenza, ma soprattutto sviluppa considerazioni originali sulle possibilità/modalità di uscire dal famoso tunnel, senza rinunciare alla propria dignità e personalità, anzi. Esattamente il contrario di quanto avviene a San Patrignano e nei mille "luoghi separati" preposti ad un recupero che passa attraverso la distruzione/rimodellazione della personalità del "peccatore".

L'unica maniera è togliergli la preda

Ai primi di maggio del 1984 c'è stato il rinvio a giudizio di alcuni medici che hanno prescritto morfina prima del Decreto Aniasi. Come tu sai, e credo che anche i compagni sappiano, l'intervento terapeutico della Cooperativa "Bravetta '80" che prevedeva l'uso della morfina a scalare per la disassuefazione dei tossicodipendenti, è iniziato nel '79, quando la materia non era assolutamente regolata da nessun tipo di legge e praticamente ci si doveva rifare ad una vecchissima farmacopea ufficiale del '32, in cui era regolamentata la prescrizione di questa sostanza per altri casi, dal momento che la tossicodipendenza non era un fenomeno di massa. La successiva emanazione del decreto Aniasi nell''80, che è stata promossa in pratica da noi, oltre che da Corradeschi a Firenze e da altri che hanno lottato in questo senso, ha implicitamente riconosciuto la validità di tale intervento perché ha ammesso la morfina in questo tipo di terapie.
Solo che io ho cominciato prima e sono stata una di quelli che lo ha fatto in modo più eclatante, perché avevamo tanti tossicodipendenti, perché ho sempre sostenuto battaglie politiche, sono sempre stata sui giornali, ho fatto interventi, articoli, mi sono battuta per far cambiare la prima stesura del decreto. L'inchiesta della magistratura, che poi è sfociata in questo rinvio a giudizio, è iniziata da un cosiddetto "morfinaggio sporco", che faceva capo soprattutto alla farmacia di Viale Libia a Roma, per cui ci eravamo fortemente preoccupati perché volevamo mantenere al nostro intervento un carattere di correttezza e validità.
Prima di allora noi stessi ci recavamo dai medici chiedendo le liste, che non sempre ci davano. È successo che quando ci siamo accorti che alcuni prendevano morfina da più parti abbiamo fatto una conferenza stampa richiamando l'opinione pubblica su questo modo di procedere, non solo della farmacia di Viale Libia, ma del "morfinaggio" in sé, che andava incontro allo sfacelo.
La magistratura, che già stava facendo un'inchiesta su queste cose, ha dovuto affrettare i tempi. Ma per tutta risposta ha ordinato una perquisizione al mio studio, mi ha fatto recapitare un avviso di reato per "prescrizione ad uso non terapeutico di morfina", mi ha fatto portare al nucleo "antidroga". Il magistrato ha deciso di rinviare a giudizio alcuni medici, ne ha prosciolti cinque che facevano le stesse cose che facevo io, anche se in maniera meno eclatante, da privati e soprattutto non come azione politica. Io sono stata chiamata a giudizio insieme a quei cinque medici che prescrivevano dietro pagamento direttamente sopra la farmacia di Viale Libia, insieme a speculatori e spacciatori, con l'art. 77 che punisce questo reato che equivale al grande spaccio: rischio da 4 a 20 anni.

Chi parla è Franca Catri, medico di una delle strutture di base più poliedriche ed indicative fra quelle sorte sulla questione-droga nell'ambito del "movimento" negli ultimi anni in Italia. Di questa esperienza ho ampiamente riferito in passato sulle colonne di questa rivista ("A" 88, dicembre '80/gennaio '81), dato che vi presi parte attivamente anche insieme ad altri compagni anarchici e perché ritenni molto interessante dal punto di vista libertario l'intervento socio-terapeutico aperto allora.
L'evoluzione della Cooperativa venne bloccata dalla bagarre delle istituzioni che, mentre finanziano con centinaia di milioni comunità coercitive di stampo ecclesiastico, o associazioni più o meno di partito che trattano il problema solo dal punto di vista culturale con scarsissimi approcci diretti, mentre dilapidano ingentissime somme per foraggiare servizi pubblici assolutamente inadeguati, ambigui e contraddittori e di carattere medicalizzante (oltretutto messi in condizione di non agire quando gruppi di operatori cercano d'impostare un discorso corretto e globale, viceversa semplicemente mantenuti come cronicari o luoghi d'imboscamento di personale protetto e inefficiente), hanno tenuto ai margini da tutti i punti di vista "Bravetta '80", la quale vantava un numero di "utenti" maggiore di quello di svariati servizi di assistenza capitolini messi insieme. In ultimo con questa assurda montatura giudiziaria.
Questo pezzo assume oggi ancora più valore dal momento che, nel clima generale di restaurazione, la morfina sarà bandita dalle terapie a scalare per tossicodipendenti. Lo ha stabilito il "Comitato Tecnico Interministeriale Sanità" che ne ha dato comunicazione il 19 settembre '85. Tale decisione, che preannuncia un prossimo decreto del ministro, è ancora più grave poiché si rifa ad una presunta sperimentazione svolta dall'epoca del decreto dell''80 ad oggi (anzi, il "Comitato" stesso parla di chiusura della "fase sperimentale", che sarebbe iniziata con la promulgazione della legge 685 del '75) che per la morfina non è praticamente stata mai condotta in modo continuativo, chiaro e sistematico, tranne che da alcune strutture di base come appunto "Bravetta '80" (che si vide poi costretta a chiuderla bruscamente a seguito delle pretestuose comunicazioni giudiziarie recapitate alla dottoressa Catri), dal CMAS di Firenze, che ne sosteneva pure la validità e da alcuni altri servizi pubblici messi in breve nell'impossibilità di continuarla da specifiche disposizioni regionali. Pochissimi sono stati infatti i piani a morfina portati a termine nei tempi stabiliti e non interrotti anticipatamente "d'ufficio".
È anche per questo che la lotta di Franca Catri per uscire dalla grinfie dell'inquisizione va sostenuta, anche al di là della naturale diversità d'opinioni che su determinati argomenti è forse possibile riscontrare.
A lei ho chiesto: praticamente sei stata accomunata a coloro che si facevano pagare per fornire le ricette e che invece di fare un discorso morale e politico si interessavano solo del proprio tornaconto, a volte senza neanche fare anamnesi e accertamenti?


In pratica sì. Noi invece abbiamo sempre tracciato storie personali, profili socio-psicologici, fatto prove anamnestiche. Tanto è vero che ci sono le nostre schede alla Regione, dato che allora era d'obbligo inviargliele.

Molte strutture pubbliche hanno fatto poi uso di morfina, spesso con gli stessi dosaggi?

Sì, dopo il decreto Aniasi ciò è stato sperimentato, sebbene nella maggioranza dei casi in modo discontinuo e scorretto. Ma noi avevamo cominciato prima, oltre che per stimolare la sperimentazione in questo senso, anche dietro un appello dell'allora Assessore alla Sanità Mazzotti, che sui giornali, all'Università, all'Ordine dei Medici, aveva chiesto a chi faceva la professione di farsi carico del problema. Noi abbiamo risposto prendendoci in carico centinaia di soggetti e "curandoli" secondo scienza e coscienza, dal momento che su tutti i trattati di farmacologia sta scritto che l'intossicazione da oppiacei si cura con le stesse sostanze a scalare.

L'appiglio legale è stato fornito alla Magistratura dal fatto che l'attività di "Bravetta" era cominciata precedentemente alla pubblicazione della normativa vigente, ma in ogni caso il fatto che alcuni medici siano stati prosciolti dalle tue stesse accuse evidenzia un iter persecutorio?

Evidenzia per lo meno un maggiore rischio per chi fa battaglia politica su queste cose.

Passiamo ora ad altri argomenti. Tu hai avuto modo di conoscere tutte le proposte di legge. Mi puoi sinteticamente esprimere la tua opinione su queste?

C'è innanzitutto quella di "Democrazia Proletaria", alla stesura della quale ho collaborato attivamente sebbene da "esterna" e non in qualità di "militante", che prevede la "legalizzazione", ovvero la distribuzione controllata delle sostanze sostitutive e dell'eroina stessa, da attuarsi presso servizi resi chiaramente agibili e opportuni, non "specializzati", ma nell'ambito di quelli pubblici che si devono occupare del problema benessere e salute di tutta la popolazione e non solo dei tossicodipendenti. La questione dei servizi è grossa, ma si deve affrontare in ogni caso e per tutto, non solo per la tossicodipendenza. C'è poi una proposta del Pdup che è quasi simile a quella di Dp ed una dei Radicali nella quale ci sono pure dei punti in comune.

Quali le differenze?

Con il Pdup la differenza è minima, si parla di giorni in cui uno può dare la ricetta. Per quanto riguarda i radicali le differenze sono un po' più accentuate perché sono in parte per una liberalizzazione: si tratta di una proposta di Teodori molto vecchia, e ci sono anche dei punti sulla distribuzione controllata che non quadrano per una cattiva impostazione del problema, forse soprattutto per mancanza d'esperienza, ma indipendentemente da ciò è abbastanza simile alla nostre.
Differisce invece quella elaborata dal PCI. Cancrini, che ne è l'esponente più qualificato, oltre a fare un discorso sullo spaccio, il che sarebbe ottimo per quanto riguarda il grosso mercato, fa però una battaglia di repressione marginale, vedi la storia delle "Madri di Primavalle", ove si colpisce il piccolo smercio. D'altra parte fa una proposta di tipo fantascientifico: si afferma che si devono andare a cambiare le coltivazioni di tutti i paesi produttori. Ciò è impensabile: prima di tutto questo puzza molto di etnocentrismo, infatti sarebbe come se altre nazioni venissero ad imporci di eliminare le coltivazioni a vite perché l'alcool fa male. L'oppio gestito nell'ambito di certe culture e popoli non ha mai procurato i grossi danni provocati da noi con la diffusione clandestina. Poi questo è irraggiungibile in tempi brevi: in clima di proibizionismo nessuno può esser certo che pur alternando equilibri economico-politici internazionali o addirittura promuovendo una "guerra dell'oppio alla rovescia", riuscendo magari a far seminare patate, le colture clandestine non sorgerebbero ugualmente, dato il grosso affare in gioco.

Quindi questa proposta si può tranquillamente definire demagogica?

Lascia comunque scoperto un versante importantissimo che è quello di mezzo fra repressione marginale e cambiamento delle coltivazioni. L'unico da affrontare concretamente se si vuole dare una risposta in tempi brevi.

Prima hai accennato alle "madri di Primavalle". II PCI ha avuto varie uscite in questi anni su questo problema, adesso pare sempre più impegnato a promuovere simili aggregazioni o ad appoggiarle, facendo un discorso che si accentua più sul lato repressivo diretto che su un discorso terapeutico. Così non va essenzialmente verso la stigmatizzazione della "devianza"?

Come tutte le battaglie di repressione marginale, è chiaramente di retroguardia, non perché non sia importante che le madri, invece di chiudersi dentro casa a piangere, escano allo scoperto e cerchino di capire qualche cosa della questione e di lottare. È politicamente importante aver voglia di diventare protagonisti. Quello che è sbagliato è come si indirizza questo sforzo. Come ho scritto in un articolo su "Paese Sera", che mi hanno tagliato, se le madri di Primavalle, che forse sono le stesse che hanno lottato contro l'aborto clandestino, capissero che bisogna combattere contro la droga clandestina e non contro la sostanza in sé o il piccolo spacciatore, questo determinerebbe qualcosa di veramente positivo. Bisogna giungere ad un clima di non proibizionismo, non nel senso di far arrivare l'eroina in tabaccheria o dal droghiere, perché in questo caso entrerebbero in gioco molti problemi legati al consumismo in senso lato ed altri di carattere internazionale, dato che presumibilmente ci sarebbe un mercato in uscita dall'Italia verso altri paesi. Quello che si dovrebbe capire è che spingere i politici e gli amministratori della cosa pubblica a fare una lotta contro un pericolo immediato come questo significa costringerli a fare delle cose per cui la gente non debba più morire nelle piazze o continuare a potenziare il mercato. Poiché questo non lo si può colpire né in alto né in basso, l'unica maniera è togliergli la preda, il consumatore. Tutto il resto è atteggiamento consolatorio: facciamo tutto purché non cambi niente.

Oppure essenzialmente di tipo repressivo, per calmare ed ingraziarsi il "benpensante". Come mai Cancrini ha questo tipo d'approccio, secondo te?

È una persona che sa fare anche delle analisi molto affascinanti, ma ha un tipo d'impostazione che gli viene da due fronti: prima di tutto è uno psichiatra, quindi ha una visione soprattutto di tipo psichiatrico, cioè di terapia relazionale: tutto sta "già dentro la persona". Con un riferimento anche ai servizi che mancano ecc... Poi ha l'altro vizio di fondo che è quello di essere un uomo di partito, quindi impersona quella che è la posizione ufficiale del PCI e non se lo può scordare. Un partito che avanza pieno di paura di perdere i consensi della gente, che è molto cauto nell'affrontare problemi che "scandalizzino" come la tossicodipendenza. Cancrini è da una parte il "prudente" del PCI, dall'altra è lo psichiatra. Tra questi due poli si stabiliscono dei modi di affrontare la cosa che secondo me sono viziati anche dal fatto che Cancrini è molto favorevole alla parte cattolica: gomito a gomito con Don Picchi, ha un modo di vedere il problema che è ulteriormente repressivo, perché la comunità o è strettamente coatta o non regge.
Qui ci avviciniamo ad un altro glosso punto dolente, perché io capisco che a certe persone il discorso della comunità in alternativa al carcere può sembrare positivo. Ma si farebbero diventare queste strutture una enorme "riserva" per "diversi", perché dovrebbero bastare per l'80 per cento della popolazione carceraria che è tossicodipendente. Sarebbe quindi un arcipelago carcerario chiamato con altri nomi, come il manicomio giudiziario quando è sorto, ed abbiamo visto poi quello che è diventato.
La comunità può essere utile per alcuni soggetti che la chiedono in alcuni momenti, tipo alloggio-crisi, ma non quale risposta pianificata o come "soluzione finale". Poi si tratta sempre di un altro modo per separare il "deviante" dal sociale: quando torna a contatto con l'ambiente di prima non ha risolto niente.

C'è l'ulteriore rischio della dipendenza dalla comunità?

Sì, anche questo è un grosso dato, la dipendenza da queste figure carismatiche che ricreano un legame simile a quello preesistente con la sostanza. Poi c'è lo sfruttamento del lavoro, la speculazione sull'assistenza, la cosiddetta "mafia bianca" che a volte è peggio di quella (nera) dello spaccio. C'è la grossa collettività, per cui si entra solo tramite raccomandazioni ed entrano solo quelli che non si "fanno" più da almeno 6 mesi/un anno, quindi coloro ai quali serve meno. La questione delle rette, ecc...

Non credi che ci siano anche problemi legati al tipo di approccio di molte comunità verso il tossicodipendente? Si sente parlare spesso di casi di destrutturazione della personalità.

Certamente, perché gli utenti sono gestiti interamente da altri. L'intervento dovrebbe invece essere teso a ri-responsabilizzare l'individuo, verso se stesso e ciò che gli succede intorno, perché riprenda la sua veste di "soggetto" e non di "oggetto" sociale. Una cosa che egli deve conquistarsi. Poi, al limite, è pure comodo per lui dire: "io sono debole, non ce la faccio, sono incapace, ci devono pensare gli altri". Ciò diventa un alibi con se stesso che rinforza appunto il "bisogno" di "dipendere", in un pericoloso giro vizioso.

C'è l'impiego massiccio di forme dozzinali e crudeli di "comportamentismo", di tutta una serie di tecniche relazionali di tipo estremamente repressivo, quali la deprivazione sessuale, la segregazione e la coercizione per mesi.

Regole molto rigide, che se non richiamano alla memoria addirittura l'inquisizione, sono comunque pesantissime. Non possono vedere nessuno, avere rapporti, per esempio per 6 mesi. A seconda di come si comportano si mettono in atto dinamiche di premio-punizione, che sono quanto di più dannoso anche dal punto di vista pedagogico. Sono superate per i bambini, figuriamoci per un soggetto adulto: se hai fatto questo ti nego di telefonare quella volta ogni tanti mesi a casa, e veri e propri castighi ancora più grossolani. Addirittura l'impossibilità di fumare, di scrivere o leggere ciò che si vuole, di discutere di politica. È tutto sotto controllo ed affidato a quelle due o tre figure che devono gestire il tutto: queste sono le comunità che "reggono" nel tempo.

Appunto prima dicevi che le comunità o sono coercitive o non funzionano?

Secondo me è così perché se uno è capace di gestirsi da solo in qualche modo, non ha bisogno della comunità. Se in quel momento non è capace, quasi chiede che sia di quel tipo. Se non è così il secondo giorno non ce la fa e scappa. Allora a cosa serve la comunità in sé?

Credi che sia una risposta di carattere essenzialmente repressivo che viene data in mancanza di altro, perché non si vuole agire diversamente ed intaccare le ragioni di fondo?

La gente chiede le comunità perché non c'è altro. Dove esistono servizi diversi, come a Firenze con l'esperienza avviata da Corradeschi che è una delle migliori in Italia come struttura pubblica a morfina, ed è collegata anche con interventi sociali e di lavoro, non solo di tipo farmacologico, la richiesta di comunità è molto bassa. Corradeschi fece una statistica e solo il cinque per cento richiese l'internamento in comunità, ed anche lì i servizi difettavano di tante cose.
Non servono solo servizi pubblici ma anche organizzazioni di base. Il pericolo è però che quando c'è una fetta di torta da spartire entrano in gioco non solo quelli che veramente vogliono lavorare per cambiare qualcosa, ma anche quella fascia di cosiddetti "volontari" d'estrazione cattolica, repressiva, reazionaria, che vogliono tirarci fuori soldi. Per questo io dico che è necessario anche un servizio pubblico gestito e controllato in qualche maniera da tutti noi.

Vuoi dire che bisognerebbe aprire spazi di lotta anche all'interno dei pubblici servizi e, contemporaneamente, fare chiarezza rispetto alle strutture di base promuovendo realtà di carattere effettivamente autogestionario?

Certamente. Poi i bilanci devono essere controllabili da tutti, perché io i soldi pubblici non me li posso spendere per andare alle Bahamas.

Per tornare a Cancrini, ritieni che ci sia anche in questo campo un discorso di "compromesso storico" fra una certa sinistra ed i cattolici? Ho visto spesso Cancrini e Don Picchi parlare insieme in televisione, fare enunciati comuni in clima fraterno.

C'è un gran piegarsi verso la parte cattolica. Io, discriminazioni di "etichetta" non ne faccio: esistono "cattolici di sinistra" con cui sarei prontissima a lottare insieme, come ad esempio il "Centro Abele" di Torino, anche se il punto di vista può divergere per alcune cose. Invece c'è proprio un inchinarsi a Don Picchi, e dargli tanto spazio così vuol dire veramente venire ad un grosso compromesso.

Da una parte c'è un continuo proliferare di questo tipo di comunità repressive di carattere essenzialmente cattolico e dall'altra, anche nello stesso campo confessionale, v'è una riduzione costante di ogni discorso aperturista e problematico. C'è stata questa "evoluzione" dell'intervento cattolico: sono passati dal diacono di piazza alla Boyer, che richiamava in qualcosa Don Milani, all'intervento di gente di spirito diverso e che ha un potere economico-politico enorme.

Don Picchi è molto vicino al Papa, in America è stato ricevuto da Reagan e prende finanziamenti da più parti per lo stesso tossicodipendente: una volta come convenzione dal Comune, un'altra per la convenzione con la Regione, infine dai familiari dello stesso. Dice: "se possono", ma se è necessario, chi è che non trova i soldi? Poi acquisisce lasciti, donazioni da istituti di beneficenza, ricavi di mostre collettive di pittori, introiti dal Vaticano.

È uno che conta dal punto di vista politico?

È un uomo di potere. Lui dice che quando escono i tossicodipendenti non si "fanno" più, ma non si "facevano" neanche prima di entrare, perché altrimenti non li prende. Per un anno e mezzo "d'accoglienza" non si devono drogare. I rischi delle comunità chiuse e coercitive in generale sono tanti. A me sembra che subiscano una specie di lavaggio del cervello: se li senti parlare sono individui che hanno perso la loro personalità, che si sono riadattati passivamente alla società così com'è, che non hanno più nessuna velleità, nessun progetto di cambiamento. Si sono reinquadrati nel sistema: gli hanno fatto una manipolazione della coscienza a livello tale che quelli non si bucano più, ma per la cultura di sinistra sono perduti, e direi anche per la cultura umana in genere perché non hanno più niente del valore e del patrimonio di un essere umano.

Perché ci sono pochi controlli su queste comunità chiuse, dove neanche i genitori possono entrare, ed invece proliferano iniziative repressive contro singoli medici o contro strutture aperte di diverso orientamento?

Io credo un po' per il grande potere personale che ha Don Picchi, ed un po' perché in assenza di strutture e servizi la "patata bollente" la sbattono al prete, come funziona dal tempo dei tempi, quindi anche per crearsi un alibi.

Non pensi che comunque sia un tipo di intervento anche funzionale al controllo sociale?

Certo, ma non alla cultura di sinistra, insisto, che così viene cancellata con un colpo di spugna. Io mi auguro che le persone in buona fede, che ci sono anche nel PCI, specie alla base, le quali non sono affatto favorevoli a queste cose, si chiedano dove vanno a finire cento anni di coscienza: questa non è una cosa che riguarda solo la tossicodipendenza, ma anche la visione della famiglia, della società, della scuola.

Infatti nella proposta di legge del PCI si parla di ricovero coatto nelle "comunità terapeutiche". Nel PCI, in passato, abbiamo visto invece l'intervento di "Magliana '80" che ricalcava quello di "Bravetta '80". Questo, nonostante il sospetto tentativo di recupero strumentale che vi sottintendeva, era pur sempre sinonimo di apertura rispetto alla questione. C'era poi stato in passato un notevole dibattito all'interno della FGCI.

La FGCI sosteneva una legge d'iniziativa popolare che prevedeva la legalizzazione, insieme a DP e Pdup. Infatti ritengo che i giovani e la parte più sensibile al problema non abbia capito molto la svolta che s'è operata nel PCI. Col compromesso anche in questo campo stanno completamente perdendo di vista troppe cose. Per esempio, l'atteggiamento odierno è quello di dire: "però, con la permissività, la famiglia messa in crisi, la scuola messa in discussione ed in più il terrorismo, siamo andati a finire alla droga. Allora ricostituiamo il bell'istituto famigliare in modo preciso perché il problema è tutto lì. Quindi facciamo terapia relazionale con le famiglie, cerchiamo di risistemare certe cose visto che è pericoloso andargli a dare una scrollata".
Questo secondo me è un grosso pericolo perché, anche in mezzo alle delusioni, agli scoramenti, bisogna pur mantenere l'obiettivo, perlomeno una tensione verso un progetto di cambiamento, altrimenti avviene un salto di campo.

Per tornare al processo, i tuoi avvocati, Rocco Ventre e Alfredo Salemi, cosa dicono?

Se non c'è una volontà precisa di stigmatizzare e colpire chi è stato più in vista in questo campo, il processo si dovrebbe risolvere favorevolmente, in quanto la magistratura ha già discriminato fra chi ha speculato e chi no. Il problema sta a monte, e riguarda la volontà politica che può sottendere all'operato dei giudici: tutti i fatti e gli elementi li hanno già in mano e se hanno prosciolto cinque persone e me no, vuol dire che ci sarà da faticare veramente. Il quadro generale di questo momento è pericoloso perché il dare addosso al sostitutivo è diventato una moda, mentre nei primi periodi del decreto c'era per lo meno un'apertura, adesso l'hanno dichiarato fallito senza mai sperimentarlo correttamente. Non solo la magistratura è contro il sostitutivo, ma addirittura la gente: chi lo prescrive è un avvelenatore del popolo.

Addirittura la critica che si faceva "da sinistra" del metadone viene oggi usata dalla destra per eliminare tutte le sostanze sostitutive dalle terapie. Il risultato chiaramente sarebbe repressione feroce, abbandono totale e fuga dai servizi, clandestinità al cento per cento.

Anche la sinistra è caduta in questa trappola. Quindi è il momento più sfavorevole: se il procedimento fosse stato avviato nell''80 ci sarebbe stato un altro clima. Le famiglie sono più orientate verso la comunità che verso una struttura come la nostra che magari prescrive morfina insieme ad altri interventi socioculturali, lavorativi, ecc... Nell'ordinanza del giudice sono stati citati due testimoni che sono stati presi a caso o in seguito a degli arresti, Scordo e Ballini, dei quali uno ha detto che prendeva trenta fiale e che praticamente l'avremmo fatto diventare noi tossicodipendente, il che è assolutamente falso perché più di dodici fiale non davamo, ed inoltre costui è stato allontanato da "Bravetta '80" quando ci siamo accorti che prendeva più ricette, di cui una a V.le Libia con grossi quantitativi. Questa probabilmente è stata una testimonianza dovuta a risentimento, poi probabilmente li avevano arrestati, stavano in crisi, non vedevano l'ora di andare via...

Ricordo io stesso quando in un tentativo di avere più fiale questo Sergio Scordo simulò di tagliarsi i polsi di fronte all'ingresso della Cooperativa.

Ballini ha detto che lui praticamente le fiale le prendeva per vendersele. Ora, che fosse possibile il formarsi di un "mercato grigio" è anche vero, ma proprio perché potevano prendere le ricette da più parti, altrimenti quelle che avevano da noi bastavano solo per coprire il bisogno.

Queste testimonianze sono fondamentali nel castello d'accusa?

Per l'ordinanza del Giudice sembra di sì, ma verranno smontate, gli si ritorceranno contro. Ci sono i registri per giudicare che ad esempio le dichiarazioni rese da Scordo sono false, che da noi non ha mai avuto prescritto quel numero di fiale. Ma anche il fatto che non si sono nemmeno presi la briga di andare a guardare i registri e verificare che si tratta di una deposizione falsa non impressiona molto favorevolmente. I vari giudici che si sono succeduti nella fase preprocessuale dopo Fiasconaro che iniziò l'inchiesta, cioè Stipo, Rotunno, Miceli, Almerighi, non hanno mai letto la perizia di parte, a giudicare dalle ordinanze ed i documenti che hanno depositato per le loro proposte di rinvio a giudizio. Questo o è un modo di comportarsi che dimostra disinteresse di leggere gli atti e volontà di rinviare tutto al processo, il che esprimerebbe in ogni caso poca coscienza, oppure è sinonimo di predeterminazione, di voler condannare o di voler fare comunque il dibattimento. Non so se in sede d'udienza il giudice penserà di leggere tutto o meno: certo è che se vogliono essere obiettivi devono farlo.

Quando comincerà il processo?

Presumibilmente non prima di ottobre o anche gennaio. Gli avvocati sostengono che si tratta di un caso esemplare, che se ne può fare un grosso momento di dibattito. Poi c'è tutto il Coordinamento Nazionale degli operatori favorevoli alla morfina che sono molto interessati. Anzi, bisognerà vedere se sarà il caso, come mi consigliava Bignani dell'Istituto Superiore di Sanità, di fare una contro-denuncia collettiva: girare il processo, farlo diventare un momento d'accusa per omissione di soccorso contro i servizi pubblici e tutti quelli che in quel periodo sono rimasti latitanti di fronte al problema.

In cosa consisteva l'intervento dei servizi pubblici prima del decreto Aniasi?

In niente, rari e sporadici ricoveri quando proprio la gente stava in coma, e basta.

E il metadone?

C'era, ma in pochissimi centri istituzionali. Di quelli che allora si chiamavano CMAS (ora SAT) solo qualcuno dava metadone, molto sporadicamente. Non si trattava neanche di un intervento di tipo assistenziale: la maggioranza dava psicofarmaci e ricoveri ospedalieri. Il ricovero stesso solo se c'era un'indicazione che lo prescriveva, se si trovavano di fronte a degli stati morbosi gravi, indipendentemente dalla tossicodipendenza, e sotto la responsabilità del medico.

Tu hai parlato della pena che rischi con questa incriminazione. Poi c'è anche la questione dell'Ordine dei Medici.

Con una condanna vieni sospeso dall'Ordine: è una grossa spada di Damocle rispetto alla professione. Poi ci sono comunque le enormi spese per sostenere tutte le eventuali istanze e la grossa fatica per raccogliere una gran mole di materiale: dibattiti legislativi, processi precedenti, testimonianze di quanti sono stati in terapia.

Qui finisce la testimonianza di Franca Catri. Per ora, mentre persone come lei hanno a che fare con la "giustizia", i corrotti, gli incompetenti, i venditori di fumo bivaccano al sicuro. Fino a quando?

L'importanza dl non pentirsi

Paolo Morelli è un vecchio amico, un vecchio compagno, molti dei nostri trent'anni passati li abbiamo trascorsi insieme, abbiamo discusso insieme, vissuto insieme. Ma assai difficilmente avremmo immaginato, 15 anni fa, quando ci conoscemmo, che ci saremmo ritrovati oggi a parlare d'una sostanza come l'eroina che allora ci era del tutto estranea.
Tante cose sono cambiate, io che ormai da diverso tempo, dall'esperienza di "Bravetta '80" in poi, mi occupo della "questione droga", lui che per lungo periodo se l'è trovata di fronte ogni giorno.
Sul piano "giornalistico" il gioco pare sempre avere ruoli inamovibili: il tossicodipendente invischiato nella "ragnatela" che chiede aiuto e l'operatore che cerca una strategia per "soccorrerlo". Tentiamo di scalfire questa "routine", convinti come siamo che la tossicomania abbia aspetti e significati molto complessi, molti dei quali ancora da scoprire e caratteristiche che vanno ben al di là dei luoghi comuni. Siamo certi di una cosa sola: chi ha avuto a che fare con sostanze stupefacenti può solo testimoniare la drammaticità d'un vissuto tutt'altro che semplice, ma anche contribuire all'analisi di una realtà i cui risvolti sono fondamentali per la comprensione d'un fenomeno che richiede innanzitutto la definizione di sempre nuove coordinate conoscitive.
Troppo spesso la tossicomania è stata affrontata in modo univoco. Il fine del "recupero" ha, anche per un eccesso di zelo, impoverito la ricerca; troppi stereotipi sono stati imposti all'opinione pubblica. Lo spettro della malattia e della anomalia, intesa nella sua accezione più negativa, ha contagiato in questo campo anche chi ha sostenuto battaglie politiche e sociali molto importanti contro la maniera "tradizionale" di intendere la devianza. Non credo sia un caso il fatto che, mentre ci si pone il problema della salvaguardia della legge 180 sui manicomi, ben poco viene fatto per arginare quelle manovre retrive che vogliono fare della tossicodipendenza un nuovo terreno di sperimentazione di pratiche repressive e psichiatrizzanti.
Sempre più alte si levano le voci a favore del ricovero coatto in comunità per i consumatori e non soltanto come "alternativa" al carcere. In questo contesto difficilmente trova spazio un'esperienza diretta del tossicomane, o anche di chi ne è uscito, se non ha forti venature autocritiche. Sembra che la serenità necessaria ad affrontare un dibattito più aperto venga inibita dalla paura del "contagio". E nel frattempo fiumi d'inchiostro e d'immagini ci bombardano quotidianamente con i simboli della "Morte per Droga" in una forsennata campagna terroristica, questa sì di dubbia efficacia.
Ciò che qui si propone è, in tale panorama, un pezzo "sui generis". La voce qui registrata, anche se una volta tanto non coperta dal velo dell'anonimato, emerge bene o male da dietro le quinte di quel mistificato palcoscenico ove si rappresenta il "dramma della droga". Si parla di un percorso individuale ed autonomo di liberazione dalla dipendenze, quanto originale e lucido di convivenza con la sostanza. Prendono forma interessanti intuizioni che spaziano nell'analisi del rapporto fra imposizione mediale, deprivazione sensoriale, "cultura della dipendenza" e tossicodipendenza. Si potrebbe obiettare che i livelli di consapevolezza espressi sono desueti fra i consumatori abituali di sostanze stupefacenti, e ciò è forse vero. Ma non è nostra intenzione "rappresentare" un soggetto sociale o una particolare condizione esistenziale in tutte le sua accezioni, bensì portare alla luce una testimonianza degna di nota che pone sul tappeto interessanti opinioni ed interrogativi, che fa pensare, pur se le questioni di fondo rimangono aperte e nonostante il taglio soggettivo delle dinamiche tracciate.


L'eroina è una sostanza che impedisce di agire?

La pesantezza dell'eroina come sostanza "sonnambula" o separante fa parte del luogo comune. Questo, fra l'altro, è facilmente confutabile dall'esempio di Wall Street, dove persone abituate da anni ad usare eccitanti, svolgendo un'attività che necessita di una tensione continua quale quella di chi lavora in borsa, usano oggi l'eroina su larga scala, sebbene naturalmente trattandosi di ceti abbienti la sostanza, cara o pura, venga fumata. L'assunzione per via non parenterale dà la possibilità di non esporsi ai rischi del "buco" e di circolare liberamente nei posti di lavoro, siano essi fabbrica o Consiglio Comunale. In realtà ciò che annichilisce è la maniera in cui nelle strade ci si trova ad assumere la droga.
Il tossicodipendente ha dalla sua, a differenza dell'alienato, la più o meno consapevole scelta e le indubbie prerogative della separazione dal dolore della normalità. Si tratta di una dimensione perdente, ma può resistere alla percezione del dolore come isolamento, noia, cadenza "normale" del tempo. Anzi direi che si tratta di una "ipernormalità" in una situazione in cui il dolore è norma. Ciò non impedisce in ogni caso al metabolismo normale di riprendere la sua rivincita.

Nell'accezione più comune quando si parla di tossicomania ci si riferisce principalmente al mondo giovanile. Ciò è corretto a tuo avviso?

È questo un altro modo di deviare l'analisi ed al tempo stesso di nascondere la vera diffusione che è stratificata in tutte le età e le classi sociali e sempre più capillare, dato che si vende eroina come ogni altro bene di consumo. È limitativo il fatto di confinare il tutto in una genesi giovanilistica che va dal "giovane cretino" che si accosta alla droga, al "giovane insoddisfatto".

Già molti anni fa si parlava di eroina come fattore congenito a quest'era. Accertato che non colpisce più gli emarginati, ma settori sempre più eterogenei fra loro, si potrebbe cominciare ad impostare, "per assurdo", un'analisi sul ruolo di questa sostanza nella vita dell'uomo-medio?

La deprivazione sensoriale è oggi alla base della vita dell'uomo-medio, che si evolve seguendo fenomeni implosivi come l'intorpidimento dei sensi. L'estensione sensoriale necessaria, sempre più "dovuta" nella vita così come è strutturata oggi, fa sì che l'eroina sia parte integrante di questo processo di non-sensibilizzazione.
L'estensione dell'uomo rispetto al senso del vedere che viene sempre più devoluto all'immagine riprodotta, confrontata per esempio alla scrittura, quindi a mezzi più lenti e meno coinvolgenti, "meno caldi" come dice Mc. Luhan, fa sì che l'eroina sia parte integrante della funzione tecnologica. Questo accade proprio perché nei media viene privilegiato di volta in volta un senso mentre gli altri vengono intorpiditi completamente. L'eroina s'innesta sul bisogno di ricomposizione dell'uomo rispetto alla sua "sensibilità totale". Mentre i media catturano isolatamente i sensi, l'eroina dà la possibilità, consapevole o inconsapevole, di una sorta di ri-sensibilizzazione interiore.

Potresti spiegare meglio l'accostamento di quanto dici con le teorie di Mc. Luhan?

L'imposizione dell'immagine mediale sta creando una nuova tribalità (il mondo come villaggio), e conduce in effetti verso un ritorno alla funzione del pensiero non scritto e non detto, precedente all'apparire della parola scritta, che a sua volta rese possibile l'estrema varietà d'interpretazioni. Nei media non ci sono più "punti di vista".
La droga di cui parliamo è complementare all'uso dei media, dato che fornisce un tipo di fruizione dell'esistenza avulso da differenziazioni individuali. L'eroina non è un'opinione, cancella le opinioni, determina una specie di azzeramento delle funzioni esistenziali. Lo stesso effetto lo producono i media. Non si può non rendersi conto di questo, continuare a considerarla semplicemente un nemico, qualcosa che si possa far uscire dalla porta senza che rientri dalla finestra.

Tu ritieni quindi che l'espansione del consumo di droga non sia legata solo al mercato ed a modi errati di affrontarlo?

I tossicodipendenti sono solo delle cavie, storicamente inquadrati in questo piano di cambiamento, inconsapevolmente inseriti in una meccanica ineluttabile. Senza lasciarsi andare a ipotesi fantascientifiche sono forse molto più vicini alla "normalità" del futuro di quanto non sia dato immaginare.

Studi recenti dotano il tossicomane di un equilibrio mentale insolito, impensato sino a qualche tempo addietro. L'eroina svolge un ruolo di copertura rispetto al malessere individuale, pur se determinato da disagio sociale: in questa prospettiva quali problemi intercorrono nel periodo di divezzamento?

L'eroina lenisce il dolore e racchiude in sé virtù considerate taumaturgiche: lo stesso nome che le è stato attribuito è significativo in questo senso. L'aspetto nuovo che si può riconoscere oggi nell'uso degli oppiacei è che la rimozione del dolore coincide con la generale crisi dell'uomo di fronte all'estraneazione. L'isolamento è la causa principale del dolore sociale e l'eroina è anche un mezzo per "reagire" a tutto ciò. Quindi l'incubo del divezzamento è determinato anche dal passaggio da una "normalità" metabolicamente forzata dall'eroina alla comune "normalità", ad un processo di reintegrazione nelle forme di separazione interiore ed isolamento, come dire di malattia, dell'odierno vivere sociale. Per questo il processo di divezzamento è così difficile e complicato, non soltanto perché le endorfine sono castrate nella loro funzione ma perché alle condizioni di debolezza metabolica si aggiunge un disagio prettamente esistenziale.

Prima d'iniziare quest'intervista mi dicevi: "l'eroinomane si sente in cima al mondo e non sa che sta per morire". Perché?

Perché si creano delle condizioni di ipertonia ed ipotenia, di carattere metabolico, ma a questo punto potremmo dire anche a livello esistenziale, che non sono quelle della normalità. Ma se riusciamo a capire bene il processo d'implosione tecnologica vediamo che la normalità è soltanto quella che viene registrata dai mezzi di comunicazione. Però il drogato non sta davanti alla televisione quindici ore di seguito perché viene rapito dall'immagine: potrebbe anche rimanere di fronte ad un muro bianco per lo stesso tempo e con altrettanto interesse. Questo chiarisce come sia "autosufficiente", come ricompatti a livello sensoriale la sensibilità perduta dall'uso estensivo dei sensi del linguaggio tecnologico.

Ma molto spesso le aspettative sociali, pur se provenienti da differenti settori politici e culturali, convergono su una cosa: il "drogato" deve cambiare connotati e ricominciare col prescindere dalla sua esperienza passata. Perché avviene questo, secondo te?

Di fatto si pretende un ex-drogato "lobotomizzato". Penso che per riuscire a dimenticare il periodo della tossicomania, dovrei semplicemente cancellare gli ultimi quattro anni e mezzo della mia vita. In una pretesa del genere vedo una sorta di elettroshock con funzioni sociali ben definite.

La tossicodipendenza tocca la sfera della sessualità?

Più che come un inibitore vedo l'eroina come un sostitutivo, poiché contiene già in sé sia la fonte che l'oggetto del piacere. La stessa cosa avviene con l'immagine nell'ambito della ricezione passiva dei media, il cui godimento elimina il bisogno di ogni contatto diretto. L'eroina è piacere puro e possedendo una sorta di "virtù totale" del piacere stesso, libera dal richiamo verso l'oggettivazione, ma non è affatto detto che inibisca fisiologicamente.

Si sente spesso dire che l'iniezione che viene praticata reciprocamente nella coppia sarebbe un surrogato dell'atto sessuale.

Ciò fa parte dell'iconografia e della ritualizzazione dell'atto del "bucarsi", così come la siringa, che il tossicodipendente a volte venera. Questo anche se oggi l'uso della droga è divenuto molto più "laico": "radi e getta" il consumo d'eroina esattamente come il modo che hai di assumerla.

Per la crisi d'astinenza si parla, similmente, di analogie con la "crisi di abbandono" che subentra sia alla fine di un rapporto significativo che alla scomparsa di una figura d'attaccamento. Alcuni ritengono che avvenga un analogo blocco delle ghiandole che producono endorfine (nda: sostanze prodotte dall'organismo, preposte a lenire il dolore in tutte le sue forme, anche ansiose. Con l'assunzione reiterata di sostanze morfino-simili come l'eroina, queste ghiandole interrompono la loro funzione: questo avviene perché le sostanze introdotte artificialmente sono talmente simili alle endorfine da sovrapporsi all'azione di queste e l'organismo risponde come se stesse producendo sostanze in sovrabbondanza appunto irretendo le ghiandole. Nella crisi abbandonica sarebbe invece il forte shock a provocare la sospensione della secrezione). Tu che ne pensi?

Al dolore della separazione da ciò che si ama si risponde organicamente e psichicamente a seconda delle peculiarità fisiche e caratteriali. Io penso che il momento del divezzamento sia analizzabile da moltissimi punti di vista, poiché subentra una specie di rianalisi completa a seguito della necessità di riacquistare il senso del tempo e dello spazio. Così come riprendi il tono metabolico normale, ritrovi i "punti di vista" della normalità, per cui passi un periodo di ricomposizione che assume i tratti di un ripensamento quasi cosmico, quasi filosofico. A questo naturalmente si aggiungono estreme difficoltà causate dal crollo di tutta le dimensione precedente: cade il significato attribuito alla sostanza. Tieni presente che la droga viene a volte addirittura "personificata". Molti tossicomani, fra cui anche degli artisti, parlano dell'eroina come di una madre.

Durante la fase del divezzamento ci si sente particolarmente "scoperti"?

Perlomeno fino a quando non s'è normalizzato il rapporto col dolore.

Sei mai stato in un servizio d'assistenza per tossicodipendenti?

No. Prima di tutto perché ho sempre tenuto alla mia integrità e considero essenziale la fiducia nella mia esperienza, poi perché non ho mai creduto che una struttura pubblica possa inserirsi in un problema così personale. La mia è una sfiducia "a priori", che non prende nemmeno atto della struttura terapeutica dei SAT. Tuttavia mi pare che oggi la funzione dei SAT sia essenzialmente "stabilizzatrice" rispetto alla tossicodipendenza o di "raccordo" fra le sue varie fasi. I SAT sono divenuti dei "cronicari" anche perché si tende sempre più a farne un servizio di prima assistenza per poi devolvere alle comunità il resto dell'iter. Ma spesso le condizioni stesse determinano tutto ciò, e gli operatori più coscienti sono i primi a rendersi conto del fatto che i loro assistiti fanno un uso esclusivamente strumentale del servizio, legato a necessità del momento: impegni lavorativi che impediscono lo "sbattimento", carenza di denaro o anche esigenze di scalaggio, quando magari ti sei "fatto" talmente tanto che vuoi ridurre le dosi per ottenere di nuovo l'effetto che ormai non provi più: quindi "smettere" per riprendere però poi in grande stile!

Questa visione dei SAT come cronicari ha dato il via a molte polemiche. Bene o male, però, la massa di tossicodipendenti, che non ha purtroppo questi livelli di consapevolezza, può trovare nei SAT, (certo non in tutti) un punto di riferimento per pratiche di diminuzione graduale delle dosi, o anche di "mantenimento", molto più duttili e serene, soprattutto al momento del primo "impatto" con l'esigenza di farla finita magari con la vita di strada, di quelle che tendono a riportare tutto il discorso a forme di coazione e alla drastica riduzione immediata delle dosi.

Ma in ogni caso sarebbe almeno un esempio di sincerità il distribuire allora eroina pura, invece che metadone, la cui scelta per la disintossicazione istituzionale credo si possa far risalire ad interessi legati alle commesse industriali ed a una volontà punitiva. Fra le sostanze morfino-simili isolate il metadone si caratterizza come una delle più "ruvide". Non per niente fu scoperto dai nazisti per necessità espressamente chirurgiche durante la guerra, in un periodo in cui scarseggiava la morfina.

Ma per te è possibile praticare uno scalaggio autogestito?

Deve essere possibile, altrimenti si moltiplicano le difficoltà del divezzamento. E prima o poi tutti provano il desiderio di liberarsi dalla droga.

Tu come hai smesso?

Ti posso parlare della mia esperienza, ma ritengo l'iter per uscire dall'eroina comunque molto legato alle caratteristiche individuali. In generale si può dire che si tratta di un periodo lungo, la cui durata dipende forse più dalla qualità della sostanza assunta che dalla quantità. La chiave di tutto risiede nel ritrovare fiducia in se stessi, nel riacquistare la capacità, la forza, il senso e la ragione per non vivere quotidianamente attraverso la droga. Per far ciò è necessario "prendere le misure", quindi sperimentare vari scalaggi (ho provato anche metadone e paracodina), persino astinenze brutali senza l'aiuto di sostitutivi.

Cosa pensi dell'eventuale immissione dell'eroina in farmacopea?

La legalizzazione di questa sostanza sarebbe un passo importante almeno verso un relativo controllo del mercato. Poi, dal punto di vista del divezzamento, darebbe una mano immediata a chi invece deve fare salti mortali per trovare la roba, o anche per far capire il proprio grado di dipendenza e d'intossicazione nei servizi pubblici. Molto spesso si ragiona sulle quantità che il tossicomane spiattella al dottore, quando magari le necessità reali sono altre.

Ci sono, a tuo avviso, tossicomani fittizi?

Come dimostrano varie ricerche USA, parecchie persone assumono quantità così infinitesimali d'eroina, così diluite dal taglio, che non possono probabilmente essere definite tossicomani nel senso pieno del termine. Costoro soffrono più d'autosuggestione che d'altro. Ai poveri viene fornita droga povera e vi sono giovani che fanno uso di grosse quantità di pasticche tritate pensando così che, per esempio, l'effetto del "Roipnol" sia quello dell'eroina. In carcere c'era chi sosteneva di fare uso di 4/5 grammi al giorno ed il dottore mi ha ridicolizzato quando gli ho parlato del mio mezzo grammo: valeva in realtà più di 10 dei loro, ma vaglielo a spiegare...
La legalizzazione creerebbe sicuramente più coscienza del proprio grado di dipendenza. Quella autocoscienza che è poi l'unico antidoto alla coartazione, alla reclusione ed a tutte queste altre cure "liberty".

Mi sapresti indicare altri problemi legati alla disintossicazione?

Tutto dipende dal grado d'inserimento nella società, dalle facilitazioni, dai contatti che hai. È chiaro che una persona isolata contiene più facilmente già in sé il germe di una ricaduta e deve rimuovere questa condizione prima di tutto.

Adesso di cosa fai uso?

Solo di sonniferi, ma in questi mesi sono stato spesso alla ricerca di una droga, non importava che fosse l'alcool o lo spinello che non ho mai usato durante il periodo della tossicomania. Lungi da me la volontà d'avvalorare quelle tesi "dietrologiche" che pongono tutte le droghe sullo stesso piano, facendo meccanicamente risalire il primo approccio con le sostanze "forti" al passaggio da droga leggera a droga pesante. Voglio solo dire che sono "tornato alle origini": ho assunto persino semplice aspirina con la birra. Qualsiasi cosa che interpretasse psicologicamente il legame con una tonia differente del metabolismo.

A questo punto potresti riassumere i passaggi fondamentali per smettere?

La prima cosa è l'accettazione di tutto il periodo che si è vissuto nella droga, perché quasi sempre le motivazioni iniziali hanno origini sociali e capirle significa comprendere comunque la propria realtà di base.

Oltre ad una rianalisi, critica ma non "sublimante", dell'esperienza fatta, cosa serve per uscire?

La fiducia in se stessi, come ho già detto, e nella possibilità di cambiare; nel fatto che è una fase, ha un inizio e può avere una fine. Viceversa, nella "fiducia generalizzata" c'è il sogno di Morfeo: non sei piantato più su te stesso per cui tendi a buttarti via, a dimenticare, ad eludere. La ripresa è più facile se nel tuo "background" è già insita una qualche consapevolezza del tuo valore, più difficile quando non c'è niente del genere. Ecco perché le più esposte sono le fasce sociali più scoperte e le individualità più svantaggiate: tutto ciò rientra nel discorso su cosa trovi a livello sociale quando smetti. Anche per questo non capirò mai per quale motivo chi ha i soldi di Salerno e Villaggio debba andare a farsi legare da Muccioli per trovare fiducia in se stesso!

Dai dunque grande importanza alla volontà?

Credo alla volontà come strumento conoscitivo e non come virtù falsamente taumaturgica che nasconde un intervento repressivo su se stessi. La forza non può venire dall'esterno, agendo come una panacea. Se proviene "da fuori" cade lo stimolo verso un'azione cosciente del soggetto, svaniscono naturalezza e fiducia. È invece importante capire cosa ti impedisce di vivere senza droga.

Cosa pensi delle ricadute?

Ritengo che le ricadute siano necessarie e che chi ha usato eroina debba continuare ad usarla saltuariamente e per un tempo ragionevolmente lungo. Non sto facendo un elogio della "malattia" ma credo inerente al processo di liberazione l'avere un estremo rispetto per il tuo passato e per quello stato di percezione, che come abbiamo visto è forse in alcune fasi meno neuropatico di quello "normale". In ogni caso la conclusione è che, se il rifiuto del dolore è connaturato all'uomo, gli oppiacei sono soltanto un mezzo inadatto e fallimentare.

Eppure oggi si da molto credito al discorso di una "rifondazione" dell'individuo basata su pratiche segreganti, così come vengono rilanciati in grande stile i metodi di comportamentismo, quasi che fondamentale sia la rimozione di interi segmenti della personalità del "drogato", più che la loro comprensione.

A tal punto che brani di teoria "muccioliniana" sono addirittura invalsi nella pratica lavorativa. Questo bisogno dell'ex-tossicomane di oggettivarsi e confrontarsi con la società lo rende particolarmente vulnerabile anche da questo punto di vista. D'altronde ciò s'inserisce nella pratica selvaggia del lavoro precario, mal retribuito o persino gratuito. A questo proposito è emblematica la motivazione della sentenza emessa al termine del processo di S. Patrignano nella quale anche i giudici paiono stupirsi del comportamento di un dirigente sindacale come Benvenuto, sceso a giustificare in quella sede forme lavorative non sindacalizzate.