Rivista Anarchica Online
Alla ricerca
della coerenza flessibile
di Salvo Vaccaro
L'annoso dibattito
all'interno del movimento anarchico tra spontaneismo e
organizzazione, pur sempre libertaria, vede oggi l'unanime
riconoscimento dell'importanza del secondo, a fronte di un disincanto
salutare nei confronti del primo. La scarsa attenzione rivolta alla
capacità progettuale di anticipare, nei limiti del possibile e nei
vincoli del presente illibertario, elementi organizzativi di una
realtà diversa sino alla radice, trova oggi rimedio nelle analisi
degli anarchici organizzati di tutto il mondo, le cui critiche non
sono soltanto radicalmente "distruttive", ma mirano nel
contempo a porre alternative praticabili sin da ora che diano il
segno tangibile della vitalità e della reale possibilità del
pensiero e della prassi anarchica come organizzazione della vita in
un sistema di libertà. Certo, si fatica a
progredire nelle elaborazioni che sono per necessità un work in
process che non pretende di esaurire tutto in una astratta
architettonica di elementi vitali non irregimentabili né prevedibili
a priori; però la strada dei progetti anarchici è stata, quale più
quale meno, imboccata e va perseguita con fantasia, tenacia e
applicazione. In questo processo
si inserisce talvolta una feroce critica ad un comportamento
ideologico "purista" che si trasformerebbe ipso facto
in "scelta dell'isolamento marginale". La volontà di
ridiventare forza viva nella società, nel suo pieno e non nella
periferia, diventa, in questo attacco, una vivace, disincantata e
spregiudicata politica pragmatica che fa dell'"opportunismo",
dal punto di vista libertario e per i propri fini, una delle armi
principali di penetrazione nel tessuto sociale laddove esso è pure
istituzionalizzato. Ciò per non essere tagliati fuori da enormi
segmenti di società "soffocati" e "rivestiti" da
istituzioni politiche e, in ultima analisi, statuali. No al
"purismo", quindi, via libera alla "contaminazione",
allo "sporcarsi le mani" pur in modo attento e senza tradire
finalità e obiettivi di fondo. Qua sorgono le mie
perplessità. Credo che, in questo labirinto sull'orlo di un
precipizio, prendere scorciatoie sia pericoloso, e che alcune
puntualizzazioni siano opportune e tempestive, al fine di aggirare
sia Scilla che Cariddi. Che il "purismo" possa rasentare
una condizione di immobilismo politico che, bene che vada, garantisce
a stento la mera sopravvivenza, può come non può essere uno stato
di fatto; quel che è più preoccupante è la contiguità con un
"dogmatismo" che fa dell'ideologia, nel senso forte del
termine, l'unico strumento di discriminazione binaria, tra ciò che è
(anarchico, giusto, vero, e via dicendo) e ciò che non è.
Atteggiamento tipicamente dogmatico (il Parsifal di CL e del
suo Buttiglione) perché eleva a normatività una legge
universale che tale non è: l'idea (o la morale, che serve individui
e non totalità). Mi rendo conto che siamo già in un campo
discutibile. Del resto, la credibilità di un'idea qualsiasi
(politica, etica, scientifica,... o no?) è legata alla coerenza dei
suoi postulati di fondo, in altri termini, l'identità visibile del
"nocciolo duro", come si usa dire. Fare dell'identità
una questione esclusivamente ideologica - sovratemporale,
universale, normativa - è un rischio che corre il "purismo",
che legge la realtà con un paio d'occhiali rigidi, al limite
totalmente inadeguati a cogliere ciò che dovrebbe leggere. Da
strumento di lettura, l'ideologia nel "purismo" diventa
grammatica; e chi legge diversamente, è in errore
(para-eretico) proprio perché non usa deliberatamente quella
grammatica, utilizzando un altro paio d'occhiali. Naturalmente, se il
nucleo dell'identità è uno spettro ampio di "elementi di
fondo" che, inoltre, in determinati aspetti e frangenti di
epoca, si arricchiscono variando, il problema della conciliazione tra
diverse paia d'occhiali e il "nocciolo duro" si pone
relativamente ed elasticamente, in rapporto alle reciproche
affastellazioni e flessibilità. Per il "purismo", invece, la
pluralità di occhiali cozza contro la monoidentità della legge
grammaticale normativa. Se il "purismo"
è un atteggiamento rigido, statico, quasi dogmatico, spesso
immobilista, la seduzione dell'"opportunismo" elevata
anch'essa a legge è pericolosa, perché smarrisce quei fili che
legano coerentemente teoria e prassi, minandone la credibilità. Una
tattica "opportunista", presa isolatamente, può anche
risultare, appunto, opportuna; ma fattane una regola, si ricade nel
vizio opposto al "purismo", eliminando tout-court
gli occhiali di lettura e immergendosi totalmente e passivamente nei
flussi del reale illibertario subendone la dinamica impressa da
altri. Una strategia
politica anarchica dell'"opportunismo" confonde la propria
capacità di flessibilità con quella di tutte le istituzioni,
il che è da sempre oggetto della critica anarchica che afferma che
le dinamiche istituzionali assorbono, vanificandoli, i conflitti
depotenziando coscienze combattive, anestetizzano punti di lotta,
obbediscono a regole proprie immutabili se non con rapporti di forza
ribaltati. Di conseguenza, il pensiero anarchico ha sempre
privilegiato la dimensione sociale a quella politico-istituzionale,
registrando una netta separazione dei due domini - il che oggi
andrebbe rivisto. Salvo casi
sporadici, legati anche a determinate circostanze in cui
contraddizioni all'interno del campo istituzionale possono favorire,
se inseriti dentro, un temporaneo stravolgimento delle regole,
l'analisi è corretta, e l'"opportunismo" tattico può
talvolta rispondere a esigenze di interruzione di circuiti
politico-istituzionali di potere, sempre entro una prassi critica "in
negativo", distruttiva. Ma il lato costruttivo va chiaramente
delineato entro una dimensione autogestionaria, diretta, ecc., che
nulla ha a che spartire con le istituzioni statuali, locali e
periferiche se non bracci di ferro, prove di forza, conflitti,
tecniche di spiazzamento e di vanificazione. Ciò non vuol dire
sottovalutare il peso istituzionale nelle lotte e nelle coscienze,
anche perché la statualità ha dato sempre segni di enormi capacità
di recupero e di ingabbiamento, sia preventivi che successivi, il che
non è una disgrazia a patto però di aprire immediatamente un altro
fronte di lotta e costringere così l'istituzione a rincorrerti, ad
inseguirti sul tuo terreno che tu hai deciso nei tempi e
nell'ampiezza tattica di apertura del fronte. Alla flessibilità
statuale - che è comunque legata al pachiderma-stato nei suoi ritmi
di azione e di reazione politico-amministrativa - lo stato poggia sui
tempi lunghi e sull'anticipo - corrisponde una flessibilità anarchica,
che noi chiamiamo "gradualismo". La gradualità è
l'unico asse per il quale viaggia la coerenza flessibile del
rapporto teoria (identità, occhiali) e prassi (strategie, tattica),
ed è l'unica alternativa alle false scorciatoie del "purismo"
e dell'"opportunismo strategico". Essa, più che rendere
più vicino il "fatidico giorno" (vecchia concezione della
rivoluzione come "alba del giorno nuovo"), consolida giorno
dopo giorno quelle condizioni materiali e simbolo-immaginarie che
rendono possibile e praticabile un cambiamento qualitativo della vita
collettiva. Nel conflitto
quotidiano con lo stato, la gradualità serve, in funzione difensiva,
ad evitare di ricominciare da zero ogni ciclo di lotte, e, in
funzione offensiva, ad allargare i fronti di lotta, a sfruttare nuovi
trampolini di lancio, ad allargare il raggio strategico del
"possibile ora" (il cosiddetto "possibile logicum",
ciò che rientra nelle concessioni possibili che non intaccano la
compatibilità del sistema); e ciò sia in un'ottica "in
negativo" che in una "in positivo". Ritengo, in
conclusione, che la riscoperta critica della gradualità
strategica possa far uscire dalle secche l'anarchia organizzata,
l'attualità della cui utopia possibile, oggi più che mai, può
essere la risposta corretta ai problemi delle libertà in una società
in trasformazione.
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