Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 132
novembre 1985


Rivista Anarchica Online

Agricoltura, mercato, morale
di Murray Bookchin

Verdi, agricoltura naturale, alimentazione alternativa, cooperative e comuni, ecc.: tutti temi che "tirano", sui quali si sono prontamente buttati i soliti avvoltoi della politica, i recuperatori di professione, insomma gli "ecologisti" dell'ultim'ora. Non c'è però solo questa "ecologia" ufficiale, istituzionale, addomesticata. C'è anche l'ecologia sociale, sovversiva, profondamente rivoluzionaria - quella esposta con tanta efficacia dall'anarchico americano Murray Bookchin nel suo ponderoso libro "L'ecologia della libertà" e in tanti suoi scritti. Sulla nostra rivista e su "Volontà" abbiamo pubblicato, nell'ultimo decennio, numerosi saggi ed interventi di Bookchin. È ora la volta di un suo saggio, originariamente intitolato "Market economy or moral economy?", scritto sulla base dell'intervento svolto nel corso dell'annuale assemblea della New England Organic Farmers Association (Vermont, 1983).

Prima o poi, tutti i movimenti che si pongono l'obiettivo di una profonda trasformazione sociale devono fare i conti con il modo in cui la gente produce i mezzi materiali per vivere - il cibo, le case, gli indumenti - e con il modo in cui questi mezzi vengono distribuiti. Essere reticenti su ciò che concerne la sfera materiale dell'esistenza umana, liquidare questo aspetto come "materialistico", significa peccare di grave insensibilità nei confronti delle condizioni preliminari necessarie alla vita stessa.
Tutti gli alimenti che ingeriamo per sostenere il nostro metabolismo animale e tutte le abitazioni e i capi di vestiario con i quali ci ripariamo dalle inclemenze della natura sono prodotti da individui come noi, i quali devono lavorare per rifornirci di ciò che ci occorre - così come noi, è auspicabile, siamo obbligati a lavorare per rifornire loro. Gli economisti hanno occultato questa attività diffusa celandola sotto categorie amorali, spesso con pretese "scientifiche". L'umanità dell'epoca preindustriale, invece, ha sempre considerato la produzione e la distribuzione in termini profondamente morali. La richiesta di "giustizia economica" non è meno antica dello sfruttamento economico. Solo in tempi recenti questa rivendicazione è scesa a un livello inferiore nella nostra concezione dell'etica, o meglio è stata ridotta a un infimo rango dall'enfasi sovraeconomica posta sulla "spiritualità" contrapposta alla "materialità". Perciò è facile perdonare il grande pensatore tedesco Theodor Adorno, che acidamente osservava una generazione addietro: "C'è soltanto tenerezza nella più rozza delle richieste: che nessuno debba patire più la fame". (Minima Moralia). Per quanto possa sembrare esagerata, questa immagine di tenerezza è uno schiaffo meritato sul viso di quegli strati privilegiati, la cui "crassa insaziabilità" per le cose buone della vita è pari soltanto alla "crassa insaziabilità" per i problemi immaginari dei loro ego inariditi e annoiati. Sarebbe ora - anzi, vi è la necessità - di restituire una dimensione morale a quella che definiamo freddamente "l'economia", o meglio di chiedersi che cosa sia un'economia veramente morale.
La difficoltà di stabilire un legame tra economia e moralità è insita nella natura stessa della vita economica, quale noi oggi la conosciamo. È vero che un'economia non può mai essere realmente "amorale", a differenza di quanto vorrebbero farci credere gli economisti o i praticanti di "scienze economiche", così come non possono essere considerati "amorali" i modi di lavoro e le tecniche (1). Il fatto è che la nostra attuale economia di mercato è palesemente immorale. Anche negando che l'economia possa essere considerata un ambito autenticamente morale - nel quale la gente decide sempre che cosa deve essere fatto e da chi, che cosa deve essere distribuito e a chi, come le risorse "scarse" devono essere valutate in rapporto ai bisogni "illimitati" - gli economisti ci hanno letteralmente demoralizzato, trasformandoci in cretini morali. La determinazione del prezzo, per citare un unico esempio, non è soltanto un "amorale" computo impersonale di offerta contro richiesta. È un'insidiosa manipolazione sia dell'una che dell'altra - una manipolazione immorale dei bisogni dell'uomo, che è parte di una ricerca immorale di profitto. Giacché si parla di una "economia di mercato" distinta da una "economia morale", non sarebbe fuori luogo parlare anche di una "economia immorale" distinta da una "economia morale".
Tuttavia è difficile rendersi conto di questa distinzione, non soltanto perché l'economia stessa, con l'insieme delle sue pretese scientifiche, ha reso più torbido il problema del rapporto tra economia e morale, ma anche perché abbiamo la tendenza a ritenere che lo status quo economico sia qualcosa di dato - uno "stato di cose naturale", che si presume essere parte di una "natura umana" del tutto fittizia. L'economia di mercato è radicata a tal punto nella nostra mente, che il suo sporco linguaggio ha sostituito le nostre più sacre espressioni morali e spirituali. Così "investiamo" nei nostri figli, nel matrimonio, nei rapporti umani, e usiamo questo termine per significare "amore" e "considerazione". Viviamo in un mondo di "scambi" e vogliamo "andare a fondo" di ogni "transazione" emotiva. Usiamo una terminologia contrattuale, non quella della devozione e delle affinità spirituali. Con questo bla-bla mutuato dal mondo degli affari, e con termini elettronici quali "input", "output" e "feedback", si potrebbe facilmente riempire un dizionario per i nostri tempi e per quelli a venire.

La logica spietata del mercato
In effetti la vita ha acquistato quei caratteri descrittivi che le precedenti generazioni attribuivano ai rapporti strettamente commerciali - la cui influenza sulla loro condotta, per quanto tendesse ad espandersi nei periodi di crisi economica, fu sempre marginale. "Dignità del lavoro" significava che il lavoro era subordinato a preoccupazioni morali più elevate, relative al senso di auto-considerazione del lavoratore stesso, e ciò indipendentemente dalla misura in cui la dignità di cui sopra era violata dalla durezza delle condizioni di lavoro e dalla presenza vincolante delle gerarchie economiche. Il "rispetto" era alla base di qualsiasi transazione e figurava tra le rivendicazioni dei militanti operai come nel codice di comportamento dei "padrini" mafiosi. In molto paesi avviati all'industrializzazione, i lavoratori scioperarono per salvaguardare la loro auto-considerazione e per esprimere solidarietà morale, non solo per ottenere miglioramenti sul piano materiale e sociale.
Oggi abbiamo perduto questo senso di direzione morale, perché il mercato si è impadronito completamente della nostra mappa sociale. Le nostre coordinate economiche non ci danno alcun mezzo per confrontare le immagini etiche del passato con la grigia "amoralità" del presente. Negli anni '30 la gente poteva ancora contrapporre alla logica spietata del mercato la solidarietà dell'universo di quartiere, modellato sul villaggio e saldamente fondato sulla famiglia allargata, i cui membri più anziani erano testimonianza vivente di una società preindustriale più a misura d'uomo. Appena fuori dalle città sovrappopolate e avvelenate, la campagna, con i suoi modi di vita consacrati dal tempo, era una presenza visibile.
Per quanto si potesse decidere di criticare, definendolo "parrocchiale" e "patriarcale", questo arcaico rifugio dalla fabbrica, dall'ufficio, dall'emporio commerciale (una critica che, secondo la mia esperienza personale, è stata molto esagerata), resta il fatto che esso offriva un rifugio profondamente umano e personale, con una capacità illimitata di rinnovamento e di vitalità. Ma, ciò che forse è più importante, dava all'"uomo industriale" un senso di contrasto e di tensione tra un mondo morale, nel quale i criteri economici erano guidati dai valori della virtù e del buon vivere, e un mondo mercantile, dove i criteri morali sono guidati dai valori del profitto e dell'egoismo. Questo senso di contrasto e di tensione i lavoratori lo portavano dentro di sé in bottega e in casa, nel sindacato e in famiglia, in fabbrica e nel quartiere, in città e nel villaggio. Anche laddove l'economia di mercato sembrava essere il centro focale della vita durante la giornata lavorativa, nella visione periferica del comune lavoratore permaneva la consapevolezza di un mondo più antico, più congeniale, morale, nel quale ci si poteva alfine rifugiare. Lo spazio nel quale si poteva vivere come esseri umani, con interessi umani spontanei, si scontrava con lo spazio nel quale l'individuo diventava forzatamente un essere di classe, una creatura dell'economia di mercato e del suo nucleo industriale altamente razionalizzato.
Per colmo d'ironia, la Grande Depressione ridusse l'economia di mercato ad un ruolo secondario e non primario come nel decennio precedente agli occhi di milioni di persone negli anni '30. Nonostante la preminenza di un'ingenua dedizione al progresso, e nonostante il potere di rimuovere i mali della società, propri della tecnica, la generazione dei primi anni '30 emigrò in buona parte dalle città alle campagne, rinsaldò i legami familiari per far fronte alle avversità economiche, intensificò il senso di solidarietà a livello locale e con esso anche i sistemi di aiuto reciproco a livello di quartiere e di piccola città. In breve, ritrovò il senso di un impegno morale nei rapporti con il prossimo, e ciononostante i grandi spostamenti a cui furono costretti i contadini americani che vivevano nella Dust Bowl, e nonostante il massiccio incremento dei vagabondi urbani, che riempivano i carri merci nelle regioni centro-occidentali e occidentali degli USA. Questo movimento parallelo dentro e fuori dai centri dell'industria e del commercio - un mondo impersonale di frenetica speculazione e di ricchezze cartacee, celebrate con tanta esuberanza durante il boom degli anni '20 - subì una grave perdita di prestigio, come dimostrò chiaramente il revival dei movimenti populisti e socialisti. Il crollo del mercato azionario nel 1929 pose fine ad ogni senso di riverenza popolare nei confronti non soltanto della ricchezza imprenditoriale, ma anche del sistema di mercato.
Il baratto, l'aiutarsi a vicenda, le verità di un'America agreste, l'autosufficienza e l'indipendenza, insieme al regionalismo e all'identità culturale, ossessionarono il paese per anni e invasero addirittura il campo dell'arte, come dimostrano i dipinti di Grant Wood, gli autori di murales e i fotografi della WPA e la reviviscenza degli studi sul folklore e sulle tradizioni locali.

Compratori e venditori anonimi
Oggi nessuno ricorda più questa decennale perdita di prestigio dell'economia di mercato. Dagli anni '50 in poi, l'economia di mercato non ha soltanto dominato ogni aspetto della vita convenzionale, ma ha addirittura cancellato il ricordo dei modi di vita alternativi precedenti. Oggi siamo tutti compratori e venditori anonimi, anche delle miserie che ci affliggono.
Compriamo e vendiamo non soltanto la nostra forza-lavoro. In tutte le sue forme più sottili, compriamo e vendiamo anche le nostre nevrosi, le nostre anomie, la nostra solitudine, il nostro vuoto spirituale, la nostra integrità, la nostra mancanza di considerazione per noi stessi e le nostre emozioni, tutto così com'è, ai guru e agli specialisti del "benessere" mentale e fisico, agli psicanalisti e ai chierici di ogni sorta, infine agli eserciti dei burocrati aziendali e governativi, che sono diventati le vere colonne di quella che chiamiamo eufemisticamente "società". Compriamo e vendiamo gli involucri esteriori della personalità; i lustri giubbotti di pelle che trasformano in pimpanti magnaccia i più umili bibliotecari e gli stivaletti con il tacco alto che trasformano le segretarie annoiate in puttane pericolosamente seducenti. Gli abiti, i cosmetici, le acconciature, i gingilli e l'infinità di simboli e segni - tutto ciò, nelle fogne urbane del mondo, contribuisce a farci apparire più "interessanti" e meno spersonalizzati di quanto in realtà siamo.
La convenzionalità sparisce momentaneamente per ricomparire poco dopo sotto forma di idiosincrasie stilizzate, di nefasti "distintivi" che non fanno altro che rendere più palese la perdita di individualità. Un tempo il berretto dell'operaio tradizionale, persino il cilindro con cui venivano raffigurati i borghesi nelle vignette, sormontavano volti pieni di carattere, di esperienza, di forza interiore, di individualità. Oggi, sulle teste bambolesche dei nostri borghesi "bohemizzati", questi cimeli di un passato vivo e vitale sembrano caricature grottesche.
L'economia di mercato ha dimostrato di poter raggiungere i più intimi recessi della personalità, tramutando i suoi accoliti in fantocci tutti uguali, e tanto più se essi sono idiosincratici nel vestire e si nutrono della cultura bassa dei mass-media. Di fatto, tutto ciò che è culturalmente stimolante e riempie fino a fare scoppiare i teatri e le sale da concerto è un prodotto riciclato di generazioni morte o morenti - e spesso riciclato con una perizia tecnica che lo priva completamente di ogni carattere, di ogni genuinità. Il nostro liberalismo nei confronti di ogni eccesso morale assomiglia più all'indifferenza che alla tolleranza. Anomici, privi di spirito e di sentimento, siamo diventati in tutto e per tutto simili ai beni di consumo che tanto alacremente produciamo e divoriamo. Dal canto suo la società, appiattita e scolorita, è diventata quella stessa economia di mercato che una volta confinavamo nel mondo remoto (almeno per me) degli "affari".
L'immoralità del nostro credo nell'"amoralità" deriva da un senso di indifferenza, che è malvagio perché non prevede alcun criterio per ciò che è buono e virtuoso. La sua filosofia consiste in un incessante bla-bla e i suoi ideali si materializzano nelle vie affollate di negozi, che sono diventate i suoi templi più imperiosi e più sacri.
L'economia di mercato ha un grandioso segreto, dal quale le viene il potere di plasmare nella sua totalità la vita sociale - il potere dell'anonimato. I venditori non conoscono gli acquirenti, e gli acquirenti non conoscono i venditori. Ciò che i venditori immettono sul mercato - lasciando perdere il mito fine a se stesso dell'"arte del vendere" - sono i beni di consumo, e non loro stessi. L'acquirente che compra un vestito alla fine ha a che fare con un oggetto, un vestito - e non con il suo produttore, una persona. È vero che ci sono produttori che confezionano gli abiti su misura e commessi addetti alle vendite che "ungono" i clienti e li inducono all'acquisto. Ma i sarti sono un retaggio di epoche remote, oppure servono una clientela elitaria. E i commessi "abili" nel migliore dei casi sono soltanto catalizzatori, che rendono più appetibili i sogni acquistabili. Essi sono praticamente inesistenti in quelle vie piene di negozi e grandi magazzini, nei quali davanti a una cassa, non nell'universo più intimo nel quale il fornitore di una merce cerca di persuadere un potenziale acquirente a concludere l'affare. No - l'economia di mercato è strutturata intorno all'acquirente e all'oggetto, o intorno al produttore e al negozio al dettaglio, non intorno al rapporto tra due persone.
Oggi questa anonimità del processo di scambio ha conseguenze formidabili ed esercita influenze più profonde di quanto normalmente pensiamo. La prima cosa che ci colpisce è la sua soffocante impersonalità. Una macchina chiamata mercato si impadronisce delle funzioni vitali che apparterrebbero di diritto ai rapporti tra le persone. I mezzi di comunicazione elettronici e la carta stampata ci bombardano di immagini e di voci che assomigliano a quelle degli esseri umani, ma in realtà nel mercato attuale ci accade raramente di incontrare persone in carne e ossa. Spesso non v'è modo alcuno di discutere il valore di un prodotto con il suo produttore, il quale - si suppone - sarebbe il più adatto a giudicarne la qualità e l'utilità. I venditori, quei pochi che ancora esistono, sono notoriamente ignoranti su ciò che concerne i prodotti che smerciano, e possono essere sopraffatti facilmente da un acquirente avveduto. Inoltre perlopiù manifestano la più scandalosa indifferenza e si ripetono all'eccesso. Potrebbero essere sostituiti da un nastro registrato, come da qualche parte è già avvenuto. Ma ciò che importa soprattutto nell'impersonalità del mercato è l'inesistenza di un interscambio tra acquirente e venditore, che si presti ad essere indirizzato in senso etico.

Quando l'artigiano era "buono"
In tutte le epoche passate, il valore di un prodotto era moralmente legato al valore del venditore e del produttore. Il valore che un acquirente attribuiva a un bene, o a qualsiasi entità oggetto di scambio, costituiva un metro etico per valutare l'integrità morale dell'individuo dal quale il bene era stato acquistato. Criticare l'oggetto, restituirlo con osservazioni spregiative sulle sue qualità, significava mettere in dubbio la probità e la serietà del venditore - non soltanto in quanto "buon" produttore, ma in quanto persona con propri valori etici. In questo senso, l'artigiano era tanto "buono" quanto gli oggetti che produceva; il venditore era tanto "buono" quanto le merci che vendeva. Uso il termine "buono" in senso non strumentale, con riferimento alla qualità tecnica - secondo il significato che, manco a dirlo, oggi viene attribuito a questa parola -, ma in senso etico, con riferimento alla bontà umana e alla probità morale.
"Buona volontà" significava onestà, integrità, affidabilità, responsabilità e un alto senso del servizio pubblico, e non aveva nulla a che vedere con la capacità di rimanere sul mercato, con la solidità fiscale e con il mito artificioso della "superiorità" che la pubblicità ha inculcato nel pubblico. Non si acquistava un "nome" che si era visto più volte sugli schermi televisivi, sulle insegne al neon, sui cartelloni. Si "acquistava" invece la certezza morale di una buona reputazione personale, la dedizione di un artista all'eccellenza estetica, la areté che i greci riconoscevano come imperativo morale nella vocazione di un individuo, la responsabilità profonda che un bravo lavoratore nutre nei confronti di un prodotto che è l'estensione delle sue stesse potenzialità. I "beni" e la "bontà" - una comunanza terminologica non casuale - portavano su di sé l'imprimatur etico della responsabilità sociale, non l'abilità tecnica strumentale e la vendibilità.
Dal canto suo, l'atto stesso del vendere era regolato da una particolare etichetta e presupponeva un coinvolgimento personale. Acquirente e venditore s'intrattenevano l'un l'altro con chiacchiere sui fatti del giorno e sulle vicende personali, esprimendo opinioni su una varietà di questioni di pubblico interesse, e poi finalmente mostravano di nutrire un reciproco interesse per il prodotto in vendita, che doveva essere acquistato con osservazioni competenti sui suoi componenti, sulla squisitezza della fattura, sulle sue qualità in genere. Il prezzo costituiva un vincolo morale, non era semplicemente uno scambio di "beni" contro denaro. La firma del produttore o del venditore appariva sul prodotto, oltre che sul conto. La gente usava l'espressione "un giusto prezzo" e non parlava soltanto di "buoni affari". Tra acquirente e venditore vi era un legame etico, che significava la reciproca confidenza, o meglio la reciproca dipendenza, per tutto ciò che concerneva le cose utili e buone della vita.
L'intero processo di scambio era permeato di un alto senso della mutualità fondato sulla fiducia e dalla fede comune in un legame complementare che garantiva la sopravvivenza. Rapporti di questo genere non appartengono soltanto al lontano Medioevo. Ne sono rimaste tracce fino agli anni '30, cioè fino ad un'epoca in cui la produzione, nonostante il carattere sempre più massificato, era normalmente soggetta a valutazione da parte dell'acquirente nei negozi di quartiere, nelle sale prova dei sarti, nelle botteghe dei ciabattini, dei sigarai e dei fornai, e in tutta quella serie di servizi nei quali il lavoro veniva effettuato sotto gli occhi del cliente e talvolta persino davanti a folle di passanti.

Non basta la carota organica
Oggi l'anonimato e la spersonalizzazione del mercato ha privato quasi completamente della sua dimensione morale il processo di scambio. Anche nelle imprese cosiddette "alternative", quali le fattorie organiche, le botteghe artigianali e le cooperative alimentari, l'ispirazione etica che presumibilmente era stata alla base della loro creazione si è molto annacquata e rischia di scomparire del tutto. Di fatto, nella misura in cui diventano "stabili", anche queste imprese assumono un carattere più imprenditoriale che morale. Ciò si verifica particolarmente nei casi in cui l'ispirazione morale si confonde con la necessità materiale.
Una fattoria organica che mira soltanto a soddisfare un "bisogno" di "buon cibo", e non coltiva per un senso di "bontà" e per preoccupazioni ecologiche - come una "cooperativa alimentare" che intende fornire "buon cibo" a basso prezzo - è guidata più dal bisogno che dall'etica. In altre parole, intende risolvere una preoccupazione pragmatica piuttosto che morale. Il bello è che nulla di tutto ciò potrà mai soppiantare la via affollata di negozi.
Nessuna fattoria organica potrà mai competere vittoriosamente con l'agricoltore commerciale e nessuna cooperativa alimentare potrà mai superare - tanto meno nell'assortimento - un magazzino Grand Union. Tutto ciò che queste imprese "alternative" possono fare è coesistere precariamente con i giganti che le sovrastano, come frange produttive marginali che si rivolgono su basi strettamente materiali a una parte infinitesimale della società, non alla società nel suo complesso. Nei casi peggiori, il loro bisogno di "efficienza", di "ritorni più elevati", di operazioni più vaste e di una strategia commerciale più "efficace", le porta a trasformare in oggetti non soltanto i prodotti, ma anche i consumatori. Diventano imprese impersonali come tutte le altre, i cui "beni" sono carenti di "bontà" non meno di quanto lo siano quelli delle imprese concorrenti, assai più grandi e meglio lanciate sul mercato. Condannate al nanismo dai giganti, che si fanno beffe della loro esistenza e delle loro rivendicazioni, le imprese "alternative" finiscono per diventare farmacie alimentari, che dispensano prodotti organici non inquinati invece che pillole - le droghe per affrontare una malattia sociale, non per prevenirla o curarla. In breve, diventano inorganiche, spersonalizzate, computerizzate e ciniche come le imprese più grandi, sul cui prato piluccano l'erba - terreni di scarico per cibi organici per soddisfare le esigenze terapeutiche di un pubblico sempre più anonimo e inorganico. L'aspetto morale della distribuzione e della coltivazione di cibo e di altri prodotti è cancellato da considerazioni di "efficienza" e di "successo" - i due attributi dell'impresa capitalista che sono coerenti con una preoccupazione di quantità economica a discapito della qualità etica.
Per chiarire brutalmente i termini della questione: una carota organica, un vestito tessuto in casa, un'asse di legno lavorata artigianalmente o un paio di stivali di cuoio fatti a mano sono soltanto "cose", con le quali la gente avrà un rapporto impersonale in una cooperativa alimentare o in una bottega artigiana, non meno che in un negozio normale, a meno che le cose non portino un messaggio morale, capace di mutare le persone in quanto creature esotiche di un'economia immorale. La "cosa" in sé non darà mai voce a un messaggio morale soltanto in virtù della sua qualità, del suo pedigree ecologico e della sua utilità. L'essere esente da quelle sostanze inquinanti che nuocciono al corpo e al palato, e l'essere integrale, nutriente e attraente non bastano a far sì che la cosa diventi un "bene" in senso morale.
La "bontà" morale può venire soltanto dal modo in cui le persone interagiscono le une con le altre, e dal senso di finalità etica che danno alle loro attività produttive. È il modo in cui i "beni" vengono scambiati, o meglio - per dare una definizione più radical - è il modo in cui lo scambio è usato per distribuire i "beni" appropriatamente, in modo che l'"acquirente" e il "venditore" cessino di essere polarizzati l'uno contro l'altro e si uniscano in una comunità economica legata da un rapporto fraterno fondato su un senso di identificazione reciproca e di complementarietà personale. La cura, la responsabilità e il dovere diventano l'autentico "cartellino prezzi" dell'economia morale, in contrapposizione con quello dell'economia di mercato, nel quale entrano l'interesse, il costo e il profitto.
La cura, la responsabilità e il dovere, ci dicono, sono concetti "ideologici", che non hanno posto in una concezione scientista dell'economia. Questa critica mette in evidenza il nucleo stesso dei problemi sollevati da un'economia morale. Un'economia morale - un sistema di distribuzione partecipatorio, fondato su preoccupazioni etiche - dovrebbe dissolvere l'immoralità che la mente moderna identifica con l'economia in quanto tale. Il suo obiettivo deve essere quello di cancellare lo status antipodico dell'"acquirente" e del "venditore", per dimostrare che in pratica ambedue formano una comunità basata su un ricco senso di mutualità, non sulla contrapposizione di "risorse scarse" e "bisogni illimitati". L'oggetto scambiato è secondario rispetto ai valori etici che sono esplicitamente condivisi dai partecipanti ad una economia morale. Che l'"acquirente" e il "venditore" abbiano cura del reciproco benessere, che sentano responsabilità l'uno nei confronti dell'altro e che siano uniti da un profondo senso di obbligazione per la loro reciproca prosperità; tutto ciò significherebbe sostituire un legame etico ad un legame strettamente economico - in altre parole, tramutare l'economia in cultura, piuttosto che visualizzarla come la "circolazione" delle cose.
Laddove la distribuzione diviene una forma di complementarietà, cessa di essere economica nell'accezione consueta di questo termine, e le parole "acquirente" e "venditore" perdono significato. I bisogni materiali cominciano ad esprimere uno dei molti modi in cui la richiesta di cose diventa una richiesta di integrità morale. Le aspettative dell'"acquirente" cominciano a crescere oltre i semplici bisogni e diventano fiducia nelle capacità del "venditore" di esibire la massima probità morale nel provvedere i mezzi materiali necessari alla vita. Dal canto suo, il "venditore" propone le sue cose con la convinzione etica che i mezzi necessari alla vita servano non soltanto a soddisfare i bisogni materiali, ma anche i bisogni spirituali che favoriscono la fiducia, la comunanza, la solidarietà. La rivalità e l'apparente indipendenza che pervadono l'economia di mercato sono sostituite dalla reciprocità e dall'interdipendenza, in cui la distribuzione con la sua etichetta morale - simile ai rituali primitivi - afferma tra i suoi partecipanti un senso di unità e di condivisione di un medesimo destino. Le inuguaglianze date dalle differenze di forza, di salute, di età e di capacità cessano di essere il marchio infamante di una speciosa "uguaglianza" che consente a ciascun individuo di lanciarsi per proprio conto in una corsa al sorpasso mortale ed emotivamente smorta. Al contrario, producono un senso di complementarità e un impegno alla compensazione, che contiene in sé la grande massima del socialismo: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.

Al di là del bene e del male
Queste immagini di un'economia morale e dei suoi prerequisiti etici non sono astrazioni. Sottintendono istituzioni molto concrete e forme di comportamento.
Da un punto di vista istituzionale, presuppongono una nuova forma di comunità produttiva, diversa dal semplice mercato nel quale ciascun acquirente e ciascun venditore bada ai propri interessi - una comunità in cui i produttori siano collegati tramite una rete di contatti - un po' come le antiche corporazioni medioevali - nell'ambito di un sistema responsabile di appoggio. In questo sistema di appoggio, i produttori - siano essi agricoltori organici, falegnami, artigiani del cuoio, gioiellieri, tessitori, sarti, costruttori, artigiani e operai di ogni genere, compresi anche i professionisti quali medici, chiropatici, infermieri, avvocati, insegnanti e così via - concordano esplicitamente di scambiare i loro prodotti e servizi a condizioni favorevoli ad entrambi, non soltanto "equi" o "giusti". Come tutte le comunità, quella dei produttori costituisce una famiglia che provvede al benessere materiale dei suoi membri come a una responsabilità collettiva, non soltanto personale. Di conseguenza i medici si assumono l'obbligo morale di provvedere alle necessità salutari degli artigiani, ad esempio, i quali a loro volta si assumono il compito di rifornire i medici, le infermiere, i dietologi, e così via. Questo senso di complementarità morale - questo "ecosistema" sociale, per così dire - comprende tutti i membri della comunità produttiva. I prezzi, le risorse, gli interessi personali e i costi non hanno ruolo alcuno in un'economia morale. Il servizio o approvvigionamento è disponibile a richiesta, senza "contabilizzazione" di ciò che viene dato e preso.
D'altro canto, il "bisogno" è profondamente moralizzato, nel senso che è un problema condiviso sia dal datore, sia dal ricevente, perché diventa importante per il produttore del "bene" assicurarsi che il consumatore non soffra privazioni per la mancanza di un suo prodotto, e fare in modo che il suo "bene" sia il "migliore" che si possa dare a chi ne ha bisogno. Andare "al di là del bene e del male", se mi si consente di usare il titolo di un'opera stimolante di Nietzsche, significa ricercare l'eccellenza fine a se stessa e soprattutto il bene della comunità piuttosto che l'amoralità o il relativismo morale. Il "bisogno" si trasforma: da mero desiderio di un "bene" diventa un modo per identificare produttore e consumatore in un legame sociale attento e sensibile, che non è guidato dall'interesse, dal profitto e dal costo - con le loro trappole quantitative - bensì da quell'ineffabile senso della reciproca prosperità, qualitativo e disinteressato, come quello che solitamente ci aspettiamo di trovare nei rapporti con i genitori o con i fratelli. Non vi è più il desiderio di un "bene" da parte del singolo individuo, bensì la costituzione di un fondo collettivo. (...)
Si può trarre ispirazione da numerose comunità cosiddette "primitive", nelle quali era il concetto di usufrutto, e non quello di proprietà, a regolare la disponibilità degli attrezzi e delle risorse (2). Forse si può imparare anche dalle forme di organizzazione delle corporazioni democratiche delle città medioevali, oppure da certe forme cooperative o quasi religiose di associazione produttiva, come quello degli Hutteriti e delle comuni tolstoiane. Ma queste forme di associazione forniscono soltanto alcuni spunti, spesso ingannevoli se presi uno ad uno e utili se assemblati selettivamente, su come dovrebbe essere concepita, in termini più ampi, un'economia morale per la società nel suo complesso.
Dal punto di vista strutturale, un'economia morale rischia di restare per lungo tempo soltanto un esempio marginale di ciò che la comunità umana dovrebbe diventare un giorno. Ma molto di ciò che oggi esiste al centro delle cose si è sviluppato precedentemente ai loro margini, perciò il fatto che un'economia morale oggi possa essere soltanto un fenomeno sociale periferico non deve scoraggiarci.
Ancor più importante di quello della struttura è il problema del comportamento. Un'economia morale, basata su preoccupazioni comuni, invece che sugli interessi privati, non è migliore delle sensibilità che riesce a suscitare. Se la nostra concezione di un "bene" materiale deriva dal venir meno di un senso della "bontà" morale, il ripristino del legame tra materiale e morale, tra "bene" e "bontà" riaffiora in una luce completamente nuova la nostra stessa idea di economia. Attribuisce all'economia morale la funzione cruciale di trasformare una comunità economica in un'arena per l'educazione etica, non soltanto in un sistema morale di produzione e di distribuzione (3).

L'economia morale come scuola
Come nella polis ateniese di duemila anni fa, un'economia morale deve diventare una scuola per la creazione di un nuovo tipo di cittadinanza: la cittadinanza economica e non soltanto quella politica, la cittadinanza produttiva e non soltanto quella partecipatoria. Deve diventare anche un luogo per imparare a rispettare le "cose" come prodotti di una natura feconda, e non soltanto un centro di studi specializzati, l'incarnazione di una fisicità spiritualizzata e al tempo stesso l'ambito produttivo per la creazione di oggetti destinati al consumo personale. Il "curriculum" per una scuola come questa comporta una "respiritizzazione" del processo di lavoro, delle "materie prime" che il processo forma, del contesto morale nel quale la gente lavora insieme e dello scopo per il quale lavorano - e ciò senza dimenticare i più ovvi problemi delle istituzioni familiari, comunitarie ed essenzialmente pedagogiche, e delle forme di autodeterminazione politicamente libertaria mediante le quali la gente viene educata. Perciò l'arena economica diventa una "scuola" - come è sempre stata, più in peggio che in meglio - destinata a formare il carattere morale dell'individuo e a fornire le linee guida principali per il suo comportamento.
Quest'immagine economica di autosviluppo morale è inseparabile dai mezzi e dalle macchine che la rendono reale. Le ecotecnologie, quali gli impianti su piccola scala per ricavare energia dal sole e dal vento, l'agricoltura ecologica, le tecniche di idrocultura, i marchingegni per la conservazione dell'energia, insomma tutta la serie delle cosiddette "tecnologie appropriate" (definizione che mi riesce difficile accettare, perché il termine "appropriato" - per che cosa? - è moralmente troppo ambiguo) dovrebbero essere considerate più nei termini della loro funzione etica, e non tanto sotto il profilo dell'efficienza operativa.
Dovrebbe essere abbastanza ovvio che, se vogliamo sviluppare un autentico rispetto per il mondo naturale, per la sua fecondità e per la nostra dipendenza da esso, dobbiamo portare nelle nostre vite il sole, il vento, la terra, la flora, la fauna e i materiali da costruzione usati nelle nostre case. Le ecotecnologie sono efficienti e rinnovabili, ma c'è di più: o il nostro metabolismo con la natura sarà interdipendente al punto che vediamo noi stessi dentro in mondo naturale, e non "al disopra di esso", oppure ne diventeremo i più distruttivi parassiti.
Fondamentale per lo sviluppo di questo senso di interdipendenza è una rivalutazione della natura come fondamento morale di una nuova etica ecologica. Questo fondamento morale, che desta tanta diffidenza nelle menti scientifiche moderne, costituisce la materia prima dell'ecologia sociale e richiede una trattazione separata. Per il momento basti sottolineare il fatto che dovremo riconsiderare la natura come ambito di fecondità e di sviluppo, oppure - secondo la tipica mentalità mercantile - dovremo considerarla una giungla da sfruttare selvaggiamente, mentre noi ci sfruttiamo a vicenda intrattenendo rapporti del tipo acquirente-venditore. Di conseguenza, l'economia di mercato e l'economia morale si contrappongono l'una all'altra a diversi livelli - per l'immagine che ciascuna ha della natura, della tecnologia, dell'istruzione, del lavoro, della produzione e distribuzione dei mezzi necessari alla vita, della comunità, infine per la loro immagine dei "beni" di consumo o dell'incarnazione della "bontà".
Ma soprattutto la contrapposizione si riflette nel modo in cui gli uomini e le donne vedono se stessi e gli ideali relativi ai rapporti umani - se gli ideali non vanno oltre la mera sopravvivenza, con tutte le implicazioni tecnologiche economiche e familiari. Su questo punto l'economia di mercato e l'economia morale sono caratterizzate da concetti diametralmente opposti riguardo al modo in cui l'umanità concepisce la sua autorealizzazione e i suoi scopi; concetti che definiscono il significato stesso delle premesse materiali dalle quali potrebbe dipendere il nostro sviluppo.

(traduzione di Michele Buzzi)


1) Marx, come David Ricardo, ha svolto un ruolo primario nello spogliare la teoria economica dei suoi contenuti morali e nel racchiuderla in un ambito scientifico scientista, pur denunciando al tempo stesso la brutalità e l'egoismo del capitalismo. Il Capitate di Marx contiene svariati passaggi misti, nei quali si assegna all'equivalenza un ruolo preminente e apparentemente "giusto" nell'ambito dell'economia capitalista, e particolarmente, nello scambio di forza lavoro contro denaro, manifestando al tempo stesso una genuina repulsione per un sistema economico che riduce ogni rapporto umano a un rapporto di denaro. Il disprezzo di Marx per rivendicazioni quali "una giustizia economica" e soprattutto "un giusto salario" sembra essere ignoto alla maggior parte dei marxisti di oggi; un disprezzo che avrebbe i suoi meriti, se non fosse il prodotto della sua stessa immagine scientista dell'economia come studio delle "leggi naturali della produzione capitalista" (Il Capitale, I, p. 13). Per ulteriori riflessioni sulla natura della giustizia, cfr il capitolo 5 del mio libro, The Ecology of Freedom, Palo Alto, Cheshire Books, 1982 (ed. italiana: L'ecologia della libertà, Edizioni Antistato, Milano 1984).


2) Il concetto di usufrutto, della libertà che gli individui hanno di appropriarsi delle risorse per il semplice fatto che vogliono usarle in un momento in cui il loro "proprietario" non non ne ha bisogno, è troppo complesso per essere affrontato in questa sede. Per una analisi storica e più approfondita di questo principio, cfr. il mio libro The Ecology of Freedom, op. cit., particolarmente le pagg. 50, 51.


3) Una funzione che purtroppo è stata spesso trascurata da molte cooperative alimentari, le quali per un certo periodo furono gestite dai cooperatori che si occupavano degli acquisti insieme allo Staff che organizzava la distribuzione del cibo. È inutile dire che il bisogno di "efficienza" e le situazioni competitive nelle quali molte cooperative dovettero operare, a fronte dei grandi empori alimentari, giustificano qualche "giro di vite" sul piano operativo. Ma il guaio è che la mentalità di cui fecero mostra gli amministratori più selezionati delle cooperative non era molto diversa da quella che ci aspetteremmo di trovare in un direttore di supermarket. Non soltanto l'efficienza era posta al di sopra della moralità e delle funzioni educative proprie di una cooperativa alimentare, ma addirittura queste ultime scomparvero del tutto, come se la cooperativa fosse soltanto un deposito di vettovaglie più economico degli altri, e non una cooperativa nel vero senso della parola.