Rivista Anarchica Online
Agricoltura,
mercato, morale
di Murray Bookchin
Verdi,
agricoltura naturale, alimentazione alternativa, cooperative e
comuni, ecc.: tutti temi che "tirano", sui quali si sono
prontamente buttati i soliti avvoltoi della politica, i recuperatori
di professione, insomma gli "ecologisti" dell'ultim'ora. Non
c'è però solo questa "ecologia" ufficiale, istituzionale,
addomesticata. C'è anche l'ecologia sociale, sovversiva,
profondamente rivoluzionaria - quella esposta con tanta efficacia
dall'anarchico americano Murray Bookchin nel suo ponderoso libro
"L'ecologia della libertà" e in tanti suoi scritti. Sulla nostra
rivista e su "Volontà" abbiamo pubblicato, nell'ultimo
decennio, numerosi saggi ed interventi di Bookchin. È
ora la volta di un suo saggio, originariamente intitolato "Market
economy or moral economy?", scritto sulla base dell'intervento
svolto nel corso dell'annuale assemblea della New England Organic
Farmers Association (Vermont, 1983).
Prima o poi, tutti
i movimenti che si pongono l'obiettivo di una profonda trasformazione
sociale devono fare i conti con il modo in cui la gente produce i
mezzi materiali per vivere - il cibo, le case, gli indumenti - e con
il modo in cui questi mezzi vengono distribuiti. Essere reticenti su
ciò che concerne la sfera materiale dell'esistenza umana, liquidare
questo aspetto come "materialistico", significa peccare di
grave insensibilità nei confronti delle condizioni preliminari
necessarie alla vita stessa. Tutti gli alimenti
che ingeriamo per sostenere il nostro metabolismo animale e tutte le
abitazioni e i capi di vestiario con i quali ci ripariamo dalle
inclemenze della natura sono prodotti da individui come noi, i quali
devono lavorare per rifornirci di ciò che ci occorre - così come
noi, è auspicabile, siamo obbligati a lavorare per rifornire loro.
Gli economisti hanno occultato questa attività diffusa celandola
sotto categorie amorali, spesso con pretese "scientifiche".
L'umanità dell'epoca preindustriale, invece, ha sempre considerato
la produzione e la distribuzione in termini profondamente morali. La
richiesta di "giustizia economica" non è meno antica dello
sfruttamento economico. Solo in tempi recenti questa rivendicazione è
scesa a un livello inferiore nella nostra concezione dell'etica, o
meglio è stata ridotta a un infimo rango dall'enfasi sovraeconomica
posta sulla "spiritualità" contrapposta alla "materialità".
Perciò è facile perdonare il grande pensatore tedesco Theodor
Adorno, che acidamente osservava una generazione addietro: "C'è
soltanto tenerezza nella più rozza delle richieste: che nessuno
debba patire più la fame". (Minima Moralia). Per quanto possa
sembrare esagerata, questa immagine di tenerezza è uno schiaffo
meritato sul viso di quegli strati privilegiati, la cui "crassa
insaziabilità" per le cose buone della vita è pari soltanto
alla "crassa insaziabilità" per i problemi immaginari dei
loro ego inariditi e annoiati. Sarebbe ora - anzi, vi è la necessità
- di restituire una dimensione morale a quella che definiamo
freddamente "l'economia", o meglio di chiedersi che cosa
sia un'economia veramente morale. La difficoltà di
stabilire un legame tra economia e moralità è insita nella natura
stessa della vita economica, quale noi oggi la conosciamo. È
vero che un'economia non può mai essere realmente "amorale",
a differenza di quanto vorrebbero farci credere gli economisti o i
praticanti di "scienze economiche", così come non possono
essere considerati "amorali" i modi di lavoro e le tecniche
(1). Il fatto è che la nostra attuale economia di mercato è
palesemente immorale. Anche negando che l'economia possa essere
considerata un ambito autenticamente morale - nel quale la gente
decide sempre che cosa deve essere fatto e da chi, che cosa deve
essere distribuito e a chi, come le risorse "scarse" devono
essere valutate in rapporto ai bisogni "illimitati" - gli
economisti ci hanno letteralmente demoralizzato, trasformandoci in
cretini morali. La determinazione del prezzo, per citare un unico
esempio, non è soltanto un "amorale" computo impersonale di
offerta contro richiesta. È
un'insidiosa manipolazione sia dell'una che dell'altra - una
manipolazione immorale dei bisogni dell'uomo, che è parte di una
ricerca immorale di profitto. Giacché si parla di una "economia
di mercato" distinta da una "economia morale", non
sarebbe fuori luogo parlare anche di una "economia immorale"
distinta da una "economia morale". Tuttavia è
difficile rendersi conto di questa distinzione, non soltanto perché
l'economia stessa, con l'insieme delle sue pretese scientifiche, ha
reso più torbido il problema del rapporto tra economia e morale, ma
anche perché abbiamo la tendenza a ritenere che lo status quo
economico sia qualcosa di dato - uno "stato di cose naturale",
che si presume essere parte di una "natura umana" del tutto
fittizia. L'economia di mercato è radicata a tal punto nella nostra
mente, che il suo sporco linguaggio ha sostituito le nostre più
sacre espressioni morali e spirituali. Così "investiamo" nei
nostri figli, nel matrimonio, nei rapporti umani, e usiamo questo
termine per significare "amore" e "considerazione".
Viviamo in un mondo di "scambi" e vogliamo "andare a fondo"
di ogni "transazione" emotiva. Usiamo una terminologia
contrattuale, non quella della devozione e delle affinità
spirituali. Con questo bla-bla mutuato dal mondo degli affari, e con
termini elettronici quali "input", "output" e
"feedback", si potrebbe facilmente riempire un dizionario
per i nostri tempi e per quelli a venire.
La logica
spietata del mercato
In effetti la vita
ha acquistato quei caratteri descrittivi che le precedenti
generazioni attribuivano ai rapporti strettamente commerciali - la
cui influenza sulla loro condotta, per quanto tendesse ad espandersi
nei periodi di crisi economica, fu sempre marginale. "Dignità
del lavoro" significava che il lavoro era subordinato a
preoccupazioni morali più elevate, relative al senso di
auto-considerazione del lavoratore stesso, e ciò indipendentemente
dalla misura in cui la dignità di cui sopra era violata dalla
durezza delle condizioni di lavoro e dalla presenza vincolante delle
gerarchie economiche. Il "rispetto" era alla base di
qualsiasi transazione e figurava tra le rivendicazioni dei militanti
operai come nel codice di comportamento dei "padrini"
mafiosi. In molto paesi avviati all'industrializzazione, i lavoratori
scioperarono per salvaguardare la loro auto-considerazione e per
esprimere solidarietà morale, non solo per ottenere miglioramenti
sul piano materiale e sociale. Oggi abbiamo
perduto questo senso di direzione morale, perché il mercato si è
impadronito completamente della nostra mappa sociale. Le nostre
coordinate economiche non ci danno alcun mezzo per confrontare le
immagini etiche del passato con la grigia "amoralità" del
presente. Negli anni '30 la gente poteva ancora contrapporre alla
logica spietata del mercato la solidarietà dell'universo di
quartiere, modellato sul villaggio e saldamente fondato sulla
famiglia allargata, i cui membri più anziani erano testimonianza
vivente di una società preindustriale più a misura d'uomo. Appena
fuori dalle città sovrappopolate e avvelenate, la campagna, con i
suoi modi di vita consacrati dal tempo, era una presenza visibile. Per quanto si
potesse decidere di criticare, definendolo "parrocchiale" e
"patriarcale", questo arcaico rifugio dalla fabbrica,
dall'ufficio, dall'emporio commerciale (una critica che, secondo la
mia esperienza personale, è stata molto esagerata), resta il fatto
che esso offriva un rifugio profondamente umano e personale, con una
capacità illimitata di rinnovamento e di vitalità. Ma, ciò che
forse è più importante, dava all'"uomo industriale" un
senso di contrasto e di tensione tra un mondo morale, nel quale i
criteri economici erano guidati dai valori della virtù e del buon
vivere, e un mondo mercantile, dove i criteri morali sono guidati dai
valori del profitto e dell'egoismo. Questo senso di contrasto e di
tensione i lavoratori lo portavano dentro di sé in bottega e in
casa, nel sindacato e in famiglia, in fabbrica e nel quartiere, in
città e nel villaggio. Anche laddove l'economia di mercato sembrava
essere il centro focale della vita durante la giornata lavorativa,
nella visione periferica del comune lavoratore permaneva la
consapevolezza di un mondo più antico, più congeniale, morale, nel
quale ci si poteva alfine rifugiare. Lo spazio nel quale si poteva
vivere come esseri umani, con interessi umani spontanei, si scontrava
con lo spazio nel quale l'individuo diventava forzatamente un essere
di classe, una creatura dell'economia di mercato e del suo nucleo
industriale altamente razionalizzato. Per colmo d'ironia,
la Grande Depressione ridusse l'economia di mercato ad un ruolo
secondario e non primario come nel decennio precedente agli occhi di
milioni di persone negli anni '30. Nonostante la preminenza di
un'ingenua dedizione al progresso, e nonostante il potere di
rimuovere i mali della società, propri della tecnica, la generazione
dei primi anni '30 emigrò in buona parte dalle città alle campagne,
rinsaldò i legami familiari per far fronte alle avversità
economiche, intensificò il senso di solidarietà a livello locale e
con esso anche i sistemi di aiuto reciproco a livello di quartiere e
di piccola città. In breve, ritrovò il senso di un impegno morale
nei rapporti con il prossimo, e ciononostante i grandi spostamenti a
cui furono costretti i contadini americani che vivevano nella Dust
Bowl, e nonostante il massiccio incremento dei vagabondi urbani, che
riempivano i carri merci nelle regioni centro-occidentali e
occidentali degli USA. Questo movimento parallelo dentro e fuori dai
centri dell'industria e del commercio - un mondo impersonale di
frenetica speculazione e di ricchezze cartacee, celebrate con tanta
esuberanza durante il boom degli anni '20 - subì una grave perdita
di prestigio, come dimostrò chiaramente il revival dei movimenti
populisti e socialisti. Il crollo del mercato azionario nel 1929 pose
fine ad ogni senso di riverenza popolare nei confronti non soltanto
della ricchezza imprenditoriale, ma anche del sistema di mercato. Il baratto,
l'aiutarsi a vicenda, le verità di un'America agreste,
l'autosufficienza e l'indipendenza, insieme al regionalismo e
all'identità culturale, ossessionarono il paese per anni e invasero
addirittura il campo dell'arte, come dimostrano i dipinti di Grant
Wood, gli autori di murales e i fotografi della WPA e la reviviscenza
degli studi sul folklore e sulle tradizioni locali.
Compratori e
venditori anonimi
Oggi nessuno
ricorda più questa decennale perdita di prestigio dell'economia di
mercato. Dagli anni '50 in poi, l'economia di mercato non ha soltanto
dominato ogni aspetto della vita convenzionale, ma ha addirittura
cancellato il ricordo dei modi di vita alternativi precedenti. Oggi
siamo tutti compratori e venditori anonimi, anche delle miserie che
ci affliggono. Compriamo e
vendiamo non soltanto la nostra forza-lavoro. In tutte le sue forme
più sottili, compriamo e vendiamo anche le nostre nevrosi, le nostre
anomie, la nostra solitudine, il nostro vuoto spirituale, la nostra
integrità, la nostra mancanza di considerazione per noi stessi e le
nostre emozioni, tutto così com'è, ai guru e agli specialisti del
"benessere" mentale e fisico, agli psicanalisti e ai
chierici di ogni sorta, infine agli eserciti dei burocrati aziendali
e governativi, che sono diventati le vere colonne di quella che
chiamiamo eufemisticamente "società". Compriamo e vendiamo
gli involucri esteriori della personalità; i lustri giubbotti di
pelle che trasformano in pimpanti magnaccia i più umili bibliotecari
e gli stivaletti con il tacco alto che trasformano le segretarie
annoiate in puttane pericolosamente seducenti. Gli abiti, i
cosmetici, le acconciature, i gingilli e l'infinità di simboli e
segni - tutto ciò, nelle fogne urbane del mondo, contribuisce a
farci apparire più "interessanti" e meno spersonalizzati
di quanto in realtà siamo. La convenzionalità
sparisce momentaneamente per ricomparire poco dopo sotto forma di
idiosincrasie stilizzate, di nefasti "distintivi" che non
fanno altro che rendere più palese la perdita di individualità. Un
tempo il berretto dell'operaio tradizionale, persino il cilindro con
cui venivano raffigurati i borghesi nelle vignette, sormontavano
volti pieni di carattere, di esperienza, di forza interiore, di
individualità. Oggi, sulle teste bambolesche dei nostri borghesi
"bohemizzati", questi cimeli di un passato vivo e vitale
sembrano caricature grottesche. L'economia di
mercato ha dimostrato di poter raggiungere i più intimi recessi
della personalità, tramutando i suoi accoliti in fantocci tutti
uguali, e tanto più se essi sono idiosincratici nel vestire e si
nutrono della cultura bassa dei mass-media. Di fatto, tutto ciò che
è culturalmente stimolante e riempie fino a fare scoppiare i teatri
e le sale da concerto è un prodotto riciclato di generazioni morte o
morenti - e spesso riciclato con una perizia tecnica che lo priva
completamente di ogni carattere, di ogni genuinità. Il nostro
liberalismo nei confronti di ogni eccesso morale assomiglia più
all'indifferenza che alla tolleranza. Anomici, privi di spirito e di
sentimento, siamo diventati in tutto e per tutto simili ai beni di
consumo che tanto alacremente produciamo e divoriamo. Dal canto suo
la società, appiattita e scolorita, è diventata quella stessa
economia di mercato che una volta confinavamo nel mondo remoto
(almeno per me) degli "affari". L'immoralità del
nostro credo nell'"amoralità" deriva da un senso di
indifferenza, che è malvagio perché non prevede alcun criterio per
ciò che è buono e virtuoso. La sua filosofia consiste in un
incessante bla-bla e i suoi ideali si materializzano nelle vie
affollate di negozi, che sono diventate i suoi templi più imperiosi
e più sacri. L'economia di
mercato ha un grandioso segreto, dal quale le viene il potere di
plasmare nella sua totalità la vita sociale - il potere
dell'anonimato. I venditori non conoscono gli acquirenti, e gli
acquirenti non conoscono i venditori. Ciò che i venditori immettono
sul mercato - lasciando perdere il mito fine a se stesso dell'"arte
del vendere" - sono i beni di consumo, e non loro stessi.
L'acquirente che compra un vestito alla fine ha a che fare con un
oggetto, un vestito - e non con il suo produttore, una persona. È
vero che ci sono produttori che confezionano gli abiti su misura e
commessi addetti alle vendite che "ungono" i clienti e li
inducono all'acquisto. Ma i sarti sono un retaggio di epoche remote,
oppure servono una clientela elitaria. E i commessi "abili"
nel migliore dei casi sono soltanto catalizzatori, che rendono più
appetibili i sogni acquistabili. Essi sono praticamente inesistenti
in quelle vie piene di negozi e grandi magazzini, nei quali davanti a
una cassa, non nell'universo più intimo nel quale il fornitore di
una merce cerca di persuadere un potenziale acquirente a concludere
l'affare. No - l'economia di mercato è strutturata intorno
all'acquirente e all'oggetto, o intorno al produttore e al negozio al
dettaglio, non intorno al rapporto tra due persone. Oggi questa
anonimità del processo di scambio ha conseguenze formidabili ed
esercita influenze più profonde di quanto normalmente pensiamo. La
prima cosa che ci colpisce è la sua soffocante impersonalità. Una
macchina chiamata mercato si impadronisce delle funzioni vitali che
apparterrebbero di diritto ai rapporti tra le persone. I mezzi di
comunicazione elettronici e la carta stampata ci bombardano di
immagini e di voci che assomigliano a quelle degli esseri umani, ma
in realtà nel mercato attuale ci accade raramente di incontrare
persone in carne e ossa. Spesso non v'è modo alcuno di discutere il
valore di un prodotto con il suo produttore, il quale - si suppone -
sarebbe il più adatto a giudicarne la qualità e l'utilità. I
venditori, quei pochi che ancora esistono, sono notoriamente
ignoranti su ciò che concerne i prodotti che smerciano, e possono
essere sopraffatti facilmente da un acquirente avveduto. Inoltre
perlopiù manifestano la più scandalosa indifferenza e si ripetono
all'eccesso. Potrebbero essere sostituiti da un nastro registrato,
come da qualche parte è già avvenuto. Ma ciò che importa
soprattutto nell'impersonalità del mercato è l'inesistenza di un
interscambio tra acquirente e venditore, che si presti ad essere
indirizzato in senso etico.
Quando
l'artigiano era "buono"
In tutte le epoche
passate, il valore di un prodotto era moralmente legato al valore del
venditore e del produttore. Il valore che un acquirente attribuiva a
un bene, o a qualsiasi entità oggetto di scambio, costituiva un
metro etico per valutare l'integrità morale dell'individuo dal quale
il bene era stato acquistato. Criticare l'oggetto, restituirlo con
osservazioni spregiative sulle sue qualità, significava mettere in
dubbio la probità e la serietà del venditore - non soltanto in
quanto "buon" produttore, ma in quanto persona con propri
valori etici. In questo senso, l'artigiano era tanto "buono"
quanto gli oggetti che produceva; il venditore era tanto "buono"
quanto le merci che vendeva. Uso il termine "buono" in
senso non strumentale, con riferimento alla qualità tecnica -
secondo il significato che, manco a dirlo, oggi viene attribuito a
questa parola -, ma in senso etico, con riferimento alla bontà umana
e alla probità morale. "Buona
volontà" significava onestà, integrità, affidabilità,
responsabilità e un alto senso del servizio pubblico, e non aveva
nulla a che vedere con la capacità di rimanere sul mercato, con la
solidità fiscale e con il mito artificioso della "superiorità"
che la pubblicità ha inculcato nel pubblico. Non si acquistava un
"nome" che si era visto più volte sugli schermi televisivi,
sulle insegne al neon, sui cartelloni. Si "acquistava"
invece la certezza morale di una buona reputazione personale, la
dedizione di un artista all'eccellenza estetica, la areté che
i greci riconoscevano come imperativo morale nella vocazione di un
individuo, la responsabilità profonda che un bravo lavoratore nutre
nei confronti di un prodotto che è l'estensione delle sue stesse
potenzialità. I "beni" e la "bontà" - una
comunanza terminologica non casuale - portavano su di sé
l'imprimatur etico della responsabilità sociale, non l'abilità
tecnica strumentale e la vendibilità. Dal canto suo,
l'atto stesso del vendere era regolato da una particolare etichetta e
presupponeva un coinvolgimento personale. Acquirente e venditore
s'intrattenevano l'un l'altro con chiacchiere sui fatti del giorno e
sulle vicende personali, esprimendo opinioni su una varietà di
questioni di pubblico interesse, e poi finalmente mostravano di
nutrire un reciproco interesse per il prodotto in vendita, che doveva
essere acquistato con osservazioni competenti sui suoi componenti,
sulla squisitezza della fattura, sulle sue qualità in genere. Il
prezzo costituiva un vincolo morale, non era semplicemente uno
scambio di "beni" contro denaro. La firma del produttore o
del venditore appariva sul prodotto, oltre che sul conto. La gente
usava l'espressione "un giusto prezzo" e non parlava soltanto
di "buoni affari". Tra acquirente e venditore vi era un
legame etico, che significava la reciproca confidenza, o meglio la
reciproca dipendenza, per tutto ciò che concerneva le cose utili e
buone della vita. L'intero processo
di scambio era permeato di un alto senso della mutualità fondato
sulla fiducia e dalla fede comune in un legame complementare che
garantiva la sopravvivenza. Rapporti di questo genere non
appartengono soltanto al lontano Medioevo. Ne sono rimaste tracce
fino agli anni '30, cioè fino ad un'epoca in cui la produzione,
nonostante il carattere sempre più massificato, era normalmente
soggetta a valutazione da parte dell'acquirente nei negozi di
quartiere, nelle sale prova dei sarti, nelle botteghe dei ciabattini,
dei sigarai e dei fornai, e in tutta quella serie di servizi nei
quali il lavoro veniva effettuato sotto gli occhi del cliente e
talvolta persino davanti a folle di passanti.
Non basta la
carota organica
Oggi l'anonimato e
la spersonalizzazione del mercato ha privato quasi completamente
della sua dimensione morale il processo di scambio. Anche nelle
imprese cosiddette "alternative", quali le fattorie
organiche, le botteghe artigianali e le cooperative alimentari,
l'ispirazione etica che presumibilmente era stata alla base della
loro creazione si è molto annacquata e rischia di scomparire del
tutto. Di fatto, nella misura in cui diventano "stabili",
anche queste imprese assumono un carattere più imprenditoriale che
morale. Ciò si verifica particolarmente nei casi in cui
l'ispirazione morale si confonde con la necessità materiale. Una fattoria
organica che mira soltanto a soddisfare un "bisogno" di
"buon cibo", e non coltiva per un senso di "bontà"
e per preoccupazioni ecologiche - come una "cooperativa alimentare"
che intende fornire "buon cibo" a basso prezzo - è guidata
più dal bisogno che dall'etica. In altre parole, intende risolvere
una preoccupazione pragmatica piuttosto che morale. Il bello è che
nulla di tutto ciò potrà mai soppiantare la via affollata di
negozi. Nessuna fattoria
organica potrà mai competere vittoriosamente con l'agricoltore
commerciale e nessuna cooperativa alimentare potrà mai superare -
tanto meno nell'assortimento - un magazzino Grand Union. Tutto ciò
che queste imprese "alternative" possono fare è coesistere
precariamente con i giganti che le sovrastano, come frange produttive
marginali che si rivolgono su basi strettamente materiali a una parte
infinitesimale della società, non alla società nel suo complesso.
Nei casi peggiori, il loro bisogno di "efficienza", di
"ritorni più elevati", di operazioni più vaste e di una
strategia commerciale più "efficace", le porta a
trasformare in oggetti non soltanto i prodotti, ma anche i
consumatori. Diventano imprese impersonali come tutte le altre, i cui
"beni" sono carenti di "bontà" non meno di
quanto lo siano quelli delle imprese concorrenti, assai più grandi e
meglio lanciate sul mercato. Condannate al nanismo dai giganti, che
si fanno beffe della loro esistenza e delle loro rivendicazioni, le
imprese "alternative" finiscono per diventare farmacie
alimentari, che dispensano prodotti organici non inquinati invece che
pillole - le droghe per affrontare una malattia sociale, non per
prevenirla o curarla. In breve, diventano inorganiche,
spersonalizzate, computerizzate e ciniche come le imprese più
grandi, sul cui prato piluccano l'erba - terreni di scarico per cibi
organici per soddisfare le esigenze terapeutiche di un pubblico
sempre più anonimo e inorganico. L'aspetto morale della
distribuzione e della coltivazione di cibo e di altri prodotti è
cancellato da considerazioni di "efficienza" e di
"successo" - i due attributi dell'impresa capitalista che
sono coerenti con una preoccupazione di quantità economica a
discapito della qualità etica. Per chiarire
brutalmente i termini della questione: una carota organica, un
vestito tessuto in casa, un'asse di legno lavorata artigianalmente o
un paio di stivali di cuoio fatti a mano sono soltanto "cose",
con le quali la gente avrà un rapporto impersonale in una
cooperativa alimentare o in una bottega artigiana, non meno che in un
negozio normale, a meno che le cose non portino un messaggio morale,
capace di mutare le persone in quanto creature esotiche di
un'economia immorale. La "cosa" in sé non darà mai voce a
un messaggio morale soltanto in virtù della sua qualità, del suo
pedigree ecologico e della sua utilità. L'essere esente da quelle
sostanze inquinanti che nuocciono al corpo e al palato, e l'essere
integrale, nutriente e attraente non bastano a far sì che la cosa
diventi un "bene" in senso morale. La "bontà"
morale può venire soltanto dal modo in cui le persone interagiscono
le une con le altre, e dal senso di finalità etica che danno alle
loro attività produttive. È
il modo in cui i "beni" vengono scambiati, o meglio
- per dare una definizione più radical - è il modo in cui lo
scambio è usato per distribuire i "beni" appropriatamente,
in modo che l'"acquirente" e il "venditore"
cessino di essere polarizzati l'uno contro l'altro e si uniscano in
una comunità economica legata da un rapporto fraterno fondato su un
senso di identificazione reciproca e di complementarietà personale.
La cura, la responsabilità e il dovere diventano l'autentico
"cartellino prezzi" dell'economia morale, in
contrapposizione con quello dell'economia di mercato, nel quale
entrano l'interesse, il costo e il profitto. La cura, la
responsabilità e il dovere, ci dicono, sono concetti "ideologici",
che non hanno posto in una concezione scientista dell'economia.
Questa critica mette in evidenza il nucleo stesso dei problemi
sollevati da un'economia morale. Un'economia morale - un sistema di
distribuzione partecipatorio, fondato su preoccupazioni etiche -
dovrebbe dissolvere l'immoralità che la mente moderna identifica con
l'economia in quanto tale. Il suo obiettivo deve essere quello di
cancellare lo status antipodico dell'"acquirente" e del
"venditore", per dimostrare che in pratica ambedue formano
una comunità basata su un ricco senso di mutualità, non sulla
contrapposizione di "risorse scarse" e "bisogni
illimitati". L'oggetto scambiato è secondario rispetto ai valori
etici che sono esplicitamente condivisi dai partecipanti ad una
economia morale. Che l'"acquirente" e il "venditore"
abbiano cura del reciproco benessere, che sentano responsabilità
l'uno nei confronti dell'altro e che siano uniti da un profondo senso
di obbligazione per la loro reciproca prosperità; tutto ciò
significherebbe sostituire un legame etico ad un legame strettamente
economico - in altre parole, tramutare l'economia in cultura,
piuttosto che visualizzarla come la "circolazione" delle
cose. Laddove la
distribuzione diviene una forma di complementarietà, cessa di essere
economica nell'accezione consueta di questo termine, e le parole
"acquirente" e "venditore" perdono significato. I
bisogni materiali cominciano ad esprimere uno dei molti modi in cui
la richiesta di cose diventa una richiesta di integrità morale. Le
aspettative dell'"acquirente" cominciano a crescere oltre i
semplici bisogni e diventano fiducia nelle capacità del "venditore"
di esibire la massima probità morale nel provvedere i mezzi
materiali necessari alla vita. Dal canto suo, il "venditore"
propone le sue cose con la convinzione etica che i mezzi necessari
alla vita servano non soltanto a soddisfare i bisogni materiali, ma
anche i bisogni spirituali che favoriscono la fiducia, la comunanza,
la solidarietà. La rivalità e l'apparente indipendenza che
pervadono l'economia di mercato sono sostituite dalla reciprocità e
dall'interdipendenza, in cui la distribuzione con la sua etichetta
morale - simile ai rituali primitivi - afferma tra i suoi
partecipanti un senso di unità e di condivisione di un medesimo
destino. Le inuguaglianze date dalle differenze di forza, di salute,
di età e di capacità cessano di essere il marchio infamante di una
speciosa "uguaglianza" che consente a ciascun individuo di
lanciarsi per proprio conto in una corsa al sorpasso mortale ed
emotivamente smorta. Al contrario, producono un senso di
complementarità e un impegno alla compensazione, che contiene in sé
la grande massima del socialismo: da ciascuno secondo le sue
capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Al di là
del bene e del male
Queste immagini di
un'economia morale e dei suoi prerequisiti etici non sono astrazioni.
Sottintendono istituzioni molto concrete e forme di comportamento. Da un punto di
vista istituzionale, presuppongono una nuova forma di comunità
produttiva, diversa dal semplice mercato nel quale ciascun acquirente
e ciascun venditore bada ai propri interessi - una comunità in cui i
produttori siano collegati tramite una rete di contatti - un po' come
le antiche corporazioni medioevali - nell'ambito di un sistema
responsabile di appoggio. In questo sistema di appoggio, i produttori -
siano essi agricoltori organici, falegnami, artigiani del cuoio,
gioiellieri, tessitori, sarti, costruttori, artigiani e operai di
ogni genere, compresi anche i professionisti quali medici,
chiropatici, infermieri, avvocati, insegnanti e così via -
concordano esplicitamente di scambiare i loro prodotti e servizi a
condizioni favorevoli ad entrambi, non soltanto "equi" o
"giusti". Come tutte le comunità, quella dei produttori
costituisce una famiglia che provvede al benessere materiale dei suoi
membri come a una responsabilità collettiva, non soltanto personale.
Di conseguenza i medici si assumono l'obbligo morale di provvedere
alle necessità salutari degli artigiani, ad esempio, i quali a loro
volta si assumono il compito di rifornire i medici, le infermiere, i
dietologi, e così via. Questo senso di complementarità morale -
questo "ecosistema" sociale, per così dire - comprende
tutti i membri della comunità produttiva. I prezzi, le risorse, gli
interessi personali e i costi non hanno ruolo alcuno in un'economia
morale. Il servizio o approvvigionamento è disponibile a richiesta,
senza "contabilizzazione" di ciò che viene dato e preso. D'altro canto, il
"bisogno" è profondamente moralizzato, nel senso che è un
problema condiviso sia dal datore, sia dal ricevente, perché diventa
importante per il produttore del "bene" assicurarsi che il
consumatore non soffra privazioni per la mancanza di un suo prodotto,
e fare in modo che il suo "bene" sia il "migliore"
che si possa dare a chi ne ha bisogno. Andare "al di là del
bene e del male", se mi si consente di usare il titolo di
un'opera stimolante di Nietzsche, significa ricercare l'eccellenza
fine a se stessa e soprattutto il bene della comunità piuttosto che
l'amoralità o il relativismo morale. Il "bisogno" si
trasforma: da mero desiderio di un "bene" diventa un modo
per identificare produttore e consumatore in un legame sociale
attento e sensibile, che non è guidato dall'interesse, dal profitto
e dal costo - con le loro trappole quantitative - bensì da
quell'ineffabile senso della reciproca prosperità, qualitativo e
disinteressato, come quello che solitamente ci aspettiamo di trovare
nei rapporti con i genitori o con i fratelli. Non vi è più il
desiderio di un "bene" da parte del singolo individuo,
bensì la costituzione di un fondo collettivo. (...) Si può trarre
ispirazione da numerose comunità cosiddette "primitive",
nelle quali era il concetto di usufrutto, e non quello di proprietà,
a regolare la disponibilità degli attrezzi e delle risorse (2).
Forse si può imparare anche dalle forme di organizzazione delle
corporazioni democratiche delle città medioevali, oppure da certe
forme cooperative o quasi religiose di associazione produttiva, come
quello degli Hutteriti e delle comuni tolstoiane. Ma queste forme di
associazione forniscono soltanto alcuni spunti, spesso ingannevoli se
presi uno ad uno e utili se assemblati selettivamente, su come
dovrebbe essere concepita, in termini più ampi, un'economia morale
per la società nel suo complesso. Dal punto di vista
strutturale, un'economia morale rischia di restare per lungo tempo
soltanto un esempio marginale di ciò che la comunità umana dovrebbe
diventare un giorno. Ma molto di ciò che oggi esiste al centro delle
cose si è sviluppato precedentemente ai loro margini, perciò il
fatto che un'economia morale oggi possa essere soltanto un fenomeno
sociale periferico non deve scoraggiarci. Ancor più
importante di quello della struttura è il problema del
comportamento. Un'economia morale, basata su preoccupazioni comuni,
invece che sugli interessi privati, non è migliore delle sensibilità
che riesce a suscitare. Se la nostra concezione di un "bene"
materiale deriva dal venir meno di un senso della "bontà"
morale, il ripristino del legame tra materiale e morale, tra "bene"
e "bontà" riaffiora in una luce completamente nuova la
nostra stessa idea di economia. Attribuisce all'economia morale la
funzione cruciale di trasformare una comunità economica in un'arena
per l'educazione etica, non soltanto in un sistema morale di
produzione e di distribuzione (3).
L'economia
morale come scuola
Come nella polis
ateniese di duemila anni fa, un'economia morale deve diventare una
scuola per la creazione di un nuovo tipo di cittadinanza: la
cittadinanza economica e non soltanto quella politica, la
cittadinanza produttiva e non soltanto quella partecipatoria. Deve
diventare anche un luogo per imparare a rispettare le "cose"
come prodotti di una natura feconda, e non soltanto un centro di
studi specializzati, l'incarnazione di una fisicità spiritualizzata
e al tempo stesso l'ambito produttivo per la creazione di oggetti
destinati al consumo personale. Il "curriculum" per una
scuola come questa comporta una "respiritizzazione" del
processo di lavoro, delle "materie prime" che il processo
forma, del contesto morale nel quale la gente lavora insieme e dello
scopo per il quale lavorano - e ciò senza dimenticare i più ovvi
problemi delle istituzioni familiari, comunitarie ed essenzialmente
pedagogiche, e delle forme di autodeterminazione politicamente
libertaria mediante le quali la gente viene educata. Perciò l'arena
economica diventa una "scuola" - come è sempre stata, più
in peggio che in meglio - destinata a formare il carattere morale
dell'individuo e a fornire le linee guida principali per il suo
comportamento. Quest'immagine
economica di autosviluppo morale è inseparabile dai mezzi e dalle
macchine che la rendono reale. Le ecotecnologie, quali gli impianti
su piccola scala per ricavare energia dal sole e dal vento,
l'agricoltura ecologica, le tecniche di idrocultura, i marchingegni
per la conservazione dell'energia, insomma tutta la serie delle
cosiddette "tecnologie appropriate" (definizione che mi
riesce difficile accettare, perché il termine "appropriato" -
per che cosa? - è moralmente troppo ambiguo) dovrebbero essere
considerate più nei termini della loro funzione etica, e non tanto
sotto il profilo dell'efficienza operativa. Dovrebbe essere
abbastanza ovvio che, se vogliamo sviluppare un autentico rispetto
per il mondo naturale, per la sua fecondità e per la nostra
dipendenza da esso, dobbiamo portare nelle nostre vite il sole, il
vento, la terra, la flora, la fauna e i materiali da costruzione
usati nelle nostre case. Le ecotecnologie sono efficienti e
rinnovabili, ma c'è di più: o il nostro metabolismo con la natura
sarà interdipendente al punto che vediamo noi stessi dentro in mondo
naturale, e non "al disopra di esso", oppure ne diventeremo
i più distruttivi parassiti. Fondamentale per lo
sviluppo di questo senso di interdipendenza è una rivalutazione
della natura come fondamento morale di una nuova etica ecologica.
Questo fondamento morale, che desta tanta diffidenza nelle menti
scientifiche moderne, costituisce la materia prima dell'ecologia
sociale e richiede una trattazione separata. Per il momento basti
sottolineare il fatto che dovremo riconsiderare la natura come ambito
di fecondità e di sviluppo, oppure - secondo la tipica mentalità
mercantile - dovremo considerarla una giungla da sfruttare
selvaggiamente, mentre noi ci sfruttiamo a vicenda intrattenendo
rapporti del tipo acquirente-venditore. Di conseguenza, l'economia di
mercato e l'economia morale si contrappongono l'una all'altra a
diversi livelli - per l'immagine che ciascuna ha della natura, della
tecnologia, dell'istruzione, del lavoro, della produzione e
distribuzione dei mezzi necessari alla vita, della comunità, infine
per la loro immagine dei "beni" di consumo o
dell'incarnazione della "bontà". Ma soprattutto la
contrapposizione si riflette nel modo in cui gli uomini e le donne
vedono se stessi e gli ideali relativi ai rapporti umani - se gli
ideali non vanno oltre la mera sopravvivenza, con tutte le
implicazioni tecnologiche economiche e familiari. Su questo punto
l'economia di mercato e l'economia morale sono caratterizzate da
concetti diametralmente opposti riguardo al modo in cui l'umanità
concepisce la sua autorealizzazione e i suoi scopi; concetti che
definiscono il significato stesso delle premesse materiali dalle
quali potrebbe dipendere il nostro sviluppo.
(traduzione
di Michele Buzzi)
1)
Marx, come David Ricardo, ha svolto un ruolo primario nello spogliare
la teoria economica dei suoi contenuti morali e nel racchiuderla in
un ambito scientifico scientista, pur denunciando al tempo stesso la
brutalità e l'egoismo del capitalismo. Il Capitate di Marx contiene
svariati passaggi misti, nei quali si assegna all'equivalenza un
ruolo preminente e apparentemente "giusto" nell'ambito
dell'economia capitalista, e particolarmente, nello scambio di forza
lavoro contro denaro, manifestando al tempo stesso una genuina
repulsione per un sistema economico che riduce ogni rapporto umano a
un rapporto di denaro. Il disprezzo di Marx per rivendicazioni quali
"una giustizia economica" e soprattutto "un giusto salario"
sembra essere ignoto alla maggior parte dei marxisti di oggi; un
disprezzo che avrebbe i suoi meriti, se non fosse il prodotto della
sua stessa immagine scientista dell'economia come studio delle "leggi
naturali della produzione capitalista" (Il Capitale, I, p. 13).
Per ulteriori riflessioni sulla natura della giustizia, cfr il
capitolo 5 del mio libro, The Ecology of Freedom, Palo Alto, Cheshire
Books, 1982 (ed. italiana: L'ecologia della libertà, Edizioni
Antistato, Milano 1984).
2)
Il concetto di usufrutto, della libertà che gli individui hanno di
appropriarsi delle risorse per il semplice fatto che vogliono usarle
in un momento in cui il loro "proprietario" non non ne ha
bisogno, è troppo complesso per essere affrontato in questa sede.
Per una analisi storica e più approfondita di questo principio, cfr.
il mio libro The Ecology of Freedom, op. cit., particolarmente le
pagg. 50, 51.
3)
Una funzione che purtroppo è stata spesso trascurata da molte
cooperative alimentari, le quali per un certo periodo furono gestite
dai cooperatori che si occupavano degli acquisti insieme allo Staff
che organizzava la distribuzione del cibo. È inutile dire che il
bisogno di "efficienza" e le situazioni competitive nelle
quali molte cooperative dovettero operare, a fronte dei grandi empori
alimentari, giustificano qualche "giro di vite" sul piano
operativo. Ma il guaio è che la mentalità di cui fecero mostra gli
amministratori più selezionati delle cooperative non era molto
diversa da quella che ci aspetteremmo di trovare in un direttore di
supermarket. Non soltanto l'efficienza era posta al di sopra della
moralità e delle funzioni educative proprie di una cooperativa
alimentare, ma addirittura queste ultime scomparvero del tutto, come
se la cooperativa fosse soltanto un deposito di vettovaglie più
economico degli altri, e non una cooperativa nel vero senso della
parola.
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