Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 137
maggio 1986


Rivista Anarchica Online

Quelle modificazioni irreversibili
di Fausta Bizzozzero

Finché sono anche grosse, ma reversibili, le modificazioni prodotte dall'uomo nell'ecosistema non costituiscono una tragedia - sostiene Laura Conti, ecologa comunista, in questa intervista. Ma quando si è in presenza di modificazioni irreversibili (l'estinzione di una specie, la frantumazione dei minerali, l'inquinamento termico, ecc.) allora è tutto un altro discorso.

Casale insegna. O meglio dovrebbe insegnare. Ma la cecità e l'imprevidenza umana sono inimmaginabili per cui non è affatto detto che, dopo i primi momenti di panico e di indignazione, tutto non torni come prima e non si pensi più (è tanto comodo dimenticare, sempre) a quello che può essere sepolto dietro casa, a quello che respiriamo, a quello che mangiamo. Fino alla prossima Casale o ai prossimi casi di avvelenamento. Come se questo territorio su cui viviamo fosse altra cosa da noi e la vita nostra e dei nostri figli non vi fosse indissolubilmente legata, come se il saccheggio e le mille violenze di tutti i generi che quotidianamente la nostra civiltà del profitto attua sulla terra non lasciassero segni, come se questa povera terra fosse un bene inesauribile.
Ora si assiste al solito gioco delle recriminazioni, dello sdegno, del palleggiamento delle responsabilità, delle accuse agli organi di stato che non riescono (?) a tener dietro a tutti i farabutti disposti a qualunque cosa pur di guadagnare qualche sporco soldo in più. Ma il problema non è riducibile a questi termini, il problema riguarda tutti quanti, ed è, come sempre, problema di coscienza individuale e collettiva. Una coscienza che non c'è, questo è evidente, ma che bisogna creare al più presto. Una coscienza che significa innanzitutto cominciare ad occuparsi in prima persona di quello che accade vicino a noi, che significa smettere di pensare solo al proprio orticello perché tanto al resto (a tutto il resto) ci pensa lo stato, e che significa soprattutto avere bene chiaro in testa che da un corretto rapporto uomo/ambiente dipende la sopravvivenza di noi tutti.
Già da tempo volevamo affrontare questo tema facendo parlare "esperti" dell'ambiente come Laura Conti, personaggio un po' "eretico" del PCI, pioniera dell'ecologia istituzionale, impegnata in prima fila da molti anni in tante battaglie ecologiche (tra cui la tragedia di Seveso), redattrice di "Nuova Ecologia".
Strapparle un appuntamento non è stato facile, sempre in giro com'è per l'Italia a tenere conferenze, dibattiti, incontri, insomma a fare "scuola di ecologia". Ma finalmente eccomi qui a suonare il campanello di una porta da cui filtra il rumore di un televisore acceso (mi spiegherà poi che il televisore le fa spesso compagnia, anche quando lavora). Sono un po' intimidita, malgrado l'abbia già incontrata alla libreria Utopia in occasione di conferenze pubbliche, ma la timidezza si scioglie di fronte al suo sorriso, alla serenità che emana e che si percepisce in modo quasi fisico.
La stanza in cui mi fa entrare mi mette definitivamente a mio agio perché gli elementi dominanti sono quelli che anch'io amo: libri e gatti. Libri ovunque, su tutte le pareti e sparsi per tutta la stanza, libri vivi, utilizzati e riutilizzati - è evidente - non pezzi morti d'arredamento, e carte, documenti, sommergono il suo tavolo di lavoro, attendono su una poltrona o in mucchi scomposti di fianco al divano. Gatti poi - mi dice che sono otto - neri, siamesi, tigrati, vanno e vengono, i più socievoli si avvicinano, mi annusano, riconoscono un'amica e a turno mi si piazzano sulle ginocchia ronronando.
Su un mucchio di carta a portata di divano occhieggia "L'ecologia della libertà" di Murray Bookchin. Non ha ancora avuto il tempo di leggerlo - mi dice - ma si ripromette di farlo al più presto, mentre ha letto a suo tempo "Post-Scarcity Anarchism" che ha trovato interessante seppure inficiato da un errore di fondo - su cui concordo pienamente - e cioè l'aver scambiato una particolare fase di congiuntura economica per una linea di tendenza.
La nostra chiacchierata è di fatto già cominciata e le domande che mi si affollano alla mente sono moltissime. Non so se il poco tempo che abbiamo a disposizione sarà sufficiente, ma comunque mi sembra importante chiederle innanzitutto di tracciare sinteticamente un quadro della situazione attuale dal punto di vista dell'ambiente, dell'energia e delle risorse alimentari, visto che le proporzioni raggiunte dal disastro ecologico sono tali da cominciare a preoccupare persino le istituzioni, cioè il potere, che ne è stato l'artefice.

Quando il degrado è irreversibile
"Più ci studio e più mi convinco che ha ragione Georgescu Roegen nel dire che non bisogna chiedersi quanti uomini questo pianeta può sostentare simultaneamente, ma quanti può sostentarne per quanti anni. Me ne convinco sempre di più perché più ci penso e più mi appare evidente che l'uomo produce all'ambiente modificazioni irreversibili. Finché le modificazioni sono anche grosse ma reversibili la cosa può funzionare per un tempo non dico illimitato ma quantomeno indefinito, mentre quando si tratta di modificazioni irreversibili è chiaro che la cosa è destinata a finire. Le modificazioni irreversibili sono molte ed ho l'impressione che non tutte siano state sufficientemente studiate dagli scienziati.
Un esempio di modificazione irreversibile è l'estinzione di una specie, un altro è la frantumazione dei minerali e la loro polverizzazione che è irreversibile e cumulativa; l'estrazione dei metalli dalle rocce metallifere si attua infatti attraverso il craking, cioè lo sminuzzamento della roccia, questo genera polvere e la velocità con cui la polvere si deposita è oggi inferiore alla velocità con cui la polvere si libera. Noi non abbiamo una tecnica per fissare la polvere al suolo. Ma anche se l'avessimo si produrrebbero altri inconvenienti. Ecco un caso di modificazione irreversibile a cui non si pensa mai.
Un'altra grande forma di degrado irreversibile è l'inquinamento termico e, stranamente, neppure di questo ci si è occupati a fondo. Senza soffermarmi sul problema dell'anidride carbonica, poiché non mi sembra dimostrato a sufficienza che la combustione di carbone e petrolio attraverso la formazione di anidride carbonica possa provocare dei disastri, vorrei analizzare un altro aspetto dell'inquinamento termico.
Ogni trasformazione energetica provoca un aumento di temperatura e quindi un aumento del calore disperso, ma le trasformazioni energetiche artificiali provocano una dispersione di calore maggiore delle trasformazioni energetiche biologiche. Un bosco riscalda sì l'ambiente, ma poco, in una stalla già il calore aumenta, ma il riscaldamento provocato dalle trasformazioni energetiche fatte dall'uomo è enormemente superiore, basti pensare quanto scalda una lampadina. Che fine fa questo calore? Viene affidato all'acqua e all'aria. L'acqua si riscalda, ma in un modo abbastanza lento e localmente, mentre la grande massa dell'acqua registra piccoli aumenti di temperatura che comunque fanno scappare via l'ossigeno dall'acqua modificando le condizioni di vita nell'acqua.
Si parla sempre dell'eutrofizzazione come risultato dei fosfati ecc. ed è vero, ma bisogna anche considerare che il Po e l'Adriatico sono molto riscaldati, perché in queste zone ci sono gli insediamenti delle centrali idroelettriche e gli insediamenti abitativi/industriali e quindi una causa si aggiunge all'altra. Poi il calore passa dall'acqua all'aria dove contribuisce a modificare la velocità della fotosintesi provocando un danno al sistema vivente seppure non grande. Continuiamo a chiederci: poi dove va? È una domanda che bisognerebbe sempre porsi per tutto.
Dall'aria il calore si irradia negli spazi, quindi il pianeta che è fatto di terra, di acqua e di aria perde calore negli spazi. Per fortuna, ma il problema è a quale velocità? Cioè la velocità di irradiazione negli spazi è più alta o più bassa della velocità di produzione di calore? Se è più alta va bene, vuol dire che sotto questo profilo - il che non significa che sotto altri profili sarebbe sconsigliabile - potremmo continuare ad aumentare le trasformazioni energetiche. Ma se fosse più bassa, allora vorrebbe dire che il pianeta va surriscaldandosi con effetti che non possono essere che disastrosi. La velocità con cui aumenta la dispersione di calore da processi artificiali va quindi esaminata in rapporto alla velocità di dispersione negli spazi.
Ma c'è una cosa da considerare e cioè che la velocità di produzione di calore residuo aumenta continuamente e non tanto perché nei paesi industrializzati il consumo energetico sia in aumento - anzi si sta stabilizzando o addirittura diminuendo poiché non c'è più crescita demografica, si costruisce molto meno, le grandi strutture (strade, ponti, ecc.) sono già state costruite e hanno solo bisogno di manutenzione (c'è solo l'Italia che continua a costruire strade che non servono!) - quanto perché le produzioni energivore vengono trasferite nel terzo mondo. E noi dobbiamo considerare il pianeta tutto intero.
Non mi risulta che sia stata studiata la velocità di irraggiamento del calore negli spazi, ma c'è il rischio di un surriscaldamento planetario. Non lo si sa, e quando non si sa una cosa bisognerebbe essere prudenti, mentre l'andazzo generale è di scommettere che il rischio non ci sia. Inoltre esistono già surriscaldamenti locali e siccome sono là dove vivono gli uomini il danno comincia già ad essere evidente. Per esempio un paese come l'Italia che non ha le grandi pianure degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e dell'Europa centrale, ha delle difficoltà a disperdere il calore residuo e lo si vede dal fatto che sta aumentando la nebbiosità in valli dove non c'era mai stata la nebbia. Dove ci sono valli industrializzate ristagna il calore e allora si hanno le nebbiosità che poi aggravano l'inquinamento perché impediscono la dispersione anche delle polveri, eccetera, eccetera.
Certo si può dire che questo fenomeno è reversibile: se un giorno decidessimo di spegnere tutti i fuochi, allora la velocità di irraggiamento verso gli spazi prevarrebbe e disinquinerebbe il pianeta raffreddandone la temperatura. Ma bisogna porsi due domande: si può pensare di spegnere tutti i fuochi? Prima che l'uomo decida di spegnere tutti i fuochi quali danni irreversibili questo inquinamento ha causato?".
Domande preoccupanti che gli uomini dovrebbero cominciare a porsi se non vogliono che la loro casa, cioè il pianeta, bruci del tutto. Domande che a me ne fanno venire in mente un'altra che da tempo mi pongo e a cui non so trovare risposte. C'è stato un tempo (e le società cosiddette "primitive" sono ancora lì a dimostrarlo) in cui gli uomini erano e si sentivano parte della natura tutta e il loro rapporto con essa era improntato a una profonda conoscenza e un profondo rispetto delle sue leggi. Poi, la scelta del dominio, dello sfruttamento della natura e quindi, come logica conseguenza, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Perché questa scelta "suicida", vista la spirale che ha innescato e che ha portato alle conseguenze che oggi tutti possono vedere?
"La causa iniziale è una caratteristica unica della specie umana, che nessuna altra specie possiede a parte, forse, in una certa misura gli scimpanzé, e cioè il senso della morte e la paura della morte. Vedi, questa gattina quando faceva i cuccioli universalizzava la sua maternità e considerava tutti cuccioli da proteggere, persino me. Ma se un gattino moriva, non gliene importava, lei proteggeva i cuccioli vivi. Per gli uomini non è così. Io mi ricordo spesso la poesia di Leopardi "Canto notturno del pastore errante dell'Asia" in cui mette a confronto la consapevolezza della morte che ha l'uomo con la inconsapevolezza che ne hanno gli altri esseri viventi, perché è da questa consapevolezza che è derivato tutto il guaio".
Debbo dire che questa spiegazione non mi convince. Penso ad esempio agli Irochesi o ad altri popoli "selvaggi" che avevano, certo, la consapevolezza della morte, ma questo non impediva loro di avere un rapporto con la natura di profonda armonia e una profonda coscienza del futuro tant'è vero che attuavano le loro scelte tenendo presente il benessere di sette generazioni successive. E qui si innesca una discussione su questo "ecologismo" delle popolazioni "primitive" americane. Laura sostiene che questo ecologismo, questa filosofia di vita che noi conosciamo è il frutto di un enorme disastro ecologico attuato precedentemente in modo sconsiderato da queste popolazioni, e cioè la distruzione di specie animali (il cavallo, ad esempio, come dimostrano i reperti zoologici, esisteva ed è scomparso per essere poi reintrodotto dai bianchi); un disastro che li avrebbe poi portati a riflettere e a sviluppare una concezione ecologica.
A me, invece, la deduzione non sembra così ovvia: che il cavallo ci sia stato e poi sia scomparso non significa necessariamente che sia stato distrutto dagli uomini, altri fattori (ad esempio atmosferici/termici) possono essere stati determinanti. Laura addirittura sostiene che le popolazioni del vecchio mondo (Europa, Africa, Asia) sono state più sagge ed "ecologiche" poiché attraverso la selezione delle specie e l'allevamento hanno attuato sì un'aggressione alla natura, ma più lenta, tant'è che, a suo avviso, alla grande crisi siano arrivati solo oggi. Mentre nel Nuovo Mondo la crisi è arrivata millenni fa, quando il disastro era irreparabile e in quest'ottica, secondo lei, va vista anche la vittoria dei bianchi sui nativi poiché i primi paradossalmente erano più ecologici dei secondi.
Ovviamente non sono d'accordo. Le informazioni che noi abbiamo su questi popoli risalgono ai primi contatti coi bianchi, quindi a poche centinaia di anni, ma sappiamo che a quell'epoca esisteva una profonda armonia uomo-natura e che quell'equilibrio fu distrutto proprio dai bianchi "civilizzatori". Piuttosto mi sembra di percepire una sorta di etnocentrismo per cui i popoli del vecchio mondo, che hanno compiuto i loro bravi passaggi dal paleolitico al neolitico, dalla caccia e raccolta all'allevamento, all'agricoltura e via dicendo hanno fatto la scelta giusta, mentre quelli che sono rimasti fermi al primo stadio (e qui bisognerebbe chiedersi: e se fosse stata una scelta precisa?) non potevano che soccombere, quasi che l'unica via di sviluppo possibile fosse il modello nostro.
Un fattore che da più parti viene indicato come determinante per il passaggio dal primo al secondo stadio è quello dell'aumento demografico e quindi la necessità di inventare nuove tecniche (allevamento, agricoltura, irrigazione, tecnologie nuove) per un fabbisogno alimentare sempre maggiore.
"La storia dell'umanità - dice Laura - può essere riassunta globalmente in questo modo: all'inizio gli uomini vivono come i lupi, cioè di caccia e pesca, con strumenti soltanto somatici geneticamente ereditati e finché vive così la società riesce a tenere l'equilibrio demografico; ma essa ha una caratteristica congenita che la fa tendere all'incremento demografico ed è il fatto che è geneticamente (non culturalmente) adattabile a diete diverse, mentre per altre specie animali è proprio la specializzazione a mantenere un equilibrio demografico tra predatori e predati.
Per la specie umana, invece, che può adattarsi a diete diverse, i meccanismi di feed-back non tengono più e per questo la sua tendenza alla crescita demografica è superiore a quella delle altre specie meno adattabili. Solo successivamente entra in gioco il fattore culturale che, inventando nuovi modi per soddisfare aumentati bisogni, contemporaneamente contribuisce ad aumentare la crescita demografica. La coltivazione della terra è la prima aggressione alla natura irreversibile. In alcuni paesi come il nuovo mondo l'aggressione alla natura è cominciata già col paleolitico, mentre nel vecchio mondo avviene solo col neolitico con l'avvento dell'agricoltura. Gli effetti sono evidenti: la desertificazione della Mesopotamia è il risultato del fatto che quella è stata la prima regione coltivata.
È sbagliato pensare che l'agricoltura tradizionale, "innocente", sia una forma di equilibrio tra società e natura. Non è vero, per nessun territorio, ad eccezione di alcune zone assolutamente privilegiate come ad esempio la Pianura Padana che non si è desertificata perché, oltre all'acqua delle montagne ha sempre potuto contare sulla pioggia e quindi il terreno non si è salinizzato (al contrario della Mesopotamia); certo noi riusciremo a desertificare anche la Pianura Padana, ma perché attraverso i nitriti artificiali inneschiamo un moltiplicatore di velocità.
Il passaggio all'agricoltura quindi è una aggressione alla natura spaventosa non solo nelle terre coltivate ma si estende indirettamente anche alle terre non coltivate, perché il passaggio dal cibo carneo al cibo amidaceo implica la necessità di passare dal crudo al cotto (e quindi la creazione della cultura intesa come trasmissione materiale coinciderebbe con l'agricoltura e col passaggio dal crudo al cotto): l'uomo mangia il cibo prodotto nel campo coltivato ma lo cuoce con la legna presa fuori dal campo coltivato e allora uccide la foresta, cioè l'agricoltura uccide il terreno coltivato e uccide anche il terreno non coltivato. È quello che è successo in Africa, dove noi bianchi abbiamo pigiato l'acceleratore, ma loro avevano già varcato la soglia del non-ritorno.
Le modificazioni irreversibili possono essere definite come modificazioni che inibiscono la libertà dei posteri, ma oggi noi potremmo astenerci dal modificare irreversibilmente il mondo? No. Il motivo è molto semplice e cioè che per vivere in equilibrio con la natura dovremmo vivere di caccia ma senza abusi di caccia, e per poter vivere in questo modo su tutto il pianeta dovremmo essere fra i 50 e i 100 milioni. Ora è pensabile che 5 miliardi di persone si riducano a 50 milioni? Non credo proprio. E allora dobbiamo coltivare la terra e coltivarla intensivamente. Si può quindi dire che la modificazione primaria irreversibile è stata la crescita demografica che ci ha tolto la libertà di non fare modificazioni irreversibili".
Certo Laura ha ragione sulle necessità oggettive della popolazione del pianeta, ma è anche vero che sul pianeta le risorse sono distribuite in modo orrendamente diseguale, che ci sono società dello spreco e società ai limiti della sopravvivenza. Non voglio certo sostenere un impossibile ritorno al passato, ma mi sembra evidente che molti dei consumi attuali siano assolutamente inutili e indotti e che vi si potrebbe rinunciare vivendo comunque bene. Né mi sembra che siano sufficienti leggi e decreti per arginare il disastro ecologico se non si riesce a cambiare la cultura, a portare la società a un livello di coscienza più alto.
"Certamente - dice Laura - sono perfettamente d'accordo, ed è quello che stiamo tentando di fare. E infatti 4 anni fa chi si sarebbe aspettato, ad esempio, che la FIOM avrebbe dato una netta maggioranza alla tesi antinucleare?".
Il tempo a disposizione sta per scadere ed io ho ancora tantissime cose da chiedere a Laura, ad esempio la sua posizione rispetto al nucleare e, in genere, alle tecnologie dure.
"Il grosso problema che mi fa dire no al nucleare è il ciclo del combustibile. Infatti questo combustibile che fine fa? Se non viene più utilizzato c'è il problema dell'eliminazione del plutonio, un problema che non è possibile risolvere scientificamente poiché la scienza si basa sulla sperimentazione e non si può fare un modello del tempo: se si vuole sapere se un contenitore può resistere 10.000 anni bisogna aspettare 10.000 anni. Qualcuno aggira l'ostacolo pensando di mettere i contenitori in formazioni geologiche protette, ma non tiene conto del fatto che in quello stesso momento quelle formazioni geologiche non sarebbero più protette perché sono state modificate dall'intervento umano. In realtà gli unici contenitori di cui sappiamo con certezza che resistono millenni sono quelli del paleolitico! È buffo, no, pensare che la cosa migliore che dovrebbero fare i nuclearisti sarebbe di tornare alla tecnica paleolitica della lavorazione della pietra?
Inoltre una nazione che faccia solo centrali a uranio con l'idea di seppellire il plutonio in luoghi di sicurezza è una astrazione, perché se una nazione si mettesse su quella strada la dovrebbe abbandonare subito in quanto l'uranio è una risorsa limitata. In realtà quindi, il retropensiero che guida queste scelte (anche di paesi come l'America) è che si possa riuscire a superare la limitazione dell'uranio grazie al reattore autofertilizzante in cui si mettono le scorie delle centrali a uranio e se ne ricava plutonio che si rigenera continuamente per un certo tempo producendo molta più energia di quella che produceva l'uranio. Ma il reattore a plutonio è di una pericolosità folle. I francesi, ad esempio, col Super Phoenix, hanno risolto sì i problemi tecnici per la produzione di una quantità enorme di energia, ma hanno trascurato completamente i problemi di sicurezza nel senso che il reattore a plutonio ha bisogno come liquido di raffreddamento non dell'acqua ma del sodio (ce ne sono 5.000 tonnellate nel Super Phoenix) e il sodio liquido è una sostanza che a contatto dell'acqua esplode e a contatto con l'aria si incendia.
Ora ci sono chilometri di tubi che contengono sodio liquido: se una valvola dovesse perdere nell'aria si incendierebbe e non si potrebbe usare l'acqua per spegnere l'incendio perché esploderebbe, se perdesse nell'acqua si verificherebbero esplosioni. Inoltre anche il reattore a plutonio ha delle scorie ad altissimo contenuto di plutonio e allora cosa se ne fanno? Lo usano per costruire bombe atomiche, e infatti la Francia ha dichiarato ufficialmente che il Super Phoenix, che produce energia per fini civili, è una struttura militare. La force de frappe francese si fonda sul Super Phoenix e l'Italia è impegnata nel Super Phoenix col 30% di capitali ed è impegnata a dare tutte le proprie scorie al super Phoenix; di conseguenza deve costruire centrali a uranio perché deve dare le scorie alla Francia che deve costruire bombe atomiche. Hai capito la follia? E siccome siamo indietro con la costruzione di centrali ad uranio e non riusciamo ad assolvere l'impegno sai cosa succede? Che compriamo scorie di plutonio dalla Svizzera! È una scatola cinese. Si fa accettare alla gente il reattore ad uranio raccontandole che altrimenti deve studiare a lume di candela, dentro il reattore a uranio c'è il Super Phoenix, dentro a questo ci sono le armi atomiche".
Sì, ma per quanto riguarda il soddisfacimento dei bisogni energetici quali sono le possibili soluzioni.
"Non abbiamo scelta, bisognerà comprimerli. Certo si possono sviluppare tecnologie alternative (solare, ecc.) ma non bisogna illudersi. Ora il problema è questo: comprimere i bisogni è possibile? In un certo senso la costrizione dei bisogni è un'altra modificazione irreversibile, non dell'ambiente ma dell'uomo. Quello che interessa non è sapere che si può fare qualcosa, quanto fino a che punto si può arrivare, e non è un punto molto in là. Ci sono due cose da dire. Una ti farà un enorme dispiacere: non si può aspirare all'eguaglianza perché sostenere che il tenore di vita di americani ed europei deve essere accessibile a tutti i popoli del mondo significa accelerare la fine della natura; l'unica cosa che realisticamente si può fare è ridurre un po' il livello dei primi ed aumentare un po' il livello dei paesi del terzo mondo.

Il ruolo dell'informatica
L'altra è una cosa in cui spero molto e cioè l'informatica. Intanto passare dall'archiviazione delle informazioni su carta all'archiviazione su filo magnetico significa una possibilità di salvare la foresta, quindi niente più libri, né giornali, ahimè, e i bambini impareranno non più rompendo libri e quaderni ma stando davanti allo schermo. Certo è una trasformazione che, se e quando avverrà, costerà molto dolore alle generazioni esistenti, ma mi sembra una trasformazione indispensabile. Inoltre l'informatica diminuirà i consumi energetici con molti meccanismi: ad esempio la circolazione delle informazioni non avrà più basi materiali (con una conseguente diminuzione di viaggi e spostamenti, quindi di energia); poi i calcoli informatici permetteranno una infinità di economie sull'uso dei materiali; poi l'informatica permetterà previsioni meteorologiche sempre più precise (già lo vediamo ora) per cui in futuro si potrà gestire molto più economicamente l'acqua per l'irrigazione e si potrà pianificarne l'uso; infine, poiché se si vuole salvare l'ambiente è indispensabile redistribuire la popolazione umana sul territorio, l'informatica renderà possibile questa redistribuzione eliminando l'isolamento di chi ad esempio vive in montagna o lontano dai luoghi abitati. Saranno quindi assicurati gli spettacoli, l'assistenza sanitaria (il pediatra potrà dare consigli a distanza, potrà guardare a distanza le tonsille del bambino, potrà dare a distanza le istruzioni per fare gli esami di laboratorio) e l'assistenza sociale (ad esempio si potrà far compagnia agli anziani parlando con loro a distanza).
Certo è necessaria una cultura diversa, molto più versatile, ma questa cultura la si può creare, se lo si vuole, ed è necessaria una scelta politica sociale per un simile utilizzo dell'informatica, altrimenti tutto si ridurrà al fatto che chi passerà il fine settimana nella sua casa di montagna avrà a disposizione più canali. Una scelta sociale come io auspico significherebbe riplasmare l'istruzione, crescere i ragazzi col concetto della versatilità: si deve saper riparare l'impianto elettrico o l'automobile (magari aiutati a distanza), saper far partorire la vacca, saper fare gli esami di laboratorio al bambino e tante altre cose".
Sui molti possibili e positivi utilizzi dell'informatica accennati da Laura non ho certo nulla da obiettare (a parte, s'intende, la scomparsa della carta stampata, ma è una obiezione del tutto sentimentale dettata da una lunga e recidiva malattia) e tantomeno ho da obiettare sul concetto di versatilità, che non è altro che una riproposizione di quella integrazione tra lavoro manuale e intellettuale che sosteniamo a spada tratta da sempre. Il pericolo che vedo è a monte e riguarda la gestione delle informazioni, cioè l'ambito decisionale, ma secondo Laura è un problema risolvibile, sempre che si faccia quella scelta sociale di cui si è già parlato.
Io continuo ad avere i miei dubbi, ma forse è giusto che sia così, visto che diversa è la nostra sensibilità al problema.
Non c'è più tempo per le tante altre domande, non c'è più tempo per approfondire quest'ultimo discorso sul potere. Lascio e ringrazio Laura con un'ultima occhiata a quella stanza piena di libri, di gatti, di idee e di un salutare disordine pensando, con una punta di tristezza, a quanto sarà diversa la stessa stanza nel futuro che lei stessa prospetta e mi precipito con sollievo in mezzo ai libri della libreria Utopia.