Rivista Anarchica Online
Quelle
modificazioni irreversibili
di Fausta Bizzozzero
Finché sono
anche grosse, ma reversibili, le modificazioni prodotte dall'uomo
nell'ecosistema non costituiscono una tragedia - sostiene Laura
Conti, ecologa comunista, in questa intervista. Ma quando si è in
presenza di modificazioni irreversibili (l'estinzione di una specie,
la frantumazione dei minerali, l'inquinamento termico, ecc.) allora è
tutto un altro discorso.
Casale insegna. O
meglio dovrebbe insegnare. Ma la cecità e l'imprevidenza umana sono
inimmaginabili per cui non è affatto detto che, dopo i primi momenti
di panico e di indignazione, tutto non torni come prima e non si
pensi più (è tanto comodo dimenticare, sempre) a quello che può
essere sepolto dietro casa, a quello che respiriamo, a quello che
mangiamo. Fino alla prossima Casale o ai prossimi casi di
avvelenamento. Come se questo territorio su cui viviamo fosse altra
cosa da noi e la vita nostra e dei nostri figli non vi fosse
indissolubilmente legata, come se il saccheggio e le mille violenze
di tutti i generi che quotidianamente la nostra civiltà del profitto
attua sulla terra non lasciassero segni, come se questa povera terra
fosse un bene inesauribile. Ora si assiste al
solito gioco delle recriminazioni, dello sdegno, del palleggiamento
delle responsabilità, delle accuse agli organi di stato che non
riescono (?) a tener dietro a tutti i farabutti disposti a qualunque
cosa pur di guadagnare qualche sporco soldo in più. Ma il problema
non è riducibile a questi termini, il problema riguarda tutti
quanti, ed è, come sempre, problema di coscienza individuale e
collettiva. Una coscienza che non c'è, questo è evidente, ma che
bisogna creare al più presto. Una coscienza che significa
innanzitutto cominciare ad occuparsi in prima persona di quello che
accade vicino a noi, che significa smettere di pensare solo al
proprio orticello perché tanto al resto (a tutto il resto) ci pensa
lo stato, e che significa soprattutto avere bene chiaro in testa che
da un corretto rapporto uomo/ambiente dipende la sopravvivenza di noi
tutti. Già da tempo
volevamo affrontare questo tema facendo parlare "esperti"
dell'ambiente come Laura Conti, personaggio un po' "eretico"
del PCI, pioniera dell'ecologia istituzionale, impegnata in prima
fila da molti anni in tante battaglie ecologiche (tra cui la tragedia
di Seveso), redattrice di "Nuova Ecologia". Strapparle un
appuntamento non è stato facile, sempre in giro com'è per l'Italia
a tenere conferenze, dibattiti, incontri, insomma a fare "scuola
di ecologia". Ma finalmente eccomi qui a suonare il campanello
di una porta da cui filtra il rumore di un televisore acceso (mi
spiegherà poi che il televisore le fa spesso compagnia, anche quando
lavora). Sono un po' intimidita, malgrado l'abbia già incontrata
alla libreria Utopia in occasione di conferenze pubbliche, ma la
timidezza si scioglie di fronte al suo sorriso, alla serenità che
emana e che si percepisce in modo quasi fisico. La stanza in cui mi
fa entrare mi mette definitivamente a mio agio perché gli elementi
dominanti sono quelli che anch'io amo: libri e gatti. Libri ovunque,
su tutte le pareti e sparsi per tutta la stanza, libri vivi,
utilizzati e riutilizzati - è evidente - non pezzi morti
d'arredamento, e carte, documenti, sommergono il suo tavolo di
lavoro, attendono su una poltrona o in mucchi scomposti di fianco al
divano. Gatti poi - mi dice che sono otto - neri, siamesi, tigrati,
vanno e vengono, i più socievoli si avvicinano, mi annusano,
riconoscono un'amica e a turno mi si piazzano sulle ginocchia
ronronando. Su un mucchio di
carta a portata di divano occhieggia "L'ecologia della libertà"
di Murray Bookchin. Non ha ancora avuto il tempo di leggerlo - mi
dice - ma si ripromette di farlo al più presto, mentre ha letto a
suo tempo "Post-Scarcity Anarchism" che ha trovato
interessante seppure inficiato da un errore di fondo - su cui
concordo pienamente - e cioè l'aver scambiato una particolare fase
di congiuntura economica per una linea di tendenza. La nostra
chiacchierata è di fatto già cominciata e le domande che mi si
affollano alla mente sono moltissime. Non so se il poco tempo che
abbiamo a disposizione sarà sufficiente, ma comunque mi sembra
importante chiederle innanzitutto di tracciare sinteticamente un
quadro della situazione attuale dal punto di vista dell'ambiente,
dell'energia e delle risorse alimentari, visto che le proporzioni
raggiunte dal disastro ecologico sono tali da cominciare a
preoccupare persino le istituzioni, cioè il potere, che ne è stato
l'artefice.
Quando il
degrado è irreversibile
"Più ci studio e
più mi convinco che ha ragione Georgescu Roegen nel dire che non
bisogna chiedersi quanti uomini questo pianeta può sostentare
simultaneamente, ma quanti può sostentarne per quanti anni. Me ne
convinco sempre di più perché più ci penso e più mi appare
evidente che l'uomo produce all'ambiente modificazioni irreversibili.
Finché le modificazioni sono anche grosse ma reversibili la cosa può
funzionare per un tempo non dico illimitato ma quantomeno indefinito,
mentre quando si tratta di modificazioni irreversibili è chiaro che
la cosa è destinata a finire. Le modificazioni irreversibili sono
molte ed ho l'impressione che non tutte siano state sufficientemente
studiate dagli scienziati. Un esempio di
modificazione irreversibile è l'estinzione di una specie, un altro è
la frantumazione dei minerali e la loro polverizzazione che è
irreversibile e cumulativa; l'estrazione dei metalli dalle rocce
metallifere si attua infatti attraverso il craking, cioè lo
sminuzzamento della roccia, questo genera polvere e la velocità con
cui la polvere si deposita è oggi inferiore alla velocità con cui
la polvere si libera. Noi non abbiamo una tecnica per fissare la
polvere al suolo. Ma anche se l'avessimo si produrrebbero altri
inconvenienti. Ecco un caso di modificazione irreversibile a cui non
si pensa mai. Un'altra grande
forma di degrado irreversibile è l'inquinamento termico e,
stranamente, neppure di questo ci si è occupati a fondo. Senza
soffermarmi sul problema dell'anidride carbonica, poiché non mi
sembra dimostrato a sufficienza che la combustione di carbone e
petrolio attraverso la formazione di anidride carbonica possa
provocare dei disastri, vorrei analizzare un altro aspetto
dell'inquinamento termico. Ogni trasformazione
energetica provoca un aumento di temperatura e quindi un aumento del
calore disperso, ma le trasformazioni energetiche artificiali
provocano una dispersione di calore maggiore delle trasformazioni
energetiche biologiche. Un bosco riscalda sì l'ambiente, ma poco, in
una stalla già il calore aumenta, ma il riscaldamento provocato
dalle trasformazioni energetiche fatte dall'uomo è enormemente
superiore, basti pensare quanto scalda una lampadina. Che fine fa
questo calore? Viene affidato all'acqua e all'aria. L'acqua si
riscalda, ma in un modo abbastanza lento e localmente, mentre la
grande massa dell'acqua registra piccoli aumenti di temperatura che
comunque fanno scappare via l'ossigeno dall'acqua modificando le
condizioni di vita nell'acqua. Si parla sempre
dell'eutrofizzazione come risultato dei fosfati ecc. ed è vero, ma
bisogna anche considerare che il Po e l'Adriatico sono molto
riscaldati, perché in queste zone ci sono gli insediamenti delle
centrali idroelettriche e gli insediamenti abitativi/industriali e
quindi una causa si aggiunge all'altra. Poi il calore passa
dall'acqua all'aria dove contribuisce a modificare la velocità della
fotosintesi provocando un danno al sistema vivente seppure non
grande. Continuiamo a chiederci: poi dove va? È
una domanda che bisognerebbe sempre porsi per tutto. Dall'aria il calore
si irradia negli spazi, quindi il pianeta che è fatto di terra, di
acqua e di aria perde calore negli spazi. Per fortuna, ma il problema
è a quale velocità? Cioè la velocità di irradiazione negli spazi
è più alta o più bassa della velocità di produzione di calore? Se
è più alta va bene, vuol dire che sotto questo profilo - il che non
significa che sotto altri profili sarebbe sconsigliabile - potremmo
continuare ad aumentare le trasformazioni energetiche. Ma se fosse
più bassa, allora vorrebbe dire che il pianeta va surriscaldandosi
con effetti che non possono essere che disastrosi. La velocità con
cui aumenta la dispersione di calore da processi artificiali va
quindi esaminata in rapporto alla velocità di dispersione negli
spazi. Ma c'è una cosa da
considerare e cioè che la velocità di produzione di calore residuo
aumenta continuamente e non tanto perché nei paesi industrializzati
il consumo energetico sia in aumento - anzi si sta stabilizzando o
addirittura diminuendo poiché non c'è più crescita demografica, si
costruisce molto meno, le grandi strutture (strade, ponti, ecc.) sono
già state costruite e hanno solo bisogno di manutenzione (c'è solo
l'Italia che continua a costruire strade che non servono!) - quanto
perché le produzioni energivore vengono trasferite nel terzo mondo.
E noi dobbiamo considerare il pianeta tutto intero. Non mi risulta che
sia stata studiata la velocità di irraggiamento del calore negli
spazi, ma c'è il rischio di un surriscaldamento planetario. Non lo
si sa, e quando non si sa una cosa bisognerebbe essere prudenti,
mentre l'andazzo generale è di scommettere che il rischio non ci
sia. Inoltre esistono già surriscaldamenti locali e siccome sono là
dove vivono gli uomini il danno comincia già ad essere evidente. Per
esempio un paese come l'Italia che non ha le grandi pianure degli
Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e dell'Europa centrale, ha delle
difficoltà a disperdere il calore residuo e lo si vede dal fatto che
sta aumentando la nebbiosità in valli dove non c'era mai stata la
nebbia. Dove ci sono valli industrializzate ristagna il calore e
allora si hanno le nebbiosità che poi aggravano l'inquinamento
perché impediscono la dispersione anche delle polveri, eccetera,
eccetera. Certo si può dire
che questo fenomeno è reversibile: se un giorno decidessimo di
spegnere tutti i fuochi, allora la velocità di irraggiamento verso
gli spazi prevarrebbe e disinquinerebbe il pianeta raffreddandone la
temperatura. Ma bisogna porsi due domande: si può pensare di
spegnere tutti i fuochi? Prima che l'uomo decida di spegnere tutti i
fuochi quali danni irreversibili questo inquinamento ha causato?". Domande
preoccupanti che gli uomini dovrebbero cominciare a porsi se non
vogliono che la loro casa, cioè il pianeta, bruci del tutto. Domande
che a me ne fanno venire in mente un'altra che da tempo mi pongo e a
cui non so trovare risposte. C'è stato un tempo (e le società
cosiddette "primitive" sono ancora lì a dimostrarlo) in
cui gli uomini erano e si sentivano parte della natura tutta e il
loro rapporto con essa era improntato a una profonda conoscenza e un
profondo rispetto delle sue leggi. Poi, la scelta del dominio, dello
sfruttamento della natura e quindi, come logica conseguenza, dello
sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Perché questa scelta "suicida",
vista la spirale che ha innescato e che ha portato alle conseguenze
che oggi tutti possono vedere? "La causa
iniziale è una caratteristica unica della specie umana, che nessuna
altra specie possiede a parte, forse, in una certa misura gli
scimpanzé, e cioè il senso della morte e la paura della morte.
Vedi, questa gattina quando faceva i cuccioli universalizzava la sua
maternità e considerava tutti cuccioli da proteggere, persino me. Ma
se un gattino moriva, non gliene importava, lei proteggeva i cuccioli
vivi. Per gli uomini non è così. Io mi ricordo spesso la poesia di
Leopardi "Canto notturno del pastore errante dell'Asia" in
cui mette a confronto la consapevolezza della morte che ha l'uomo con
la inconsapevolezza che ne hanno gli altri esseri viventi, perché è
da questa consapevolezza che è derivato tutto il guaio". Debbo dire che
questa spiegazione non mi convince. Penso ad esempio agli Irochesi o
ad altri popoli "selvaggi" che avevano, certo, la
consapevolezza della morte, ma questo non impediva loro di avere un
rapporto con la natura di profonda armonia e una profonda coscienza
del futuro tant'è vero che attuavano le loro scelte tenendo presente
il benessere di sette generazioni successive. E qui si innesca una
discussione su questo "ecologismo" delle popolazioni
"primitive" americane. Laura sostiene che questo
ecologismo, questa filosofia di vita che noi conosciamo è il frutto
di un enorme disastro ecologico attuato precedentemente in modo
sconsiderato da queste popolazioni, e cioè la distruzione di specie
animali (il cavallo, ad esempio, come dimostrano i reperti zoologici,
esisteva ed è scomparso per essere poi reintrodotto dai bianchi); un
disastro che li avrebbe poi portati a riflettere e a sviluppare una
concezione ecologica. A me, invece, la
deduzione non sembra così ovvia: che il cavallo ci sia stato e poi
sia scomparso non significa necessariamente che sia stato distrutto
dagli uomini, altri fattori (ad esempio atmosferici/termici) possono
essere stati determinanti. Laura addirittura sostiene che le
popolazioni del vecchio mondo (Europa, Africa, Asia) sono state più
sagge ed "ecologiche" poiché attraverso la selezione delle
specie e l'allevamento hanno attuato sì un'aggressione alla natura,
ma più lenta, tant'è che, a suo avviso, alla grande crisi siano
arrivati solo oggi. Mentre nel Nuovo Mondo la crisi è arrivata
millenni fa, quando il disastro era irreparabile e in quest'ottica,
secondo lei, va vista anche la vittoria dei bianchi sui nativi poiché
i primi paradossalmente erano più ecologici dei secondi. Ovviamente non sono
d'accordo. Le informazioni che noi abbiamo su questi popoli risalgono
ai primi contatti coi bianchi, quindi a poche centinaia di anni, ma
sappiamo che a quell'epoca esisteva una profonda armonia uomo-natura
e che quell'equilibrio fu distrutto proprio dai bianchi
"civilizzatori". Piuttosto mi sembra di percepire una sorta di
etnocentrismo per cui i popoli del vecchio mondo, che hanno compiuto
i loro bravi passaggi dal paleolitico al neolitico, dalla caccia e
raccolta all'allevamento, all'agricoltura e via dicendo hanno fatto
la scelta giusta, mentre quelli che sono rimasti fermi al primo
stadio (e qui bisognerebbe chiedersi: e se fosse stata una scelta
precisa?) non potevano che soccombere, quasi che l'unica via di
sviluppo possibile fosse il modello nostro. Un fattore che da
più parti viene indicato come determinante per il passaggio dal
primo al secondo stadio è quello dell'aumento demografico e quindi
la necessità di inventare nuove tecniche (allevamento, agricoltura,
irrigazione, tecnologie nuove) per un fabbisogno alimentare sempre
maggiore. "La storia
dell'umanità - dice Laura - può essere riassunta globalmente in
questo modo: all'inizio gli uomini vivono come i lupi, cioè di
caccia e pesca, con strumenti soltanto somatici geneticamente
ereditati e finché vive così la società riesce a tenere
l'equilibrio demografico; ma essa ha una caratteristica congenita che
la fa tendere all'incremento demografico ed è il fatto che è
geneticamente (non culturalmente) adattabile a diete diverse, mentre
per altre specie animali è proprio la specializzazione a mantenere
un equilibrio demografico tra predatori e predati. Per la specie
umana, invece, che può adattarsi a diete diverse, i meccanismi di
feed-back non tengono più e per questo la sua tendenza alla crescita
demografica è superiore a quella delle altre specie meno adattabili.
Solo successivamente entra in gioco il fattore culturale che,
inventando nuovi modi per soddisfare aumentati bisogni,
contemporaneamente contribuisce ad aumentare la crescita demografica.
La coltivazione della terra è la prima aggressione alla natura
irreversibile. In alcuni paesi come il nuovo mondo l'aggressione alla
natura è cominciata già col paleolitico, mentre nel vecchio mondo
avviene solo col neolitico con l'avvento dell'agricoltura. Gli
effetti sono evidenti: la desertificazione della Mesopotamia è il
risultato del fatto che quella è stata la prima regione coltivata. È
sbagliato pensare che l'agricoltura tradizionale, "innocente",
sia una forma di equilibrio tra società e natura. Non è vero, per
nessun territorio, ad eccezione di alcune zone assolutamente
privilegiate come ad esempio la Pianura Padana che non si è
desertificata perché, oltre all'acqua delle montagne ha sempre
potuto contare sulla pioggia e quindi il terreno non si è
salinizzato (al contrario della Mesopotamia); certo noi riusciremo a
desertificare anche la Pianura Padana, ma perché attraverso i
nitriti artificiali inneschiamo un moltiplicatore di velocità. Il passaggio
all'agricoltura quindi è una aggressione alla natura spaventosa non
solo nelle terre coltivate ma si estende indirettamente anche alle
terre non coltivate, perché il passaggio dal cibo carneo al cibo
amidaceo implica la necessità di passare dal crudo al cotto (e
quindi la creazione della cultura intesa come trasmissione materiale
coinciderebbe con l'agricoltura e col passaggio dal crudo al cotto):
l'uomo mangia il cibo prodotto nel campo coltivato ma lo cuoce con la
legna presa fuori dal campo coltivato e allora uccide la foresta,
cioè l'agricoltura uccide il terreno coltivato e uccide anche il
terreno non coltivato. È quello che è successo in Africa, dove noi
bianchi abbiamo pigiato l'acceleratore, ma loro avevano già varcato
la soglia del non-ritorno. Le modificazioni
irreversibili possono essere definite come modificazioni che
inibiscono la libertà dei posteri, ma oggi noi potremmo astenerci
dal modificare irreversibilmente il mondo? No. Il motivo è molto
semplice e cioè che per vivere in equilibrio con la natura dovremmo
vivere di caccia ma senza abusi di caccia, e per poter vivere in
questo modo su tutto il pianeta dovremmo essere fra i 50 e i 100
milioni. Ora è pensabile che 5 miliardi di persone si riducano a 50
milioni? Non credo proprio. E allora dobbiamo coltivare la terra e
coltivarla intensivamente. Si può quindi dire che la modificazione
primaria irreversibile è stata la crescita demografica che ci ha
tolto la libertà di non fare modificazioni irreversibili". Certo Laura ha
ragione sulle necessità oggettive della popolazione del pianeta, ma
è anche vero che sul pianeta le risorse sono distribuite in modo
orrendamente diseguale, che ci sono società dello spreco e società
ai limiti della sopravvivenza. Non voglio certo sostenere un
impossibile ritorno al passato, ma mi sembra evidente che molti dei
consumi attuali siano assolutamente inutili e indotti e che vi si
potrebbe rinunciare vivendo comunque bene. Né mi sembra che siano
sufficienti leggi e decreti per arginare il disastro ecologico se non
si riesce a cambiare la cultura, a portare la società a un livello
di coscienza più alto. "Certamente -
dice Laura - sono perfettamente d'accordo, ed è quello che stiamo
tentando di fare. E infatti 4 anni fa chi si sarebbe aspettato, ad
esempio, che la FIOM avrebbe dato una netta maggioranza alla tesi
antinucleare?". Il tempo a
disposizione sta per scadere ed io ho ancora tantissime cose da
chiedere a Laura, ad esempio la sua posizione rispetto al nucleare e,
in genere, alle tecnologie dure. "Il grosso
problema che mi fa dire no al nucleare è il ciclo del combustibile.
Infatti questo combustibile che fine fa? Se non viene più utilizzato
c'è il problema dell'eliminazione del plutonio, un problema che non
è possibile risolvere scientificamente poiché la scienza si basa
sulla sperimentazione e non si può fare un modello del tempo: se si
vuole sapere se un contenitore può resistere 10.000 anni bisogna
aspettare 10.000 anni. Qualcuno aggira l'ostacolo pensando di mettere
i contenitori in formazioni geologiche protette, ma non tiene conto
del fatto che in quello stesso momento quelle formazioni geologiche
non sarebbero più protette perché sono state modificate
dall'intervento umano. In realtà gli unici contenitori di cui
sappiamo con certezza che resistono millenni sono quelli del
paleolitico! È buffo, no, pensare che la cosa migliore che
dovrebbero fare i nuclearisti sarebbe di tornare alla tecnica
paleolitica della lavorazione della pietra? Inoltre una nazione
che faccia solo centrali a uranio con l'idea di seppellire il
plutonio in luoghi di sicurezza è una astrazione, perché se una
nazione si mettesse su quella strada la dovrebbe abbandonare subito
in quanto l'uranio è una risorsa limitata. In realtà quindi, il
retropensiero che guida queste scelte (anche di paesi come l'America)
è che si possa riuscire a superare la limitazione dell'uranio grazie
al reattore autofertilizzante in cui si mettono le scorie delle
centrali a uranio e se ne ricava plutonio che si rigenera
continuamente per un certo tempo producendo molta più energia di
quella che produceva l'uranio. Ma il reattore a plutonio è di una
pericolosità folle. I francesi, ad esempio, col Super Phoenix, hanno
risolto sì i problemi tecnici per la produzione di una quantità
enorme di energia, ma hanno trascurato completamente i problemi di
sicurezza nel senso che il reattore a plutonio ha bisogno come
liquido di raffreddamento non dell'acqua ma del sodio (ce ne sono
5.000 tonnellate nel Super Phoenix) e il sodio liquido è una
sostanza che a contatto dell'acqua esplode e a contatto con l'aria si
incendia. Ora ci sono
chilometri di tubi che contengono sodio liquido: se una valvola
dovesse perdere nell'aria si incendierebbe e non si potrebbe usare
l'acqua per spegnere l'incendio perché esploderebbe, se perdesse
nell'acqua si verificherebbero esplosioni. Inoltre anche il reattore
a plutonio ha delle scorie ad altissimo contenuto di plutonio e
allora cosa se ne fanno? Lo usano per costruire bombe atomiche, e
infatti la Francia ha dichiarato ufficialmente che il Super Phoenix,
che produce energia per fini civili, è una struttura militare. La
force de frappe francese si fonda sul Super Phoenix e l'Italia
è impegnata nel Super Phoenix col 30% di capitali ed è impegnata a
dare tutte le proprie scorie al super Phoenix; di conseguenza deve
costruire centrali a uranio perché deve dare le scorie alla Francia
che deve costruire bombe atomiche. Hai capito la follia? E siccome
siamo indietro con la costruzione di centrali ad uranio e non
riusciamo ad assolvere l'impegno sai cosa succede? Che compriamo
scorie di plutonio dalla Svizzera! È una scatola cinese. Si fa
accettare alla gente il reattore ad uranio raccontandole che
altrimenti deve studiare a lume di candela, dentro il reattore a
uranio c'è il Super Phoenix, dentro a questo ci sono le armi
atomiche". Sì, ma per quanto
riguarda il soddisfacimento dei bisogni energetici quali sono le
possibili soluzioni. "Non abbiamo
scelta, bisognerà comprimerli. Certo si possono sviluppare
tecnologie alternative (solare, ecc.) ma non bisogna illudersi. Ora
il problema è questo: comprimere i bisogni è possibile? In un certo
senso la costrizione dei bisogni è un'altra modificazione
irreversibile, non dell'ambiente ma dell'uomo. Quello che interessa
non è sapere che si può fare qualcosa, quanto fino a che punto si
può arrivare, e non è un punto molto in là. Ci sono due cose da
dire. Una ti farà un enorme dispiacere: non si può aspirare
all'eguaglianza perché sostenere che il tenore di vita di americani
ed europei deve essere accessibile a tutti i popoli del mondo
significa accelerare la fine della natura; l'unica cosa che
realisticamente si può fare è ridurre un po' il livello dei primi
ed aumentare un po' il livello dei paesi del terzo mondo.
Il ruolo
dell'informatica
L'altra è una cosa
in cui spero molto e cioè l'informatica. Intanto passare
dall'archiviazione delle informazioni su carta all'archiviazione su
filo magnetico significa una possibilità di salvare la foresta,
quindi niente più libri, né giornali, ahimè, e i bambini
impareranno non più rompendo libri e quaderni ma stando davanti allo
schermo. Certo è una trasformazione che, se e quando avverrà,
costerà molto dolore alle generazioni esistenti, ma mi sembra una
trasformazione indispensabile. Inoltre l'informatica diminuirà i
consumi energetici con molti meccanismi: ad esempio la circolazione
delle informazioni non avrà più basi materiali (con una conseguente
diminuzione di viaggi e spostamenti, quindi di energia); poi i
calcoli informatici permetteranno una infinità di economie sull'uso
dei materiali; poi l'informatica permetterà previsioni
meteorologiche sempre più precise (già lo vediamo ora) per cui in
futuro si potrà gestire molto più economicamente l'acqua per
l'irrigazione e si potrà pianificarne l'uso; infine, poiché se si
vuole salvare l'ambiente è indispensabile redistribuire la
popolazione umana sul territorio, l'informatica renderà possibile
questa redistribuzione eliminando l'isolamento di chi ad esempio vive
in montagna o lontano dai luoghi abitati. Saranno quindi assicurati
gli spettacoli, l'assistenza sanitaria (il pediatra potrà dare
consigli a distanza, potrà guardare a distanza le tonsille del
bambino, potrà dare a distanza le istruzioni per fare gli esami di
laboratorio) e l'assistenza sociale (ad esempio si potrà far
compagnia agli anziani parlando con loro a distanza). Certo è necessaria
una cultura diversa, molto più versatile, ma questa cultura la si
può creare, se lo si vuole, ed è necessaria una scelta politica
sociale per un simile utilizzo dell'informatica, altrimenti tutto si
ridurrà al fatto che chi passerà il fine settimana nella sua casa
di montagna avrà a disposizione più canali. Una scelta sociale come
io auspico significherebbe riplasmare l'istruzione, crescere i
ragazzi col concetto della versatilità: si deve saper riparare
l'impianto elettrico o l'automobile (magari aiutati a distanza),
saper far partorire la vacca, saper fare gli esami di laboratorio al
bambino e tante altre cose". Sui molti possibili
e positivi utilizzi dell'informatica accennati da Laura non ho certo
nulla da obiettare (a parte, s'intende, la scomparsa della carta
stampata, ma è una obiezione del tutto sentimentale dettata da una
lunga e recidiva malattia) e tantomeno ho da obiettare sul concetto
di versatilità, che non è altro che una riproposizione di quella
integrazione tra lavoro manuale e intellettuale che sosteniamo a
spada tratta da sempre. Il pericolo che vedo è a monte e riguarda la
gestione delle informazioni, cioè l'ambito decisionale, ma secondo
Laura è un problema risolvibile, sempre che si faccia quella scelta
sociale di cui si è già parlato. Io continuo ad
avere i miei dubbi, ma forse è giusto che sia così, visto che
diversa è la nostra sensibilità al problema. Non c'è più tempo
per le tante altre domande, non c'è più tempo per approfondire
quest'ultimo discorso sul potere. Lascio e ringrazio Laura con
un'ultima occhiata a quella stanza piena di libri, di gatti, di idee
e di un salutare disordine pensando, con una punta di tristezza, a
quanto sarà diversa la stessa stanza nel futuro che lei stessa
prospetta e mi precipito con sollievo in mezzo ai libri della
libreria Utopia.
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