Rivista Anarchica Online
Alta sul pennone
di Carlo Oliva
Con un decreto
magistralmente quanto involontariamente umoristico Craxi ha
regolamentato l'uso della bandiera italiana. Si tratta di una perla
del decisionismo. Leggere per credere.
Forse non a tutti i
nostri lettori è noto che l'ottimo Bettino Craxi, poco prima
d'essere costretto, da proditorio agguato parlamentare, a dare le
dimissioni, ha affrontato da par suo un grave problema,
inspiegabilmente trascurato dai predecessori. Di fatto, sul numero
128 della Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana, è apparso il
testo del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 3
giugno ultimo scorso, recante "disposizioni per l'uso della
bandiera della Repubblica da parte delle amministrazioni dello Stato
e degli enti pubblici". Di disposizioni del
genere si sentiva davvero la mancanza. Si prescrive, infatti, che
"l'esposizione della bandiera all'esterno degli edifici pubblici
ha luogo nei casi previsti dalla legge e, previa espressa
disposizione od autorizzazione del Presidente del Consiglio dei
Ministri, in occasione di avvenimenti che rivestano particolare
importanza e solennità" (era ora: basta con tutti questi
sbandieramenti non autorizzati, o peggio per avvenimenti né
importanti né solenni); si assicura che "l'esposizione... ha
luogo dalle ore 8 al tramonto" e che, se esposta dopo il
tramonto essa "deve essere adeguatamente illuminata" (ed ecco
vanificate le losche trame di chi s'ostinava a esporre il tricolore
al buio!); si precisa che "la bandiera non può essere usata per
alcun tipo di drappo o festone" (evviva!), anche se, per
drappeggiare palchi e simili, "possono utilizzarsi nastri verdi,
bianchi e rossi... collocati l'uno a fianco dell'altro a partire dal
verde"; si fa notare che "la bandiera non dev'essere
esposta in cattivo stato d'uso", checché ne dicano i proverbi
sulle bandiere rotte e l'onore dei capitani, e via prescrivendo.
Norme minuziose regolano il sistema di precedenza tra più bandiere,
i tempi e i modi d'innalzamento e ammainamento, l'uso degli stendardi
per esprimere lutto ("devono", percettivamente, "essere
tenuti a mezz'asta" e vi si possono, facoltativamente, adattare
"all'estremità superiore dell'inferitura due strisce di velo
nero", che sono peraltro obbligatorie "nelle pubbliche
cerimonie funebri"). Tutti sappiamo che
la logica del decisionismo è quella di rendere obbligatorio ciò che
non è espressamente vietato, e non ci preoccupiamo più di tanto di
questo strano documento. Qualcuno potrebbe chiedersi se il Presidente
del consiglio non avesse, all'epoca, altro da fare, ma sarebbe una
domanda capziosa: siamo in fase di recupero del patriottismo, il
tricolore "tira" e, oltretutto, erano in pieno svolgimento
i campionati mondiali di calcio, e bisognava fare in modo che
prefetti, questori e sindaci imprevidenti non s'abbandonassero, in
caso di vittoria degli azzurri, a inconsulti sbandieramenti. La
vittoria non c'è stata, ma Craxi non poteva saperlo. Più preoccupante è
l'articolo 2 del decreto. Al comma 2 avverte perentoriamente che la
bandiera "viene altresì esposta" all'esterno dei seggi
elettorali durante le consultazioni; all'esterno della sede del
Governo allorché il Consiglio dei Ministri è riunito; all'esterno
delle sedi dei consigli regionali, provinciali e comunali durante le
riunioni, all'esterno degli edifici giudiziari nel giorno
d'inaugurazione dell'anno giudiziario e persino "all'esterno
degli edifici scolastici durante le ore di lezione, in occasione
dell'inizio e della fine dell'anno scolastico e accademico". Se si pensa a
quanti sono i seggi elettorali, i palazzi comunali, provinciali e
regionali, gli edifici giudiziari e quelli scolastici, non è
difficile prevedere un'inondazione di drappi tricolori, con non poco
giovamento di quanti alla produzione di tali manufatti si dedicano.
In effetti, verrebbe spontaneo di raccomandare ai risparmiatori di
non cedere al fascino della borsa in rialzo o a quello dei fondi
comuni, ma d'investire seduta stante i sudati risparmi in una
fabbrica di bandiere. Calcolando un costo medio di Lit. 140.000 a
stendardo (riferendoci all'articolo solitamente fornito agli enti
pubblici: ci siamo informati), più spese d'imballo e spedizione e
l'IVA, il giro d'affari indotto dal decreto del 3 giugno dev'essere
piuttosto imponente. Ma non saremo certo così volgari da supporre
che a questo giro d'affari siano interessanti i nostri governanti o
che essi abbiano voluto in qualche modo promuoverlo. Il fatto è che la
bandiera è un simbolo. Un simbolo che può anche essere simpatico e
a cui è lecito essere affezionati (il tricolore italiano ha
un'origine democratica e "rivoluzionaria" sulla quale è bene
meditare ogni tanto), ma che può avere tante valenze. Esposto in
sedi di dibattito e discussione politica può essere accettabile
richiamo al principio dell'interesse comune (sempre ammesso che
l'interesse comune sia "un principio", o non piuttosto
"un'ideologia") o può essere visto o sentito come un richiamo
alle direttive di chi tale interesse momentaneamente incarna. La
bandiera, non per niente, ha un ampio uso in ambito militare, e che
qualcuno possa lasciarsi tentare dall'idea di trasferire nelle
istituzioni civili questa valenza specifica non è ipotesi
particolarmente peregrina. Lungi, naturalmente, ogni intenzione
d'insinuare che sia questa la logica del decreto in questione, ma il
futuro è sulle ginocchia degli dei, nevvero? Oggi certe
polemiche, un tempo tanto aspre, non hanno più corso. Il tricolore
può convivere, nell'immaginario di tutti, con altri simboli, con cui
fu un tempo in feroce contrasto: può affiancarsi (idealmente, che se
no si violerebbe il decreto) alla bandiera rossa e persino a quella
rossa e nera. Del resto, proprio perché di natura essenzialmente
simbolica, ogni bandiera ha il valore che gli deriva dalla sua storia
e - soprattutto - dalle circostanze in cui è impiegata. Ma che
queste circostanze siano regolate per Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri... ecco, non ci sembra il migliore degli
auspici.
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