Rivista Anarchica Online
Dimenticare
Chernobyl
di Nino Siclari
Nanocurie, iodio
131, soglia d'attenzione, stronzio 137, ecc.: non se ne parla più. Per i mass-media
il gioco è fatto. Lo spettacolo è finito. Ma la realtà è ben
diversa. E coinvolge, con le scelte energetiche, l'intero modello di
sviluppo
Forse un giorno si
potrà dire che l'anno 1986 ha rappresentato il punto trigonometrico
di riferimento nella questione dell'impatto ambientale e delle scelte
sociali e produttive che lo provocano. Metanolo,
radioattività, atrazina, diossina. Riguardo a quest'ultima, il
decimo anniversario del disastro Seveso, che ricorre quest'anno,
richiama all'attenzione di tutti non solo come si possa
distruttivamente inquinare un territorio, ma anche come si possa non
bonificarlo ed omettere strumentalmente di studiare le conseguenze
sulla salute delle popolazioni esposte a quell'inquinamento. Si può dire che
Seveso, oltre che laboratorio di fallite sperimentazioni chimiche e
biologiche, sia stato un fruttuoso campo di sperimentazione sociale
da parte del potere. La tesi, purtroppo
dimostrata da questa esperienza, è che il mezzo più efficace per
minimizzare un evento e farne dimenticare le conseguenze consiste
nella disinformazione delle popolazioni soggette a rischio. Questo
percorso viene poi facilitato dall'istintivo rifiuto del pericolo,
che porta alla rimozione psicologica da parte della gente. In questa
emblematica operazione esiste un vero e proprio movente, e non va
cercato lontano. È lo stesso presidente della Regione Lombardia
Guzzetti che ce lo spiega: "...L'intervento a Seveso, pur
esponendo la Regione Lombardia, faceva emergere che la
Amministrazione era capace di misurarsi con questo problema e di
legittimarsi in una realtà fortemente industrializzata come la
Lombardia". È questa necessità di autolegittimazione che
porta, in una grave situazione di inefficienza, a disinformare per
poi garantirsi il controllo sociale. Seveso quindi ci propone con
molta attualità questo modello, mentre ci troviamo di fronte al
"giorno dopo" di un evento senza precedenti: il disastro
nucleare di Chernobyl.
Dove sono finiti
i nanocurie?
Al di là dei gravi
danni causati in Ucraina e dintorni, per quanto riguarda l'Europa e
l'Italia sembra quasi non sia successo nulla. Sembra quasi che il
fantasma Iodio 131 abbia portato via con sé tutti quegli altri
strani nomi che avevano disturbato per un mese i nostri sonni. Uno
degli effetti della rimozione psicologica di cui si parlava prima
consiste nel non chiedersi quale sia lo stato dell'inquinamento
radioattivo a tre mesi di distanza. Non si parla più
di nanocurie sui vegetali, non si sa nemmeno se vi siano dei valori
di radioattività al di sotto della tanto decantata quanto
ascientifica "soglia di attenzione". Soltanto un effetto
meccanico di diluizione nell'ambiente potrebbe garantire che elementi
radioattivi come il Cesio 137 e lo Stronzio 90, con tempi di
dimezzamento di trent'anni, perdano gradualmente la loro capacità
dannosa attualmente dovuta alle loro concentrazioni. Questo fenomeno
di diluizione può essere valutato molto difficilmente e dipende da
molti fattori. Non rimane quindi che seguire perlomeno il cammino
temporale del dissolvimento di questi radioisotopi, effettuando
severi controlli della catena alimentare e delle acque. Ma il dibattito sul
dopo si focalizza sulla questione della sicurezza delle macchine che
potenzialmente possono produrre situazioni critiche come quella dei
mesi scorsi. Altri "effetti Chernobyl" si sono aggiunti alle
reticenze passate e presenti dei governi europei interessati a grossi
piani nucleari nazionali. In primo luogo si è
creato un comprensibile interesse della gente per la questione
nucleare in generale, cosa che ha innalzato il livello di attenzione
e mobilitato i meccanismi informativi, provocando l'errata
impressione che gli incidenti nucleari si verifichino oggi con una
frequenza senza precedenti, mentre ciò è dovuto al fatto che prima
di Chernobyl l'informazione o era scarsa o veniva sapientemente
pilotata. Si è inoltre
evidenziato un clima di ripensamento politico sul tema sia da parte
dei partiti a vari livelli sia da parte dei sindacati. Ciò ha
generato in alcuni casi posizioni del tutto nuove con effetti di
rilievo, come ad esempio il recente blocco del reattore sperimentale
PEC (prova elementi di combustibile) adottato dalle Regioni Toscana
ed Emilia Romagna. In modo molto
evidente si è poi creata nel mondo scientifico una vera e propria
spaccatura che vede due modi radicalmente diversi di intendere
l'accettabilità del rischio. Questa diversa visione
dell'affidabilità del nucleare è causata da una nuova valutazione
della dimensione sociale di un evento catastrofico.
Invertire la
rotta
Oggi chiunque si
rende conto che rischi come quello del fumo, degli incidenti
stradali, delle attività umane correnti, per quanto giustamente
discussi e contrastati, fanno parte di un concetto di rischio
distinto da quello catastrofico . La risposta della società di
fronte ad un disastro di dimensioni concentrate in un breve periodo,
è molto diversa da quella che si ha di fronte a rischi usuali spesso
inconsapevolmente "accettati". Da ciò deriva il
fatto che il rischio catastrofico non può essere "accettato"
nemmeno in cambio di un cosiddetto "benessere sociale".
Nell'82 il Prof. Polvani dell'ENEA (ex-CNEN) scriveva: "La
valutazione fortemente negativa della prospettiva di un evento
rarissimo con conseguenze estremamente gravi non può essere
ricondotta solamente a fattori emotivi e di apprezzamento
psicologico, dal momento che l'incidente con conseguenze molto gravi,
capace di provocare rapidamente in un'area un gran numero di vittime
o la perdita per lungo tempo d'un territorio, conduce a una forte e
talvolta irreparabile compromissione di un segmento della società.
La connotazione di distruttività d'un aggregato sociale o d'un
sottosistema antropologico e culturale è ragione di repulsione e di
rifiuto ad acconsentire, anche come possibilità remota, alla
prospettiva di incidenti molto gravi o catastrofici". Con tale
prospettiva le scelte energetiche non possono non subire dei
mutamenti e ciò mette in discussione anche il modello di sviluppo
che la società attuale si è dato. Un modello di forti costi sociali
e di rilevanti fenomeni consumistici detti "benefici". Molti
ormai sostengono che la logica della produzione a rischio è
superata. Non è vero, ma anche se lo fosse non sarebbe sufficiente.
Perché si possa giungere a una reale inversione di rotta è
necessario sviluppare una nuova coscienza che leghi indissolubilmente
il modo di vivere dell'uomo, e quindi le sue scelte, con le
conseguenze che esse comportano sull'ambiente.
|