Rivista Anarchica Online
Né
anarchica né conformista"
di Guido Montana
Guido Montana
vive e lavora a Roma. Critico e saggista, collabora a numerose
riviste d'arte. Vicino alle idee libertarie ha collaborato ad
"Umanità Nova" e fu presente, nel lontano 1971, alla
fondazione di "A - Rivista Anarchica", proponendone la
testata.
Interrogarsi sul
significato dell'arte è un po' come volere dare un senso
all'esistenza dell'anima. Questo almeno secondo il concetto che, sia
pure attraverso notevoli modificazioni, si è venuto affermando
nell'epoca moderna. Termini come "inesprimibile" non sono
più di moda, ma ancora oggi l'analisi critica dell'oggetto
artistico non è riuscita a svincolarsi dal metodo letterario
emozionale e l'arte resta tuttora razionalmente un fenomeno
"arbitrario", sostanzialmente inconoscibile. Il carattere
soggettivo della sua interpretazione è stato anzi accentuato
dalle avanguardie storiche e da tutto ciò che ne è
seguito sul terreno dell'inconoscibilità. Dare un giudizio
sull'arte non può quindi prescindere dagli strumenti di
lettura delle opere e dalla credibilità del metodo.
Applicandosi a un fenomeno che ha carattere storico, culturale e
psicologico, il metodo non potrà essere che di tipo evolutivo
e dialettico. Occorre intanto
dire che il giudizio soggettivo riguarda una condizione culturale e
umana che si è realizzata nello spirito del Capitalismo, di
una civiltà cioè che, tra le altre cose, ha segnato il
passaggio dall'oggetto artistico inteso come produzione sociale,
all'oggetto estetico giudicato e fruito individualmente. L'arte come
oggetto di contemplazione estetica soggettiva venne a realizzarsi con
la nascita dei sistemi sociali opulenti e classisti di tipo
capitalistico, laddove la circolazione dell'oro e del denaro ha una
insostituibile funzione egemone, diciamo etica. È cioè
diffuso nella società un comportamento finalizzato che ha i
caratteri del modello culturale, pur non avendo alcun riferimento
alle reali esigenze della creatività sociale. L'arte che ne
deriva avrà quindi la tendenza a garantirsi il consenso di
quei ceti egemoni che siano in grado di promuoverla, sostenerla,
goderla e compensarla. Non potrà quindi mirare che
all'interesse individuale o elitario. È
l'arte che conosciamo, cioè un'arte che in realtà
"capitalizza" la forma per un uso passivo, non culturale,
dell'artistico e dell'estetico. Tutto questo fa parte dello spirito
delle civiltà di tipo capitalistico, in cui la creatività
non è più elemento costruttivo della produzione
sociale, ma solo una manifestazione intellettuale di categorie
elitarie che comunicano "artisticamente" con una cultura
altrettanto separata e ritenuta superiore. Basandosi
concretamente sul potere espansionistico dell'oro e del denaro, e
spesso delle armi, le grandi civiltà di tipo capitalistico
hanno cambiato radicalmente la funzione dell'arte. Non più
comportamento culturale nella sostanza egualitario, fondato sulla
creatività sociale e la memoria tecnica, ma atteggiamento di
tipo elitario, riconoscibile e valutabile. Con l'impero romano si
ebbe il primo e più importante uso capitalistico della
creatività artistica. Le connotazioni essenziali dell'uso
capitalistico dell'arte sono infatti le seguenti: l'oggetto artistico
è un valore non necessariamente interno alla cultura
sociale; per questo basta "appropriarsi" dell'arte, per
poterla fruire, collezionare, ecc... Così fecero i Romani con
l'arte greca ed egizia, che prima rapinarono e poi "imitarono"
attraverso il lavoro artistico degli schiavi e dei liberti. Ma
questo, se riflettiamo un po', avviene ancora ai nostri giorni. Non
si comportano diversamente i grandi capitalisti in USA, che accolgono
nelle loro collezioni private i frutti del saccheggio della nostra
arte del passato, i tesori archeologici, ecc... Con la concezione
elitaria di tipo capitalistico, la creatività artistica cessa
infatti di appartenere alla cultura sociale di un popolo e diviene
oggetto di scambio o di rapina in quanto produzione speciale e di
prestigio. L'arte cioè diviene uno status symbol
per le classi che detengono la ricchezza e il potere. Sotto questo
aspetto ha acquistato sempre più importanza il discorso
soggettivo, in quanto l'arte divenendo un bene elitario e uno status
symbol, promuove anche quell'attività speciale che ha il
compito di riconoscerne la qualità e il valore, e cioè
la critica. Sin dall'antichità le figure del collezionista e
del mecenate hanno svolto una funzione critica e di selezione degli
artisti, che ha accentuato il carattere privilegiato ed elitario
dell'arte. La Firenze dei Medici è esemplare per una
situazione di questo genere. È
l'epoca in cui l'esigenza della massima esaltazione del principe
concorda con la maggiore qualificazione artistica e civile dei
pittori, degli scultori e degli architetti che si mettono al suo
servizio. Nell'epoca
contemporanea l'esperienza socialdemocratica di Weimar e del Bauhaus
non riuscì a risolvere il problema dell'artisticità
diffusa e di massa. Il tentativo di Gropius e compagni
sostanzialmente fallì e non solo per l'avvento del Nazismo. In
realtà l'artisticità di massa, concepita come
produzione culturale di un popolo, viene respinta dalla concezione
elitaria dell'arte che è tipica di una condizione sociale
capitalistica, nella quale l'arte per le masse non esula dagli stessi
interessi dell'industria, restando nei limiti seriali del design.
Da questo punto di vista ritengo che tuttora il cosiddetto messaggio
artistico sia "fruito da pochi privilegiati", con la
differenza rispetto al passato che oggi il sistema promozionale
dell'arte non riesce a produrre una legittimità culturale
accettabile. Tradotto in termini di comunicazione, questo vuol dire
che si realizza un accumulo informazionale che va oltre la
specificità del messaggio, per cui l'arte che viene prodotta
riesce ad affermarsi, come merce privilegiata, solo in quanto valore
indotto, determinato dal sistema dei media. E questo,
indipendentemente dalla selezione e dalla scelta di tipo estetico o
culturale. In realtà non viene acquistato l'oggetto artistico
in sé, ma solo il suo accumulo di informazioni, cioè
tutto quello che promuove l'oggetto descrivendolo e
interpretandolo massivamente. Altro che consumo di massa della
cultura artistica! Non consumiamo in effetti cultura, ma solo la sua
descrizione visiva e verbale più efficiente pervenuta
al successo, mercantile e spettacolare. Ciò che in
realtà "funzionava" fino a qualche decennio fa, era
il lavoro del collezionista, che sorretto da una buona preparazione
culturale, dall'intelligenza e da una discreta dote di intuizione,
sapeva quasi sempre scegliere bene anticipando in alcuni casi le
stesse opzioni della critica. Si pensi per esempio a Vollard. Ma oggi
questo tipo di collezionismo è stato emarginato, rispetto alle
scelte essenziali e alle opzioni sulle nuove tendenze. Ha acquistato
sempre più importanza l'aspetto manageriale dell'arte. Il
ruolo decisivo non compete più al collezionista colto e
intelligente, criticamente audace nelle scelte ma estremamente
obiettivo. Contano di più i nuovi ricchi, i manager che hanno
invaso il campo della cultura artistica, il dinamismo spregiudicato
di taluni direttori di musei, soprattutto stranieri, i critici
militari e d'assalto. Non è esatto dire che la
comprensione dei contenuti dell'arte attuale "rimane ai pochi
che possono accedere al linguaggio necessario per la lettura".
In realtà i "pochi" hanno un limitato interesse a
capire l'arte che viene prodotta, cioè la sua obiettiva
genesi. Si contentano di calcolarne la quantificazione di prestigio e
il valore di scambio. Non si acquista più l'arte come opzione
e scelta sia pure privilegiata, ma solo per entrare nel gioco e nel
possesso di valori resi ufficiali dal sistema promozionale e dal
mercato. Lo stesso status symbol è ora associato
all'idea del "marchio" artistico di fabbrica, giudicato
molto più importante di ciò che l'oggetto rappresenta o
artisticamente lascia intendere. Ritengo molto
improbabile che un'arte destinata ai programmi multinazionali del
mercato possa avere all'origine un valore di rottura. Per cui
non disprezzerei il piacere "narcisistico" di creare.
Sarebbe quantomeno una chance che l'artista riscopre contro
l'attuale finalità del sistema di produzione e consumo
dell'arte, come dire una sorta di astuzia del fare per riappropriarsi
almeno in parte della libertà creativa, in una società
classista e in una cultura basata sul privilegio. Per il resto non
facciamoci molte illusioni. Allo stato attuale dei fatti non esistono
tendenze autenticamente utopiche, poiché non esistono artisti
organicamente capaci di atti di coerenza libertaria, almeno nella
situazione che si è determinata nell'odierna cultura. Quella
degli artisti è ancora oggi una categoria bensì
separata, ma funzionale agli interessi degli operatori economici
dell'arte, i quali difficilmente potrebbero essere emarginati, in
quanto padroni delle stesse strutture promozionali e informazionali
da cui gli artisti professionalmente dipendono. In realtà
l'arte non è né anarchica né conformista,
produce solo, o dovrebbe realizzare, elementi di qualità e
libertà espressive, che a volte la società riconosce
come propri e altre volte respinge o semplicemente strumentalizza per
motivi politici, economici, gestionali, di potere, ecc... Tra i
compiti dell'artista non vi è necessariamente quello di essere
anarchico; deve solo essere autenticamente espressivo, correggendo
l'esteticità e il gusto suggeriti o imposti, inautenticamente
da un determinato sistema di condizionamenti culturali. Mondrian per
esempio non può certo definirsi un artista anarchico, ma è
stato quello che probabilmente ha saputo indicare con maggiore
autenticità e radicalità il concetto di arte-vita, di
esistenza artisticamente liberata dall'angoscia del dramma
quotidiano. Ed è questa una funzione libertaria, in quanto
l'utopia anarchica (e anche il Neoplasticismo è utopia) tende
o dovrebbe tendere, credo, a liberare la condizione umana dalla
disarmonia, dai pregiudizi, dalle separazioni settarie e oppressive,
dalla stessa visiva volgarità del potere, che si costituisce
proprio attraverso il "dramma" della società divisa
e condizionata dalla cultura del privilegio.
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