Arte come
messaggio o...
di AA. VV.
L'artista crea
per il piacere di creare, ma forse anche per il piacere di comunicare
agli altri le sue emozioni, le sue visioni, le sue idee. In questo
caso diventa importante il rapporto tra il messaggio ed il linguaggio
scelto.
Un comportamento
da adottare
Vincenzo Accame,
nato a Loano nel 1932, vive a Milano e lavora nell'editoria. Critico,
saggista, traduttore (in particolare di Jarry) ha curato
l'allestimento di numerose mostre tra cui quella sulla Patafisica.
Ci sono messaggi
artistici come quelli contenuti nelle costruzioni architettoniche
(del passato e no) che non sono stati fruiti solo da pochi
privilegiati. Comunque non credo in un consumo di massa della
cultura, anche se il fatto dipende anche dai limiti che si vogliono
attribuire al concetto di cultura. E non credo neppure che l'artista
tenda a produrre per pochi privilegiati. In generale, anzi, l'artista
produce per tutti, e non seleziona affatto il fruitore. Non esiste, quindi,
tanto un divario da colmare quanto un comportamento da "adattare",
tanto da parte dell'artista quanto da parte del fruitore. Perché
esiste sempre un divario temporale tra colui che inventa e chi gli
sta attorno. Il fruitore, chiunque esso sia e qualunque sia il grado
della sua cultura, non vive la stessa "angoscia" creativa
dell'artista, non è toccato dalle sue problematiche, e
probabilmente non gli interessa neppure ciò che sta al di qua
dell'opera, ciò che viene prima... Non credo che una "società
dei filosofi" o una "società degli artisti"
faccia più parte, ormai, dell'utopia anarchica, per cui non
credo che esistano ricette per colmare un divario difficilmente
definibile come tale.
I partecipanti
fruitori (Aut-art)
Vale la pena citare
la frase, pronunciata dal simbolista francese Jules Huret, che
diceva: "Chiamare per nome un oggetto è diminuire di tre
quarti il godimento della poesia che è fatta della gioia di
indovinare a poco a poco una cosa: l'ideale è suggerire". L'importante è
stato appunto il presentare l'opera in modo che fosse più
percepita che svelata, mettendo così in moto quei meccanismi
percettivi per mezzo dei quali lo spettatore è stimolato a
partecipare piuttosto che subire il momento creativo. È attraverso
il suggerimento che il fruitore entra in sintonia con noi, diventa a
sua volta partecipe dell'opera. Ciò non succede quando invece
l'opera gli è solo data in pasto. AUT-ART è
nata per esigenze autogestionarie per cui il nostro rifiuto della
critica non è rivolto alla capacità critica stessa ma
nasce dall'esigenza che le nostre iniziative non siano condizionate
dalle richieste delle mode salottiere bensì dai nostri bisogni
esistenziali. Ben venga quindi il giudizio e la collaborazione dei
critici ma nessuna nostra manifestazione nascerà all'insegna
delle cosiddette correnti d'avanguardia. Dal momento che asseriamo
che l'esperienza pratica e quella teorica vanno avanti di pari passo
noi siamo simultaneamente artigiani e critici. Al rifiuto del critico
quando questi è il "deus ex machina" di un gruppo
che ha come finalità il mercato, contrapponiamo la sua piena
accettazione quando egli riesce ad inserirsi nella dinamica
dell'opera stessa divenendone parte. Il momento
principale è proprio nell'allestimento, nell'interazione che
si verifica tra i vari componenti del gruppo piuttosto che nella
riuscita o meno del risultato finale; tanto è vero che siamo
arrivati al paradosso di seminasconderlo. Crediamo che la critica del
binomio artista-prodotto possa avvenire anche in altro modo; altri si
pongono sulle nostre stesse posizioni ideali ma il termine della loro
parabola è comunque un'opera che viene venduta attraverso i
canali della critica ufficiale, del mercato ecc... La nostra opera,
non singola ma collettiva, è invendibile e questo fa sì
che il fruitore non sia colui che la può acquistare o
rifiutare bensì colui che vi partecipa. Si potrebbe quasi dire
che noi stessi siamo i fruitori del nostro lavoro.
L'utopia siamo
noi
Rodolfo Aricò,
nato a Milano nel 1930, vive e lavora a Milano. Ha esposto in
numerose mostre personali e collettive in tutto il mondo.
Cosa fa pensare che
l'arte debba essere recepita con facilità, come mangiare una
fetta di salame o guardare una trasmissione televisiva con Pippo
Baudo? Io provo una enorme difficoltà a leggere i testi
WORDPROCESSING o il foglio elettronico SPREADSHEET di un SOFTWARE;
perché non dovrei? Anche se dopo una lunga serie di SYNTAX
ERROR potrei farcela, occorre pur sempre il "desiderio" e
una buona volontà di apprendimento (... )
Nella
parcellizzazione dei ruoli in un mondo di massa si comprendono e si
auspicano le specializzazioni; perché i ruoli dell'artista non
possono rientrare fra queste? Ai pochi la comprensione del/nel
momento germinale dell'arte, ai molti la comprensione nel momento
mortale dell'arte. L'utopia siamo noi, viviamo già
nell'utopia; il futuro sarà solo la sua perfezione, oppure non
esisteremo in seguito a una titanica deflagrazione nucleare. In ogni
caso l'arte è già vissuta.
Movimento
continuo
Riccardo
Barletta, critico d'arte moderna e docente di storia del design vive
e lavora a Milano.
Non è vero
che il messaggio artistico "per molti secoli è stato
fruito da pochi privilegiati": basti pensare all'arte greca,
romana, paleocristiana e cristiana, induista, ecc. Il divario attuale
tra arte e pubblico è negli ultimi decenni assai diminuito,
almeno nelle democrazie occidentali, pur con distorsioni. È
grave invece che le società "rivoluzionarie" siano
quelle più impositive e restrittive nel campo dell'arte.
L'arte è "movimento continuo", libero da
condizionamenti e spesso critico rispetto alla società.
Prima dell'utopia (M. Bentivoglio)
La lettura di
un'opera richiede esperienza, cultura, sensibilità, libertà.
L'opera non chiede di essere "giudicata" bensì di
essere fruita. Solo dopo avere fruito un'opera possiamo stabilire dei
criteri di lettura; ma solo di quell'opera, e sempre con la
consapevolezza che possono esservi molti altri criteri. All'origine non vi
era messaggio che si autodefinisse artistico. La pittura rupestre, il
teatro greco, il mosaico bizantino, l'affresco nella chiesa, venivano
fruiti da tutti. L'opera aveva una precisa funzione sociologica al di
là di quella espressiva. Illustrare la storia, celebrare la
divinità e il potere, trasmettere lineamenti, tramandare,
informare, pubblicizzare, convincere. Con l'affermarsi del concetto
di arte e con lo svilupparsi della società borghese, l'opera
si è separata da queste finalità avviando il processo
che le ha consentito di assumere un valore di scambio. Ossia, a
livello sociologico il vuoto di funzione si è riempito con
un'altra funzione. La frattura tra
arte e società può essere colmata dall'assidua
frequentazione dell'"arte" e dal dibattito, dalla
circolazione delle idee: e non occorre che si tratti di una società
utopica.
La dittatura
della parola
Agostino
Bonalumi, nato a Vimercate nel 1925, ha iniziato a dipingere nel
1948. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive e ha
svolto parallelamente l'attività di scenografo.
Nella società
l'intento formativo, specialmente con la scuola, mira unicamente allo
sviluppo della funzione pratica e di quella teoretica al servizio
della pratica, non avendo occhio per lo sviluppo delle funzioni
simbolica e estetica, lasciate alla spontaneità; ciò si
risolve in una mortificazione dell'uomo, con tutto quello che ne
consegue. In questa
situazione poi l'arte visiva è culturalmente marginalizzata;
anche perché, se è vero che viviamo nella civiltà
dell'immagine, è anche vero che attraverso i mezzi di
informazione, in conseguenza della mortificazione che si è
detta, la civiltà dell'immagine è in realtà la
dittatura della parola: non viviamo il mondo, ma il racconto del
mondo. Ma è possibile raccontare un'esperienza che prima ci
impediamo di vivere compiutamente?
Le pressioni del
potere
Gianluigi Bellei
è nato a Bologna nel 1953. Vive e lavora in Svizzera dove
organizza mostre autogestite e collabora al quotidiano "Libera
Stampa".
Per la citata
identità fra rappresentazione e messaggio (nella maggior parte
dei casi fattori di acculturazione forzata: si pensi all'arte sacra)
ritengo che la fruizione di ciò sia stata, nel passato, molto
più ampia di quanto sia avvenuto in questo ultimo secolo ove,
con l'esplodere delle informazioni con la citata "emancipazione"
dell'artista, i linguaggi si sono moltiplicati creando apparentemente
una frattura fra operatore e fruitore. Il che, se da un lato genera
ripulsa, da un altro può essere considerato positivamente in
quanto espressione di una pluralità di informazioni. Pluralità
che mi auguro non debbano mai uniformarsi in quanto ricreano
continuamente la volontà, minoritaria certo, di
un'opposizione, di un "cambiamento". È ovvio che
codesta volontà subisce le pressioni del potere ed è
per questo che esso ha sempre cercato di inglobarne,
snaturalizzandola, le eventuali spinte rivoluzionarie creando così
delle sacche ove possa ugualmente rigogliare all'ombra del
liberalismo tollerante.
Imparare il
linguaggio
Giorgio Di
Genova, nato a Roma nel 1933, insegna storia dell'arte all'Accademia
di Belle Arti di Napoli. Critico e saggista ha curato numerose
rassegne e ha fondato la rivista d'arte "Terzo occhio".
Come tutti i
linguaggi dell'uomo l'arte ha una sua sedimentazione storica, un suo
codice semantico, per così dire, che solo chi ne conosce le
regole e le strutture sia morfologiche che sintattiche, sia tecniche
che filologiche può comprendere. Per leggere e intendere
un'opera d'arte è necessario imparare la sua lingua, così
come per capire una poesia cinese bisogna sapere la lingua cinese. Da
secoli questo apprendimento è stato appannaggio dei ceti più
colti (in certa misura, perché oggi l'élite per
gran parte è ignorante soprattutto per quanto riguarda l'arte:
anche per questo esiste il mestiere del critico); mentre i ceti più
bassi venivano relegati ad una falsa interpretazione
narrativo-contenutistica delle opere d'arte, lasciandoli fuori da
ogni interpretazione linguistica.
Oggi più
di ieri
Pablo Echaurren
è nato nel 1951 a Roma dove risiede e lavora. Al lavoro di
pittore ha sempre affiancato un'attività di illustratore e
recentemente di autore di fumetti.
Credo che prima o
poi tutti riusciranno a fruire delle espressioni artistiche, ma al di
là della previsione per un mondo futuro, si può
rilevare come già oggi i livelli di una tale fruizione siano
enormemente accresciuti rispetto al passato, a causa e tramite i
mezzi di riproduzione, la pubblicità, la stampa, la grafica:
basti pensare alla qualità e alla carica di sperimentazione di
tanti posters, illustrazioni, fumetti d'avanguardia. E come sintomo
ulteriore sale continuamente il numero dei visitatori delle grandi
mostre pubbliche, visitatori genuinamente interessati e non, come
molti asseriscono, irritati dal diffondersi d'una maggiore confidenza
tra opera e pubblico, comitive pilotate dagli assessorati alla
cultura. Chi oggi non conosce autori come Mirò, Grosz,
Kandinsky, considerati almeno in Italia fino a pochi anni fa
pasticcioni scarabocchiatori.
L'intraducibile
emozione
Riccardo
Guarneri, nato a Firenze nel 1933, ha partecipato alle più
importanti mostre internazionali tra cui quella di "Nuova
pittura".
Purtroppo l'arte,
agendo sul lato sensoriale e non su quello meramente intellettuale,
non può essere comprensibile a tutti. La difficoltà sta
nella sua intraducibilità ad altro linguaggio. Ed è
questo il grande fascino dell'arte. Quando si fa una analisi di
un'opera d'arte non si fa altro che tentarne una giustificazione più
o meno corretta, più o meno raffinata che cela il vero
messaggio artistico: quello dell'emozione. Se si trasporta l'emozione
in altro linguaggio si ottiene un'altra opera d'arte appartenente ad
altro linguaggio. Questa è l'aspirazione di molti critici... Si può
dunque affermare che l'arte può essere goduta da tutti ma non
compresa da tutti. Per comprendere e poterne godere bisogna che
l'individuo sia preparato a tale scopo, così come una formula
matematica è accessibile a chi sa di matematica.
La consapevolezza
dell'uomo
Romano Notari,
nato a Foligno nel 1933, dipinge dal 1952. Ha esposto in diverse
mostre nazionali e internazionali.
Senza l'arte che è
stata creata e che è tangibile nel mondo e che è
inannullabile, l'essere sarebbe rimasto "nel buio primordiale",
nell'incoscienza a progredire. È l'arte che regge l'esistenza
della nostra vita, che aspira a visualizzare la realtà e
l'irrealtà del visibile e dell'invisibile, il brutto e il
bello, l'amore e la morte, come verità scoperte che solo
l'arte sa vedere, denunciare e comunicare. Oggi c'è la
facilità di avvicinarsi e trasmettere l'arte, ed è vero
che ciò genera un desiderio maggiore e curioso di cultura
anche con scambi internazionali e si cerca di possedere l'opera come
se l'arte fosse un prodotto di consumo; c'è però il
rischio di equivocare il suo vero senso e scopo, contaminati da false
ideologie, e dalle effimere mode prolificanti. È
un bel dire che la civiltà d'oggi è più
preparata e pronta ad interessarsi dell'arte! Ma occorre una profonda
adeguata preparazione; ma purtroppo ancora manca la "cultura e
l'amore per l'arte".
Viva le
differenze! (M. Persico)
Il problema investe
i livelli di lettura depositati intenzionalmente o inconsciamente in
un'opera. Esistono pitture che per essersi materializzate in una
certa forma linguistica raggiungono livelli di comprensibilità
altissimi, e altre meno, se non risultano addirittura indecifrabili.
Il divario cui si allude non riguarda, tuttavia, unicamente i livelli
conoscitivi atti ad accedere alla lettura, ma piuttosto quelli della
sensibilità che contraddistingue ciascun individuo, e tante
altre circostanze. Se si esclude la possibilità di pervenire a
una pianificazione della sensibilità, e si ammette invece la
irriducibilità dei soggetti, di differenze - grazie a dio -
ne avremo sempre.
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