Rivista Anarchica Online
Ma quale pazzia?
di Giuseppe Bucalo
Alla base di
qualsiasi impostazione psicologica o psichiatrica c'è la
convinzione che ci siano persone che "meglio", "per"
e "su" di noi sanno quel che siamo, sentiamo, vogliamo. L'alternativa è
una "nuova mente", che nasca da una prassi di condivisione
della follia. In altre parole, l'azione diretta.
Iniziare a svolgere
una matassa non è cosa facile, ma è necessario se
vogliamo seguire il filo di un discorso e uscire da labirinto in cui
inevitabilmente entreremo, poiché la psichiatria è
parte di una complessità di rapporti che regolano gli scambi
fra chi ha e chi non ha, chi può e chi non può, chi sa
e chi non sa, chi è e chi non è. Ciò che
intendo fare è semplice: dimostrare l'inutilità e
l'assurdità di ogni teoria e pratica psichiatrica. È
una verità semplice ed elementare, come è semplice ed
elementare che lo specchio deformante del luna-park non ci ingrassa,
né ci allunga nella realtà. Ma sarei semplicista se
proponessi di abolire gli specchi deformanti senza tenere conto delle
esigenze che le persone esprimono nello specchiarvisi. Lo stesso
avviene per la psichiatria: il suo rifiuto non può passare se
non si analizzano le basi della sua legittimazione sociale. Per liberarsi dalla
necessità della psichiatria non occorre una antipsichiatria o
una improbabile psichiatria alternativa, ma poche ed elementari
verità pratiche, una pratica nella/della complessità,
una politica della differenza. Confesso che è
duro per chi ha visto, come me, la barbarie psichiatrica agire senza
limiti e senza coscienza, etica, umanità, evitare di arrivare
subito al punto e distruggere con quanta forza si ha in corpo i muri
teorici e pratici che essa ha saputo creare, lanciando slogan e
parole di fuoco per incendiare e radere al suolo oltre un secolo di
storia. Se mi trattengo dal sommergere il lettore con tutta la rabbia
che ho accumulato (e che è infinitesima rispetto a quella
accumulata da ciascun folle internato dentro o fuori il proprio
corpo), è perché stare davanti ad un foglio bianco è
sicuramente diverso dal trovarsi di fronte uno psichiatra
nell'esercizio delle sue funzioni (inquadramento, sezionamento,
controllo ed eliminazione); ma soprattutto perché penso che la
mia rabbia potrebbe coinvolgere direttamente e concretamente solo
quei pochi lettori che hanno avuto l'occasione o la sfortuna di
incappare nel circuito psichiatrico, come spettatori, carnefici o
vittime. E questo dà
anche il senso dell'urgenza di quello che sto scrivendo (e tento di
fare): il mondo dell'assistenza/distruzione psichiatrica ci è
del tutto estraneo, sfugge al nostro controllo, opera
incondizionatamente. A mio avviso
l'esperienza è l'unica forza attiva che ci unisce, e per
questo ci può anche dividere. Le verità elementari sono
quelle di ogni giorno, quelle che possono essere sperimentate da
tutti, che hanno un impatto pratico immediato nella nostra esistenza.
Il compito storico di ogni psichiatria/psicologia è stato
quello di impedire l'esperienza di queste verità, sbarrando la
possibilità di una esperienza della follia e coi folli. A mio avviso la
lotta contro la psichiatria ha utilizzato troppo spesso la logica
psichiatrica degli opposti: la psichiatria ufficiale descrive il
folle come incapace di intendere e di volere, l'antipsichiatria le fa
eco affermando che egli è invece cosciente di sé e
della violenza subita; la psichiatria ufficiale definisce il folle
come un "homo natura", una bestia pericolosa,
l'antipsichiatria invece ne fa l'annunciatore del vero, il cristo,
l'ideale. Paradossalmente sul filo dei contrari non si esce
dall'invalidazione e dalla negazione del folle: con la psichiatria
abbiamo la violenza, l'esclusione, la repressione, ma con
l'antipsichiatria spesso arriviamo all'indifferenza. Ciò che
occorre è invece puro e semplice interesse umano, quotidiano e
pratico. Ho conosciuto
tantissime persone, fuori e dentro il manicomio, interessati alla
follia mentre è dei folli che ci si dovrebbe e potrebbe
interessare. Anche fra i lettori ci saranno quelli che stanno
scorrendo l'articolo per vedere delle verità ortodosse,
coerenti, sicure, anarchiche, per trovare delle risposte a questioni
esistenziali e politiche scottanti. Questo tipo di interesse può
gratificare (o no) l'autore ma non cambia niente nell'assetto del
reale. L'interesse umano diretto, il coinvolgimento, la condivisione,
la ricerca di modi nuovi di convivenza, del resto, non possono
nascere dalla lettura di un articolo o di un libro. Nella mia
esperienza l'interesse nasce sempre nella/dalla pratica, è
interesse specifico per persone in carne ed ossa, con una storia,
modi di parlare, di delirare, di vedere, di sorridere, di sperare o
di disperare. Non ci si può interessare al "folle"
(come categoria) né tantomeno alla "malattia mentale",
non c'è interesse genuino che nasca da un'idea astratta e
unilaterale. Non mi interessano i "pazzi" mi interessano
Mario con il suo dio, Antonio coi suoi passettini, Anna col suo corpo
martoriato, Pippo con la sua paura di perdermi e perderci; mi
interessa che loro siano interessati a me, al mio modo di perdermi
dietro alle parole credendo ancora che serva parlare, esprimersi,
comunicare. Quello che intendo
fare è aiutare il lettore (e farmi aiutare da lui) ad attivare
e rendere possibile una esperienza coi folli. Non so, né
posso, dire che tipo di esperienza, conoscenza, coscienza porterà
per ciascuno incontrarsi o scontrarsi con Mario, con Anna, con
Antonio e gli altri: a me interessa renderlo possibile poiché
questo significa presa in carico dei problemi, significa ritiro della
delega ai tecnici, significa autogestione del disagio, significa
trasformare la nostra vita, incidere sul reale, realizzare l'unica
rivoluzione che vale: quella che si attua "fra" e "con"
le persone per la gioia, la vita, l'affettività, il futuro. "Non c'è
niente di peggio del manicomio" mi confessa Pippo. "Qualcosa
c'è" aggiungo "la psichiatria!". Il manicomio è
dal mio punto di vista solo una realizzazione storicamente
determinata di un' impostazione teorico-ideologica di fondo implicita
in ogni psichiatria/psicologia: che ci siano, cioè persone che
"meglio", "per" e "su" di noi sanno
quello che siamo, sentiamo, vogliamo, speriamo o disperiamo; persone
che possano, sulla base di questa scienza, decidere del nostro futuro
e della nostra vita passata e presente. Ci sono stati
senz'altro profondi sconvolgimenti teorici e pratici nell'orizzonte
psichiatrico, ma il tutto nel segno di una continuità che,
raramente e minoritariamente, ha messo in discussione l'esistenza
stessa della psichiatria (oltre che della "malattia mentale")
come scienza della mente e della sua "cura". Chiudendo il
manicomio non si è fatto altro che chiudere uno degli infiniti
luoghi (forse il più eclatante) in cui il folle può
essere rinchiuso e distrutto dalla psichiatria. In primis c'è
la "malattia" ad imprigionarlo, tutto ciò che fa,
dice, pensa è il risultato delle alterazioni del suo cervello;
non c'è modo attraverso il quale egli possa convincere chi gli
sta intorno dell'esattezza delle sue osservazioni, della verità
delle sue sensazioni ed emozioni. Il folle resta imprigionato nelle
immagini stereotipate date dalla tradizione popolare o dai libri di
testo psichiatrici (o antipsichiatrici), tutta la sua comunicazione
viene alterata e fraintesa: egli è interamente assorbito dal
suo stigma. La psichiatria
imprigiona il folle nello spazio angusto del suo corpo,
immobilizzandolo coi legacci chimici delle terapie farmacologiche: il
folle il manicomio se lo porta dietro, un manicomio privato fatto di
piccole e grosse violenze, di grandi aspettative e abissali
delusioni, di cose e persone che non si sono mai avute, di illusioni
che non si sono mai potute realizzare. Il manicomio è il
cerchio, la gabbia, i muri che gli psichiatri hanno disegnato e
costruito intorno all'evento della follia, lo specchio deformante che
hanno posto fra noi e i folli, così da tranciare tutti i nessi
che legano la follia al sistema dei rapporti sociali, alla ovvietà
della divisione del potere e dell'essere. La follia non è
un evento eccezionale o patologico. È piuttosto una esperienza
di vita comprensibile solo a partire dal punto di vista del soggetto
che la vive. È la
psichiatria a creare una peculiarità della follia (che chiama
"malattia mentale") per creare una peculiarità di
rapporto e di cura che contraddistingue lo psichiatra, il terapeuta,
da un qualsiasi altro individuo. L'ipotesi psichiatrico-psicologica
alla fin fine è uguale per tutte le teorie, gli indirizzi, le
correnti di pensiero: che l'individuo sia incapace di intendere la
propria esperienza e di volere, quindi, un cambiamento necessario
della sua condotta e della sua mente, per cui lo psichiatra-terapeuta
deve spiegargli la sua malattia, convincerlo della necessità
di un cambiamento e indirizzare il suo volere verso situazioni e
condizioni socialmente accettabili. La pratica
psichiatrica è così sempre tesa a rendere oggetto ciò
che non può essere oggettivato, a rinchiudere in un luogo ciò
che è di tutti, a riportare nella norma ciò che è
fuori dalla norma. Se la follia è differenza irriducibile e
qualitativa, allora la psichiatria non è che indifferenza
quantitativa e massificante. Certo se per noi la
follia fosse una "malattia" del cervello, allora niente
potrebbe essere messo in discussione: la psichiatria è la cura
di quella malattia. Ma se bazzicando un po' in giro, con la voglia e
il tempo di approfondire i propri e altrui vissuti, ci sorge il
dubbio, prima incerto, poi sempre più articolato, che questa
famosa "malattia mentale" sia in realtà una truffa,
allora ci risulterà chiaro che lo psichiatra è solo un
"medico immaginario" di una patologia "immaginifica". Affermare che
qualcuno ha dei "disturbi psichici" significa che i suoi
problemi si riferiscono alla sua "mente", ad essa soltanto,
ad un suo modo errato di vedere e leggere la realtà. Trattare
un individuo come se abbia dei "disturbi psichici" vuol
dire renderlo incapace di intendere e di volere, significa chiuderlo
nella sua follia e la follia in lui, gettando via la chiave, lontano
dal suo sguardo e dalla possibilità di trovarla. Dalla follia
non si esce per il semplice fatto che essa è l'esistenza che
ci hanno costruito intorno, l'unica esistenza/esperienza possibile. È
un circolo vizioso in cui la psichiatria crea l'oggetto della sua
ricerca e attività, producendo la follia con le sue tecniche
di negazione, di distruzione, di disconferma, di incomprensione, di
arbitrio, in un continuum oppressivo in cui il folle e la sua
esperienza vengono sistematicamente scacciati e schiacciati da una
normalità "obbligatoria" e "inumana".
Nella "casa"
della psichiatria
Il folle non è
incomprensibile per una "malattia" che altera le sue
funzioni cerebrali, ma piuttosto perché noi non vogliamo (o
possiamo) comprenderlo. Così come appare a molti impossibile
comprendere parole come autogestione, intimità, parità
e uguaglianza delle possibilità, libertà, autonomia...
Realtà che noi rivendichiamo e per cui ci battiamo e che il
folle rivendica e per cui si batte. Arturo che dice che quel tronco
all'interno del manicomio è un'isola, la "sua"
isola; Giacomo che dopo l'ennesimo rifiuto da parte della sorella di
poter vivere fuori dal manicomio la accoltella; Antonio che finisce
in manicomio per aver bastonato sua madre da cui non si è mai
sentito voluto e amato, quella stessa che, ventenne, gli ha fatto
ottenere una pensione di invalidità che gli precluderà
il lavoro e quindi l'autonomia futura; Francesco che mi racconta di
come lo ricoveravano in manicomio quando tentava di evitare le cure
(insulinoterapia, elettroshock...) e scappava; tutti lottano
disperatamente per un cambiamento nel loro contesto di vita. La
psichiatria e le persone, al contrario, lottano contro di loro. È
così che si resta pazzi per tutta la vita. Le esperienze del
folle vengono distrutte una per una, pezzo per pezzo: così
egli si ritirerà fino a chiudere qualsiasi possibilità
di rapporto col mondo, praticamente morto, polverizzato, scomparso
dalla scena della vita. Per questo il folle che si agita e grida, e
vede e delira, non deve spaventarci o impressionarci, egli sta
lanciando la cima della sua comunicazione, la possibilità di
comprenderlo, i termini della sua esperienza. Allora non ci può
essere alcuna "psichiatria" che tenga (ufficiale o
alternativa), alcun punto di vista obbligato, alcun vocabolario
standard, alcun quadro sintomatico, alcuna malattia. Occorre
piuttosto una alternativa pratica di rapporto e di partecipazione,
ove si dimostri l'inutilità di una schiera di specialisti in
relazioni umane competenti per i piccoli e grossi nodi che si formano
nella trama delle nostre relazioni sociali. Del resto solo chi fa
parte del problema prenderà parte nella soluzione. Lo sforzo
deve essere quindi individuare in che modo noi c'entriamo nella
follia dell'altro, piuttosto che sforzarci di entrarci e di curare. Con questo non
voglio sminuire l'intelligente e proficuo apporto dato da personaggi
come Basaglia, non solo all'apertura dei manicomi, ma anche a quanto
oggi ho la possibilità di dire e di sperimentare e fare; ma
occorre, a mio avviso, portare a compimento e alle sue conseguenze un
discorso che sembra invece essersi arrestato con l'approvazione della
riforma, anche a prezzo di distruggere qualche "mito". Chi, come me, ha
seguito o ha letto il lungo travaglio che dalle prime sperimentazioni
ha portato alla legge 180 con cui si è posto fine, almeno
nella forma, all'esperienza manicomiale, avrà avuto la netta
sensazione che, con il manicomio, si sgretolasse pezzo per pezzo
anche un'impostazione culturale che aveva sempre visto la follia come
il negativo della normalità, come una malattia da opporre alla
salute, come un evento da curare, da reintegrare, da socializzare.
Insomma sembrava che la lotta fosse per togliere legittimità
ad un sistema di rapporti che produceva la follia, per poi
diagnosticarla come patologia del cervello di quell'individuo,
obbligandolo a seguire una cura che altro non era che una via di
espiazione e di pena. Parole d'ordine erano "ridare soggettività
al folle", il che significa ridargli il controllo della propria
esistenza e confrontarci con lui senza gli alibi del delirio,
dell'allucinazione, della incomprensibilità, dell'incapacità
di intendere e di volere. Si dimostrava
giorno dopo giorno, nella quotidianità che il rapporto col
folle era possibile solo se reciproco, paritario, affettivo,
significativo, legato all'esperienza comune dei problemi e della
vita. Pezzo dopo pezzo cadeva la costruzione della psichiatria
manicomiale e della pratica sociale che l'aveva voluta e alimentata.
Ma con essa cadeva anche qualsiasi possibilità di dire
l'ultima parola sulla follia, qualsiasi possibilità
aprioristica di definirla, trattarla, curarla secondo schemi e metodi
dati, secondo una scienza, secondo delle tecniche, in servizi
pubblici più o meno aperti, con professionalità più
o meno alternative. Il confronto era
nella pratica quotidiana fra modi differenti di essere e di esistere
che nascevano da una storia comune di oppressione, di silenzi,di non
affettività, di isolamento e di solitudine, ma anche dalla
voglia di dire, di fare, di cambiare. Distruggendo i manicomi si
intendeva distruggere i "luoghi" comuni e separati in cui
si era rinchiusa la follia, si ritornava allo spazio aperto, uomini
fra uomini, senza giudizi dati prima, senza che la ragione fosse
sempre e necessariamente da una parte sola, senza che ci fossero più
neanche le parti, le contrapposizioni, l'indifferenza: si delineava
infatti un progetto comune. Si apriva una
grande occasione, quella di legare le sorti delle norme sociali alla
vita e alle sofferenze concrete delle persone; facendo a meno di una
Normalità assurta a norma si faceva a meno della psichiatria.
Tolta di mezzo ogni mediazione e giustificazione razionale ci si
trovava di fronte alla follia e al folle, di fronte
all'irriducibilità della sua esperienza. La psichiatria aveva
esaurito il suo corso, quella che andava sotto il nome di psichiatria
alternativa o di antipsichiatria non era altro che una serie di
indicazioni operative estese, praticabili a livello allargato da
tutti, così come la conoscenza e la comprensione della follia
diventava patrimonio comune, da conquistare nella vita fuori dalle
sedi di informazioni, dalle università, dai servizi
psichiatrici. La psichiatria
alternativa appariva come una tappa intermedia, un modo di gestire
l'esistente fino alla sua scomparsa, sperimentando e costruendo una
nuova cultura e una nuova prassi sociale. Del resto si poteva
chiedere agli psichiatri di criticare la loro formazione, di
cancellare la loro storia, di socializzare il loro potere, ma non di
cancellarsi, di auto-annullarsi all'interno del contesto sociale,
diventare uno di noi, partecipare in orizzontale a ciò che ci
stava accadendo. L'alternativa alla
psichiatria è lo svolgersi storico di questo processo,
l'azzeramento del potere dei tecnici e l'assunzione estesa,
orizzontale, paritaria, della nostra quotidianità. Questa
alternativa non può essere realizzata da psichiatri, ma deve
essere una presa in carico collettiva e individuale di come e perché
esistere in questo mondo e tempo attuali. Con il rifluire
dell'onda contestataria, gli psichiatri alternativi da semplici
gestori del transeunte si sono trasformati negli psichiatri
ufficiali, scontrandosi direttamente con le questioni dell'isolamento
sociale e dell'esercizio del potere, vittime di una delega assoluta
da parte del corpo sociale nelle questioni di "follia".
Mentre la vecchia psichiatria genetica, biologica, manicomiale ha
ripreso quota, rispolverando le vecchie teorie di spiegazione e
gestione della "malattia mentale" che sono tanto care ai
potenti. La follia è
ritornata nella "casa" della psichiatria, forse solo perché
non ne era mai uscita.
Potere ed essere
Il nodo che sta
alla base della psichiatria risiede nel significato che il Potere
acquista nel contesto in cui viviamo. Il rifiuto della psichiatria
non è altro che rifiuto di questo Potere (del Potere di
decidere della vita altrui, degli altrui sentimenti, dell'altrui
futuro). Tutto questo è
ovvio e se non lo sperimentassimo quotidianamente ci potrebbe
sembrare inverosimile. Ma il Potere non è solo questo e
sarebbe un errore misconoscere la sua dimensione più profonda.
Troppo spesso confondiamo il Potere con l'esercizio di Potere, come
se tutto il Potere fosse quello esercitato dallo Stato o dalle sue
istituzioni. Certo affrontare il problema da questa angolazione è
necessario, ma non è esaustivo del problema. Il problema del
Potere non è quello dello Stato, o non solo, c'è
qualcosa di più essenziale e che nell'indagine macro-sociale
ci sfugge. Prendiamo il caso
dello psichiatra. Egli esercita un potere poiché è un
tecnico che conosce ed è competente in un determinato ambito
di problemi, perché appartiene all'istituzione pubblica,
perché ha un ruolo gerarchico all'interno dell'organizzazione
dei servizi, perché la psichiatria stessa è
un'istituzione dello stato per rispondere ad un malessere diffuso.
Tutto questo è molto ma non è tutto e, a volte, non è
neppure abbastanza per comprendere appieno il potere dello
psichiatra. Il suo vero potere non sta negli psicofarmaci o
nell'avere a disposizione una serie di leggi, strutture e personale
per rinchiudere ed isolare la "malattia mentale": il suo
Potere è poter essere. In questo senso la
psichiatria dà un potere aggiunto allo psichiatra che lo
assume in quanto sano e normale, in quanto può essere uno
psichiatra. Questo unisce e lega lo psichiatra a ciascuno di noi: io
posso essere un anarchico, tu puoi essere un direttore d'orchestra
etc. Il folle non può essere che folle. (Non dimentichiamoci
che le basi di ciò che oggi chiamiamo razionalità
stanno in quell'affermazione cartesiana per cui sono in quanto penso,
da cui il folle non è in quanto non ragiona). Tutti quindi, per
esistere come soggetti, esercitiamo un potere, pratichiamo una
possibilità di esistenza che ci è data o che ci
conquistiamo, influenziamo e veniamo influenzati da altri,
trasformiamo e veniamo trasformati, subiamo il fascino e
affasciniamo, determiniamo con la nostra esistenza e il nostro
affetto la vita altrui e gli altri determinano e costruiscono la
nostra vita. Poter essere vuol dire avere la possibilità di un
rapporto, avere i mezzi e gli strumenti per farsi ascoltare, per
comunicare i nostri sentimenti, per fare innamorare di noi le
persone, per poter soddisfare i nostri e gli altrui bisogni, le
nostre e le altrui aspettative. Poter essere significa essere in
condizione di dirigere la propria vita anche nel momento in cui le
nostre scelte mettono in crisi un contesto umano come quello
familiare, poter affrontare il dolore o il risentimento dei propri
genitori, poter continuare anche se non ci si è sentiti
voluti, anche se si pensa di non aver mai avuto il diritto di
esistere. Poter essere vuol dire comprendere il senso e la direzione
della propria esistenza, anche quando questa è costretta lungo
i binari di una normalità inumana, poterla sempre chiamare e
sentire come la "mia" esistenza. Poter essere è
potere scrivere, esporsi, comunicare senza aver paura di un rifiuto,
senza sentirsi frantumare, andare a pezzi o soffocare nel momento in
cui qualcuno inavvertitamente entra nella nostra vita, alla fermata
del metrò, nei marciapiedi o nei locali pubblici. Essere sani e
normali significa essere. Ma non si è se non si può.
Sanità e potere si inseguono, si originano a vicenda. Chi ha
potere è sano. Chi è sano ha potere. Così il
folle non perde il proprio potere nel momento in cui è
diagnosticato, l'ha perso già prima (se l'ha mai avuto). La
diagnosi non fa che sancire questa perdita e l'annessione al Potere
Pubblico. Il potere è,
da questo punto di vista, un fatto tutto umano e positivo. Non è
il Potere (con la maiuscola) immodificabile e super-individuale dello
Stato, ma la possibilità di esistere come individui, come
persone fra persone: del primo potremmo benissimo fare a meno, del
secondo per farlo dovremmo essere (per l'appunto) pazzi. Così
è anche nel caso della psichiatria: potremmo benissimo farne a
meno, ma non dell'uomo che dobbiamo recuperare all'esistenza e al
rapporto paritario e orizzontale. Il Potere dello Stato è
massificante e impersonale, è un processo che soggioga
l'umano, in cui le persone (anche quelle che lo esercitano) sono
pedine di una partita a scacchi che si gioca secondo leggi e regole
date, immutabili, inumane. Il potere
d'esistere invece passa fra le persone, è qui che ciascuno di
noi deve conquistarsi un suo spazio e un suo significato, deve
costruire la sua storia, deve mostrare e dimostrare compresenza,
affetto, disponibilità; è qui che deve verificarsi
continuamente non potendo dare il suo "potere" per
scontato, per acquisito; è qui che per avere deve dare e
trovare sintesi irrinunciabili, norme che soddisfino l'esigenza di
verità e di autonomia propria di ciascuno. Una delle ragioni
più immediate su cui si basa la necessità di
un'alternativa alla psichiatria è che essa è inadeguata
a dare risposte umane e comprensibili ad un'esperienza così
intima e complessa qual è la follia. A nulla vale aver
formulato l'ipotesi di una "malattia mentale" come causa e
forma della follia, poiché questa ipotesi non sta in piedi, se
non in quanto fornisce una serie di risposte valide per l'ordine
sociale e familiare minacciato dalla follia. Cominciamo col dire
che la "malattia mentale" è una ipotesi
indimostrata. In quanto tale essa non è reale, né può
essere trattata come se esistesse. Seguendo la stessa logica
"scientifica" dei fautori di questa teoria, possiamo
affermare senza tema di smentita che è totalmente illogico
costruire su una "malattia ipotetica" tutto un insieme di
dottrine, di teorie, di diagnosi e di prognosi, di servizi, di
personale, di psicofarmaci e psico-tecniche. Il folle, per lo
psichiatra, è un oggetto di studio che può coi suoi
comportamenti confermare o meno le sue teorie, una cavia su cui si
sperimentano terapie senza sapere, anche dopo anni di applicazione,
in che cosa consista la loro azione o il loro beneficio (vedi il caso
dell'elettroshock, ancora praticato in diverse cliniche psichiatriche
nostrane e d'oltreoceano). Eppure l'ipotesi di
una "malattia mentale" quale causa della follia, pur se
aprioristica e indimostrata al pari di altre teorie pre-scientifiche
o mistiche, si è diffusa rapidamente assumendo la
conformazione di una realtà di fatto, accettata e ovvia per
tutti. Di fatto la "malattia mentale" mette d'accordo tutti
(tranne il folle naturalmente). L'umanitario vede in essa il trionfo
della ragione che strappa il folle dalle catene della superstizione e
gli conferisce lo status di "malato" abbisognevole di cure;
lo psichiatra fonda su di essa la sua legittimità scientifica
e il suo sapere/potere; tutti gli altri trovano nella "malattia"
una spiegazione onnicomprensiva, immediata e facilmente utilizzabile
della follia e delle sue bizzarrie, deresponsabilizzandosi e
neutralizzando, allo stesso tempo, quanto il folle può dire o
fare. Spesso quando tento
di sviluppare questa tesi, qualcuno obietta che mi formalizzo troppo
sul linguaggio e che, in fondo, quando si parla, ci si riferisce alla
stessa realtà di fatto. Io ritengo che si stia parlando di due
cose diverse, concretamente e umanamente diverse, quando si parla di
e con Antonio e quando si parla sulle sue "idee dissociate". Chiarisco meglio.
Se la follia è una "malattia" ne deriva che: 1)
Antonio, quando parla di cose che non comprendo o vede cose che io
non vedo, lo fa contro la sua volontà, poiché la "malattia"
lo fa sragionare (come la nostra temperatura sale, senza che noi possiamo farci niente, quando abbiamo la febbre); 2) da ciò
deriva che Antonio è incapace di intendere ciò che gli
succede o succede intorno a lui, né
di volerlo (se mi accusa, quindi, non è lui a parlare); 3) quello che
Antonio dice e vede è del tutto incomprensibile, non significa
altro se non che è in
preda ad un delirio e dice le prime cose sconnesse che gli passano
per la testa; 4) le cose che dice
o che vede sono del tutto inesistenti; quando non dirà più
quello che dice, né
vedrà quello che vede, allora sarà guarito (da cui
l'uso di psicofarmaci inibenti o stimolanti); 5) Antonio può
perdere in ogni istante il controllo di sé, indipendentemente
dalla situazione in
cui vive, dalla persona che ha accanto, da quello che gli si dice, da
ciò che ha vissuto (per
cui è opportuno ospitarlo in luoghi "protetti"); 6) a causa della
sua malattia egli è pericoloso a sé e agli altri e deve
essere tenuto costantemente
sotto controllo dagli psichiatri, dai familiari, dai vicini, dagli
amici, dal prete, dai
carabinieri, etc. Una lettura attenta
fa emergere chiaramente come l'idea psichiatrica non sia altro che un
tentativo di fornire di basi scientifiche i pregiudizi popolari circa
l'incapacità di intendere e di volere e la pericolosità
dei folli, circa la necessità di rinchiuderli "per il
loro bene". Antonio si porta
addosso il marchio infamante di "schizofrenico", per i
medici è affetto dalla più terribile e distruttiva
delle "malattie mentali", quella da cui non si ritorna
quasi mai alla normalità. Ma se Antonio non è
"malato di mente", allora che cosa ha, perché è
rinchiuso in un manicomio piuttosto che essere coi suoi coetanei
chiuso in un'aula universitaria a prepararsi per la vita? Perché
dice che il manicomio è un seminario e che lui deve farsi
prete per ritrovare la sua anima? Un modo per
impostare bene questo problema è, a mio avviso, quello di
chiarire che la follia è una esperienza. Ciò significa
che Antonio è consapevole di ciò che vive e di come lo
vive, di ciò che dice e di ciò che intende. A
differenza di altre esperienze, comunque, sembra che la follia sia
più difficile da comunicare e soprattutto da
ascoltare/accettare. Ciò non toglie che Antonio sente e vive,
che Antonio comunica qualcosa che noi possiamo imparare ad intendere. Già il brano
citato della schizofrenica di Laing ci ha mostrato che i folli hanno
e vivono problemi simili ai nostri, solo li vivono con una radicalità
e una irriducibilità a noi incomprensibile. La schizofrenica di
cui abbiamo parlato è riuscita solo a posteriori ad esprimere
e comunicare chiaramente il suo disagio, nel momento in cui ha
trovato chi le ha offerto la possibilità e l'occasione di
essere, di riemergere; da pazza i suoi comportamenti non erano meno
bizzarri di quelli di Antonio. Possiamo dire che
il folle vive la realtà e sé stesso in una maniera
differente dalla nostra, con tonalità emotive, significati ed
esperienze proprie. Ciò che va messo in evidenza e compreso è
proprio questa differenza che è scarto qualitativo dalla
normalità che costituisce la peculiarità di ogni essere
umano rispetto ad un altro essere umano . La differenza opera in
senso orizzontale, non separa, né divide, nemmeno spezza;
rappresenta la base di ogni relazione fra le persone, costruisce
l'unicità e l'irripetibilità di ogni incontro. La diversità
invece opera in senso verticale, dispone gli esseri umani secondo dei
giudizi di valore, secondo coppie dicotomiche come normale/folle,
malato/sano, razionale/irrazionale, buono/cattivo.. La psichiatria
produce diversità. Essa blocca ogni possibile scambio fra noi
e i folli; ricostruisce i percorsi attraverso cui si passa dalla
salute alla malattia, definisce le strade attraverso cui si ritorna
nella normalità. La psichiatria è una linea netta, un
confine invalicabile che separa due mondi, due modi di esistere,
inconciliabili e estranei l'uno all'altro. Vedere la follia
nella sua realtà di esperienza/differenza ci permette di
superare molti luoghi comuni, impegnandoci in un rapporto diretto col
folle, nella sua vita quotidiana, confrontandoci con lui sulle
piccole e le grosse scelte che ciascuno di noi fa per vivere o
sopravvivere. Così si riesce anche a superare il giudizio
tutto negativo che è stato sempre aprioristicamente formulato
nei riguardi del folle ("indemoniato", "criminale",
"malato", "disperato"). La follia non è
sempre, comunque e necessariamente una esperienza di sofferenza,
sicuramente non lo è in sé. La maggior parte delle
sofferenze derivano al folle dall'impossibilità di comunicare
la propria esperienza, di essere ascoltato e accettato, specie dal
momento in cui viene diagnosticato e stigmatizzato come "pazzo". Se lo psichiatra
ricerca le cause della "malattia" per poter cambiare e far
diventare "logico" il folle, una politica della differenza
è invece interessata a capire come le persone vivono, come
affrontano e spiegano i propri problemi, come è possibile
vivere insieme costruendo una prospettiva comune. La politica della
differenza non tende ad escludere alcuna esperienza o persona, cerca
di sperimentare forme diverse di convivenza che si basino su norme
flessibili strettamente legate alle esigenze e alle aspettative delle
persone e da loro direttamente emanate. Uno dei possibili
modi con cui si è risposto e si risponde a questa differenza
della follia è sicuramente l'indifferenza della normalità.
Una indifferenza attiva che si è manifestata con una negazione
violenta e distruttiva di ogni differenza (non si spiegherebbero se
no i manicomi, le insulinoterapie, gli elettroshock, le camicie di
forza, gli psicofarmaci...): una in-differenza per l'appunto. La
normalità è una massa compatta, una trama dalle maglie
strettissime, che non si lascia penetrare dalla differenza. La follia
è come una goccia d'acqua che da millenni cerca di intaccare
la roccia. Lo specchio è ormai incrinato, non rimanda più
indietro la nostra immagine nitida, sempre uguale a se stessa. Lo
specchio va rotto, solo allora potremo iniziare a guardare e a vedere
fuori di noi, oltre l'orizzonte del nostro Essere e Potere.
In una realtà
invivibile
Fiumi d'inchiostro
sono già passati sotto i ponti della psichiatria, ma la sua
presenza sinistra non si è indebolita, anzi, con l'aumentare
dell'incertezza e della confusione, si è imposta con rinnovata
veemenza di violenza e arbitrio. Ho visto, e
continuo a vedere, moltissima gente divorare avidamente articoli e
libri e poi nella vita d'ogni giorno continuare a far impazzire e ad
umiliare gli altri, distruggendoli e non lasciando loro spazio, per
cui non riesco a nutrire alcuna speranza di trasformare in maniera
radicale con quanto ho scritto la vita di nessuno. Ciò che non
voglio è che qualcuno arrivi alla fine di questo articolo e
possa rifugiarsi dietro generiche (e ideologiche) adesioni alla idea
di fondo, in senso antiautoritario e libertario. Che la psichiatria
esprima ed eserciti un potere brutale è cosa ovvia a ciascuno.
Il problema qui è un altro: come farne a meno. Il problema è
che, smesso di scorrere questo articolo, alcuni di noi continueranno
a sbattersi in una vita che perde sempre più di significato;
altri faranno i conti con la loro depressione galoppante,
instancabile, inarrestabile; qualcuno vedrà amici o parenti
che stanno impazzendo, egli stesso si sentirà impazzire; altri
andranno a far visita ai desaparecidos nei manicomi chiusi; qualcuno
comincerà a domandare in giro dove è andato a finire
caio o sempronio; qualcuno si ricorderà come quel tale andò
fuori di testa mentre faceva il militare; altri penseranno di essere
fortunati a non avere niente a che fare con queste storie. Il problema è
se ritorneremo alla pratica nel solco che ci siamo tracciati. Se
continueremo a delegare ad altri tutti questi problemi come abbiamo
fatto sinora, attivamente oppure lasciando sequestrare e distruggere
persone a noi vicine entro i "luoghi" della terapia
psichiatrica. Quanti di noi,
sentendosi impazzire o sentendo impazzire qualcuno accanto, si sono
consigliati, hanno consigliato, hanno avuto per consiglio quello di
rivolgersi ad un psico-qualcuno, magari "compagno", magari
ottenendo dei risultati? Succede che una "buona psiche"
riesca ad aiutarci, spesso in maniera del tutto non voluta,
irrazionale e paradossale. Ma quando questa "psiche"
appartiene ad un terapeuta i vantaggi sono ben poca cosa rispetto
all'occasione perduta. Quando uno sta
male, sta male e basta, mi si obietterà: quello che vuole è
stare bene e subito, a qualunque prezzo, non pensa certamente alla
rivoluzione, quella è lenta e lontana dal venire. Potrei rispondere,
a parità di retorica, che non si può stare mai bene in
una realtà invivibile, una realtà a cui ci si adatta
per sopravvivere, una realtà che perpetuiamo con le nostre
scelte, ma mi sembrerebbe pura ideologia e cinismo di fronte a chi si
sbatte per un istante di serenità e di normalità. La
rivoluzione non si fa sulle sofferenze ma nelle sofferenze, fianco a
fianco, momento dopo momento. I cambiamenti di
sostanza non avvengono "nella" nostra testa, ma "fra"
di noi: poiché i problemi sono di tutti, la soluzione deve
coinvolgere tutti. Emilio ha idee
aperte e libertarie, eppure, per non affrontare la sua situazione
familiare, è capace di tutto. Si deprime fino al punto da non
capire più niente, comincia a credere in dio, assume
psicofarmaci, filosofeggia su di essi. Alla fine resta solo con la
sua depressione e noi impotenti di fronte a lui: la cima della
matassa gli è sfuggita. Le idee, anche le
più perfette, non aiutano a vivere. Così ricadiamo
costantemente nelle grinfie di quel potere che diciamo di combattere.
Vero in teoria e falso in pratica. Nel momento in cui non ce la
facciamo più ci affidiamo a chiunque prometta di darci
sollievo. Non serve fare gli
ortodossi, i moralisti, i coerenti con Emilio, quasi ci nutrissimo
delle sue contraddizioni. Occorre impegnarci in prima persona con lui
affrontando una dopo l'altra, giorno dopo giorno, le sue crisi. Se
non lo si fa è meglio tacere, poiché è inutile
dare consigli o apostrofare qualcuno, quando noi siamo e stiamo
lontani anni luce da lui. Il cerchio si
stringe e nessuno può sottrarsi al nodo che ci stritola.
Azione diretta
vuol dire...
La psichiatria,
come la follia, è un nostro retaggio culturale, un modo in cui
abbiamo affrontato la questione della differenza. Essa fa parte della
trama della nostra esistenza. Non c'è ideologia che tenga: al
di là delle vuote affermazioni di principio, ognuno di noi fa
parte di quella massa compatta che compete per poter essere
schiacciando chi non può/sa/è. La psichiatria è
l'ovvio. Farne a meno non è meno pazzesco che fare a meno
dell'esercito o dello Stato: ma è, allo stesso modo, urgente. L'alternativa alla
psichiatria non è una nuova teoria sulla follia o una nuova
disciplina, una nuova tecnica, nuovi servizi, nuovi farmaci, nuovi
"luoghi" in cui chiudere il cerchio intorno alla follia.
L'alternativa alla psichiatria è una nuova mente che nasce da
una prassi estesa a tutti di condivisione della follia e del suo
progetto. L'alternativa alla psichiatria è l'azione diretta. Azione diretta è
ricerca di un rapporto, volontà di mantenerlo fuori e dentro
le crisi; un rapporto paritario che sia presenza l'uno all'altro,
profondo rispetto per le reciproche esperienze, empatia,
coinvolgimento, conoscenza reciproca. Nei fatti il folle
ha da insegnarci come vincere la nostra paura di impazzire, noi a
come vincere la sua paura del mondo. Basta poco a volte
per spezzare questo cerchio. La comprensione della follia non deriva
dalla conoscenza di una teoria; è piuttosto il corollario di
un'azione con il folle, nel suo campo di riferimento, rispetto ai
suoi problemi di vita, lavoro, affetto. Agendo fianco a fianco ciò
che il folle dice, sente e vede acquista di nuovo il suo valore di
comunicazione e di scambio. Perciò bisogna sostituire
sistematicamente all' indifferenza l'affettività, alla
sfiducia la volontà, all'isolamento il coinvolgimento,
nell'arbitrio della cura il rispetto della differenza,
all'incomprensione il confronto. Non è che
cancellando la psichiatria si cancellerà la sofferenza fra
degli individui, ma sicuramente nessuno avrà il potere di fare
dei folli quello che vuole, rinchiudendoli, sezionandoli,
umiliandoli; nessuno potrà erigersi a difensore della
normalità come norma (quando la norma è la differenza);
nessuno potrà sottrarsi al confronto con le idee "deliranti"
di Antonio, nessuno potrà rifugiarsi dietro il mito della sua
malattia, esonerandosi dal cambiare. Poiché si impazzisce
quando non è più possibile un cambiamento e si resta
pazzi perché la gente invece di cambiare tenta
incomprensibilmente di cambiarti. Così
continuiamo a mettere in conto alle manie di persecuzione quello che
va in conto alla nostra ipocrisia. Pippo continua a
ripetere ogni giorno che noi lo vogliamo scacciare, che non lo
vogliamo con noi, che non lo vogliamo fra i piedi. Neghiamo
naturalmente. Poi non si va con lui a mangiare o si è a
disagio quando ci si incontra in piazza. Eppure ognuno tace e Pippo
"delira" le nostre persecuzioni. "Manie di
persecuzione": quando sentite questa definizione andate a
cercare senza dubbi i persecutori! Il problema non è
di essere perfetti, bravi, onesti. Quello che Pippo ci chiede è
di affrontare (noi che possiamo) le nostre responsabilità. Alternativa alla
psichiatria è condivisione. Ma cosa c'è da condividere
con Sara che grida tutta la notte lanciando tutto ciò che
trova dalla finestra? Oppure con Maurizio che nell'ospedale
psichiatrico gioca con le sue e altrui feci? Che cosa ci unisce a
quel pazzo di Mario che è posseduto da un dio che fa di lui un
barbone e un vagabondo? Cosa ci unisce a Maria che si spoglia e si
mostra nelle pubbliche vie? Nella mia vita sono
riuscito a trovare dei nessi con loro. La scoperta di questi legami è
folgorante, inquietante, intima e, in parte, incomunicabile.
Estendere questo tipo di esperienza/coscienza/conoscenza è
però indispensabile se si vuole spezzare il cerchio che
soffoca i folli ed isola chi si sforza di trovare con loro un'unità
perduta. Non ci sono uomini
che stiano agli antipodi dell'umana esistenza. Gli strumenti del
comunicare (fra i quali il linguaggio e il corpo) sono uguali per
tutti: non ci deve inibire il modo spesso bizzarro e provocatorio con
cui i folli ci comunicano la loro esperienza, del resto abbiamo
negato a tal punto la follia che non si conoscono modi e vocaboli
diversi da quelli della psichiatria o del senso comune per
esprimerla. Un passo avanti
sarebbe quello di lavorare sui nessi, sulle corrispondenze, su ciò
che ci unisce, cercando di tollerare e comprendere quei comportamenti
che ci appaiono, per il momento, del tutto irrazionali. Capire che
irrazionale è solo ciò a cui non troviamo un nesso, è
comprendere che la follia non è incomprensibilità ma un
linguaggio abbandonato, una crisi messa ai margini e isolata dalla
nostra coscienza civile. Non ci deve stupire
se gli psichiatri ci attaccheranno violentemente, affermando che noi
non abbiamo titolo o preparazione per dire quello che diciamo, o fare
quello che facciamo; che rischiamo noi di fare danno invece di
aiutare (scordandosi che la storia della psichiatria è
cosparsa di cadaveri e di vite distrutte). Il nostro modo di
rispondere è nella pratica, lavorando senza psichiatri, né
psicofarmaci, né psicoterapie; attingendo le nostre conoscenze
dalla saggezza popolare e le nostre "tecniche" direttamente
dal rapporto quotidiano, diretto, paritario e affettivo; rispettando
e promuovendo la differenza, realizzando il progetto che ogni follia
sottende. Poiché
l'alternativa alla psichiatria è presenza attiva, chiara, non
persecutoria, né moralista o curativa. Una alternativa che
passi fra le persone, che riallacci la follia alla vita, che non
cerchi un posto, un qualsiasi posto, per il folle in questa società,
ma che cerchi di creare una società in cui valga la pena di
vivere.
Pazzi, visionari
deliranti
Scivoliamo sul
retorico? Cadiamo preda dell'Utopia? Ci avviamo ad un finale di rito?
Gli slogan spesso non rendono giustizia alla complessità, come
i finali retorici non fanno che sollevare lettore e autore dalla
responsabilità pratica che deriva da quanto scritto/letto. La società
di cui parlo non è il macrosistema onnipotente e onnipresente,
ma è la trama dei rapporti in cui quotidianamente viviamo.
Quella quotidianità in cui sembra che si aspetti che la gente
impazzisca, o si droghi, o invecchi prima di prestargli ascolto.
Quella quotidianità dove spesso, dopo essere impazziti,
drogati, invecchiati, rimane intorno il solito silenzio, le solite
frasi di rito, i soliti luoghi comuni, in cui rinchiudere la
differenza. La mia esperienza
non potrà certo riallacciare i vostri nessi con la follia, ma
può documentare il fatto che ciò è possibile.
L'unico rischio è di essere presi per pazzi, visionari,
deliranti. Niente male perché noi questa follia, prima o poi,
la realizzeremo.
Quel sovrappiù di umanità
Ho ascoltato pochi anni orsono una notizia che mi ha fatto molto pensare: un compagno arrestato per motivi politici era finito dal carcere al manicomio criminale. Ad un certo punto le autorità hanno offerto la propria disponibilità alla liberazione, ma nessuno si è fatto avanti. Immaginando risolto il problema a monte, mi pongo quello del "dopo liberazione" o del "non internamento", e lo pongo soprattutto a chi nello stile di vita, vuole essere alternativo a questo tipo di società. Mi pare che in questo momento due delle massime forze antiumane ed antisociali - il consumismo economico ed il burocratismo statuale - stiano concorrendo felicemente tra loro nel sequestro capillare del tempo di ognuno di noi. Non parlo tanto del tempo di lavoro studio, quanto del tempo libero. Oggetti da comprare, "godere", riparare o far riparare, ricomprare più belli e più grandi e costosi, code per la USL, il certificato di nascita che scade (!), per pagare le tasse rendono le nostre agende sempre più insufficienti a contenere tutti gli impegni. Mi chiedo se i compagni sono ben consapevoli della prevaricazione di cui sono oggetto minuto per minuto, se stanno lottando, ed è possibile, almeno individualmente, per la liberazione effettiva di quote crescenti del proprio tempo di vita, se non dal lavoro indispensabile, e dalle trafile burocratiche coatte, almeno da tutto il resto. Solo così si avranno le condizioni necessarie - anche se non sufficienti - per poter porre un certo distacco tra sé e il mondo di oggetti che vorrebbe succhiarci tutto, per riprovare il senso dello spessore della nostra umanità, per poter preparare in essa, tra l'altro, anche un posto per la sofferenza dell'anima altrui. "Le medicine dell'anima sono i bei discorsi" diceva Platone. In comunità primitive, ancor oggi in certi villaggi, il peso del sofferente psichico è distribuito tacitamente fra tutti, in modo che tutti lo aiutino a vivere. Come da un eccesso di disumanità sociale nasce la sofferenza pscichica, da un sovrappiù di umanità può guarire. Qui c'è poco da delegare, poco da scaricare. Questo senza affatto rinunciare all'opera ed al patrimonio di conoscenze ed esperienze degli esperti in buona fede, né tanto meno al portare avanti, anche così, insieme a tante altre formazioni, che si battono su tanti altri fronti, un movimento di riumanizzazione totale, che rigeneri tutti i rapporti sociali.
Pier Luigi Starace Bertacchi
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