Rivista Anarchica Online
Per esempio la Cascina Rosa
di AA. VV.
La Cascina Rosa è un
fabbricato fatiscente alla periferia milanese, occupato da una folta
comunità di immigrati dal Marocco. Negli ultimi mesi la Cascina è
stata al centro delle cronache locali per una serie di proteste
contro l'insediamento da parte di cittadini autodefinitosi indignati. Presentiamo tre articoli che, da
diverse prospettive, rivelano come - al di là della retorica e
della demagogia - il confronto con gli immigrati si trasforma sempre
più spesso in affronto.
Quel sottilissimo filo
Non è facile per nulla trovare
uno spazio incolto, un'oasi vergine in cui potersi distendere coi
pensieri e magari illudersi di essere soli, di essere i primi. Il
terreno è stato battuto completamente, le oasi prosciugate:
non solo ma, a mio parere, tutto è stato maltrattato,
rovinato, diretto e omologato.
Sto parlando del terreno fertile
offerto dal problema "immigrazione", dal problema
"razzismo".
E io in questo momento non me la sento
(per probabile incapacità) di emergere in tale difficile
campo: di insinuarmi alla ricerca di nuove sorgenti originali
chiarificatrici esplicative: mi butto incosciente nella semplice
narrazione, nel racconto di ciò che ho visto e provato (e
inevitabilmente rielaborato) , senza pretese di avere dalla mia la
verità. Come dire: sorvolo dolcemente il paesaggio. Era da
tempo che in me giaceva sopito, di volta in volta stuzzicato, un
desiderio di chiarezza, più che altro una necessità. Le
parole mi uscivano tranquillamente dalla testa, dalla bocca; è
molto facile inveire contro il razzismo, indignarsene. Ma tutte
queste parole non solo non servono a chi il razzismo lo subisce, ma
neanche lo possono sfiorare. Eppure non trovavo modo di sentire più
vicino il problema, sentirlo sulla pelle.
Ed ecco che in una ordinaria mattinata
d'università una amica (assolutamente ignara dell'effetto che
avrebbe sortito) mi stordisce con una domanda: "Senti, ma da
quando ci sono tutti quei marocchini tu non hai paura a passare
davanti alla Cascina Rosa?"... Sdeng! Lo so che non c'è
razzismo dietro ad una tale domanda, non QUELLO forte, plateale,
storico; ma di QUESTO tipo di razzismo pare non ci sia alcuna traccia
se non sui libri o tutt'al più negli articoli dei giornali.
Piuttosto quel subdolo e sottilissimo senso di intolleranza, di
fastidio, sintomo evidente di chiusura e ignoranza e tutto sommato
anche di pigrizia e noia, mi è apparso vivido e pauroso nella
sua candida capacità di impossessarsi dell'istinto e del
cervello umani.
Avevo trovato un sottilissimo filo a
cui appigliarmi, seppur così circoscritto: la Cascina Rosa.
Avere un contatto diretto con queste persone
che malgrado i loro sforzi per farsi accettare, incutono ancora
un'inspiegabile paura.
Sono stata accolta con tanta gentilezza
assieme ad altri amici. Il mondo in cui sono entrata barcollando su
di un'asse di legno adibita a passerella, mi è apparso
estremamente povero, un'immagine di miseria, disagio, precarietà;
il mondo in cui sono entrata mi è apparso estremamente ricco
di colori, suoni, sapori e odori. L'allegria e l'ospitalità
innate di queste persone dalle tradizioni così forti, dalla
religiosità così sentita, passa sopra il freddo, il
disagio, la povertà, l'isolamento e la solitudine.
Presto i sorrisi un po' forzati,
inevitabili nei primi istanti di ogni conoscenza, specie se
inaspettata, hanno lasciato spazio a sguardi sinceramente
interessanti, a ibridi linguistici costruiti insieme per farsi capire
e a sonore risate prive di qualsiasi residuo di formalità,
accompagnate da cibi tradizionali, da suoni e parole che evocavano
tutta l'arsura e la spontaneità di un'Africa non poi tanto
lontana, da riti e usanze tipiche e ovviamente da
quell'incomprensione e incredulità comprensibili di fronte
alla spaccatura enorme tra due mondi diversi messi a confronto.
Ho chiesto loro più volte una
opinione personale su Milano, sui suoi abitanti, sulle loro
condizioni... e i più rispondevano (quasi non volessero
sbilanciarsi od offendermi) che stavano bene e gli italiani erano
brava gente... nessun problema, tranne che per trovare un lavoro. Ma
come? Io mi arrabbiavo, perché certa umiltà la trovo
pericolosa quanto il sentimento contrario. Ma ben presto veniva meno
la diffidenza ed emergeva chiaro lo scontento: in fondo non si sta
così bene e se si volesse si potrebbe trovare insieme delle
soluzioni...Qualcuno poi ha finalmente alzato il tono di voce e con
rabbia (sempre smorzata dal buonumore) ha rivendicato quel minimo di
diritti che spetterebbero ad ogni essere umano. Io ho raccolto al
volo questo soffio di realismo cercando di dargli una forma, ma alcune
loro parole l'hanno poi precisata molto chiaramente: "Noi siamo
venuti qui dal Marocco per trovare lavoro, ossia per concentrare
tutte le nostre forze ed energie e metterle a disposizione degli
italiani; non vogliamo altro se non rispetto e condizioni di vita
umane".
Sembrerebbe la formula perfetta
soprattutto per farsi accettare da questo popolo così pieno di
sé, così odiosamente esigente qual'è quello
italiano, ma c'è qualcosa che non mi piace, qualcosa di
fondamentalmente errato. L'idea biecamente utilitaristica che ci sta
sotto, del dare per avere, del vivere uno scambio paritetico di
cultura umana come uno scambio vantaggioso o meno di merci,
sinceramente mi disgusta. Se il problema maggiore è quello
di concedere i "nostri" diritti agli stranieri, io dico che
il vero problema è di riuscire a cancellare parole come
"nostro" e "straniero". Ecco, mi è sfuggito un accenno
alla parvenza di indagine socio-culturale, l'unico, da cui mi
ritraggo velocemente in attesa che maturi in me in forma propositiva.
Nel frattempo imparo nuovi e affascinanti risvolti umani, imparo a
dare alla cultura un valore non gerarchizzante, alla natura un
carattere non univoco. Anche perché la paura non basti più
a giustificare l'intolleranza.
Annalisa Bertolo
Umidità e diffidenza
Largo Murani, capolinea della 61. Un
lungo muro di mattoni sbiaditi coperti da rampicanti annuncia una
realtà cui mal si adegua il suo nome da favola: Cascina Rosa.
E' da quattro mesi dimora della più
grande comunità marocchina a Milano: circa 550 persone di cui
solo 3 donne, sposate naturalmente. Raccolgo le sensazioni per
tentare di rendere l'idea di questo posto.
Oltre il cancello c'è
praticamente solo un grande cortile incorniciato da ruderi di
edifici; sulla destra un pezzo sano della vecchia casa, una stanza
abbastanza grande che fa da cucina e punto di aggregazione (sala
comune). Le stanze ricavate da ciò che resta degli edifici
originari, sono spesso piccolissime, occupate da materassi, un
tavolino, qualche sedia. Qualche roulotte staziona nel cortile.
Najib abita con altri tre ragazzi in un
loculo di circa 6 mq, ci fa sedere sui materassi, offre da bere e da
fumare, suona la chitarra e canta. Una canzone racconta di una donna
amata che nella fantasia dell'innamorato assume diverse nazionalità.
Un po' in francese, un po' in italiano
stentato parlano del loro paese ed emergono, coi sentimenti, i
problemi dell'emigrazione: il Marocco è bello, bellissimo e
vario nei loro racconti, ma non ha lavoro. Qualcuno parla della
famiglia: "Io ho tre sorelle bellissime dai nomi affascinanti
come paesi lontani: se vieni a casa mia te le faccio conoscere".
Un ragazzo di 19 anni è sdraiato sul letto e mi racconta per
ore della sua famiglia, della sua grande casa a Rabat, del fratello
ingegnere, di suo padre che lavora per il re. "In Marocco
abitavo in una casa bellissima, nella mia camera avevo TV e telefono
e guarda come mi tocca vivere qui. Ho scelto di viaggiare, mica l'ho
fatto per necessità. Ma l'Italia non ci vuole".
In tutti la nostalgia del caldo e del
calore, contro quest'umidità e diffidenza che penetra i muri e
gli sguardi. Nelle parole di molti Milano è una città
inospitale, si lavora meglio a Bergamo o Brescia, la polizia si
accanisce contro chi non ha la licenza - tutti gli ambulanti - e
porta dentro chi non ha documenti. Rakik è furbo e parla bene
l'italiano perché - dice – è la prima cosa da
imparare, per integrarti e per difenderti. Della polizia non si fida
affatto: "Una volta mi hanno arrestato, preso la merce e buttato
giù dalla macchina fuori città, di notte. Il più
delle volte si tengono tutto quello che ti sequestrano. Però
qualche volta mi sono anche divertito. Quando mi arrestavano perché
ero senza documenti, mi chiedevano il nome, e io rispondevo la prima
cosa che mi veniva in mente, in arabo. Sono registrato con parecchi
nomi di frutta e verdura e di calciatori marocchini famosi".
Adesso vende le sigarette e davanti ai poliziotti scappa, anche se
minacciano di sparare.
Nordine ha un bel sorriso sotto occhi e
capelli corvini, ci mostra le foto di quando era portiere in una
squadra di calcio. Anche adesso gioca ogni volta che alcuni studenti
di ingegneria organizzano partite amichevoli Italia-Marocco. Abita a
Casablanca, come molti. A Casablanca vuole tornare se non trova
subito lavoro. Ma non ci spera molto, dice l'espressione del suo
volto. "E' difficile, sappiamo che molti italiani sono senza
lavoro. Ma abbiamo diritto a pari dignità, anche perché
siamo nella stessa condizione degli italiani all'estero 30 anni fa".
Come dire che l'immigrazione è un dato di fatto, non una
dissertazione politico ideologica, e bisogna prenderne atto con
misure adeguate.
Inutile - dicono loro - continuare a
scriverne: "Chiacchiere senza base non costruiscono case"
motteggia uno che preferisce l'anonimato. Ogni giorno c'è
almeno un articolo per giornale sugli extracomunitari, ma poi non
cambia niente.
"Oltre alle condizioni di vita
precarie, i primi tempi c'erano anche gli attacchi dei razzisti, che
facevano una spedizione al giorno per rovesciarci addosso tutto
l'astio possibile". Condizioni igieniche e sociali che non
si lasciano domare dall'assistenza fornita da due o tre volontari
della Caritas, comunque utili, ma del tutto insufficienti.
Al Comune, che sgrana un miliardo
dietro l'altro per 1o stadio sempre più grande, che sia
all'altezza della grande Milano mondiale, infiorettata da festini
stile Jovanotti e plateali richiami all'ordine sotto l'egida della
dinastia craxiana, a questo Comune i marocchini non devono niente.
Quello che hanno qui a Cascina Rosa se lo sono presi praticamente da
soli.
Così i muri fatiscenti e sempre
umidi sono stati tappezzati da coperte, tende, materassi per fermare
il gelo, cartone sui pavimenti, arredamento da discarica e abiti
smessi, quelli che periodicamente si raccattano nelle portinerie per
i poveri appunto. E infine la decorazione: posters di sconosciuti
bellocci dei giornalini per teenager, pannelli pubblicitari di
cartone, dischi attaccati alle pareti con lo scotch, qualche pin up
in bikini. Quello che manca di più sono i servizi igienici:
una doccia e due cessi per 550 persone. Tutto il resto è stato
allestito con mezzi propri. C'è perfino una moschea, rivestita
di plastica nera e tappeti. La religione musulmana permea la loro
vita quotidiana e la preghiera scandisce per 5 volte la giornata.
Difficile per me, per noi, comprendere
la loro religiosità infervorata fatta di riti secolari e
massime inconfutabili racchiuse nei sacri ghirigori del Corano. Poi
arriva , ad aprile, il Ramadan, digiuno diurno da cibo, bevande,
fumo, sesso. Il digiuno si interrompe di notte per dare spazio a cene
collettive e festeggiamenti che durano più meno fino alla
mattina. Siamo stati ospiti di due ,"veglie" a base di un
ottimo cous-cous. Vorrei imparare a cucinarlo. "E' difficile - mi
dice Rakik - bisogna cuocerlo a vapore, poi lavorarlo molto con le
mani per renderlo morbido".
Najib ci offre la tipica cena di
interruzione del digiuno: zuppa di formaggio, caffellatte, pane dolce
e cous-cous. Mangiamo e scherziamo insieme, ormai ci si capisce
abbastanza bene, anche perché molti di loro stanno imparando
l'italiano. "Domani vado a Bolzano a chiedere
il permesso di soggiorno" mi dice Mustafa. Già, a Bolzano
ci sono pochi marocchini quindi è più facile ottenere i
documenti.
La loro ospitabilità, così
grande in queste povere condizioni, si estende fino alle loro terre;
ci invitano nelle loro case bianche fresche sotto l'arsura di agosto;
se mi piace il cous-cous "devi provare quello di mia mamma!"
dicono. "Facciamo un viaggio assieme quest'estate, meglio se in
15 o 20 persone" dice un ragazzo riccioluto che ride sempre, poi
confronta la matematica marocchina con quella italiana.
Dentro i muri colorati non ci
accorgiamo del tempo che passa; è arrivato in silenzio un
tramonto senza sole. Inizia il conto alla rovescia: anche oggi sta
per scadere il tempo del digiuno. Già arrivano profumini
invitanti dalle varie "case". Il cuoco del momento impasta
la farina con l'acqua per fare il pane. Naturalmente ci invita a
mangiare, ma fissiamo per un altro giorno. Fuori, dopo la pioggia s'è
formato nel cortile un grande lago che rende difficile raggiungere
l'uscita. Su una passerella barcollante di assi, mattoni, materassi e
fango ci stringiamo forte le mani.
Elisabetta Minini
Una favela a Milano
Prima che venisse occupata dai
marocchini che oggi la abitano Cascina Rosa era un rudere di quattro
mura retaggio, nel pieno centro di Città Studi, di quella
realtà contadina lombarda progressivamente assorbita
dall'esplosione urbanistica del milanese.
Nessuno a qualsiasi livello della
società politica, aveva pensato a preservare il cascinale
dall'abbandono, dall'incuria che ce l'ha consegnata come oggi
possiamo vederla, restituita alla vita sociale da questo gruppo di
immigrati che ne hanno fatto un piccolo villaggio, praticamente
monosessuale, dagli aspetti altamente contraddittori.
Se da una parte visitandola si ha
l'impressione che l'aggregazione, l'affinità culturale, la
ricerca di conservare le proprie abitudini rendano possibile la
solidarietà sociale in qualsiasi stato, risulta tuttavia
evidente che le condizioni strutturali sono paragonabili a quelle
delle favelas brasiliane, dei sobborghi delle megacapitali del terzo
mondo o, tanto per restare in Italia, di alcuni quartieri palermitani
o napoletani.
Cascina Rosa era, e materialmente è
ancora, un quadrato di mura fradice, perimetro che racchiude qualche
costruzione pericolante, un cortile dove quando piove si forma un
vero e proprio lago, destinata a morire in un bagno di cemento più
funzionale all'economia della città. E forse era giusto così,
visto che l'attuale realtà urbana ha così poco
interesse a testimoniare la storia contadina e proletaria, a
mostrarne la realtà al di fuori di quadretti iconografici di
stampo pietistico o nostalgico-pubblicitario. Tutto questo però,
prima che arrivassero i marocchini, che di quelle quattro mura hanno
fatto, senza particolari meriti, un ospizio nel quale vivono più
di cinquecento persone, nelle forme e con le consuetudini sociali e
religiose alle quali da secoli sono soggetti. Non è qui il
caso di giudicare, con metro occidentale, tali forme e tali
consuetudini, ma è bene ricordare che di fronte alla radicale
diversità dei nostri atteggiamenti esse rappresentano
l'individualità, la esplicita affermazione di ciò che
si è, di come si è cresciuti e vissuti fino ad oggi. E
per farlo i marocchini non hanno chiesto l'aiuto (o la
sponsorizzazione) a nessuno, hanno isolato le poche stanze ancora in
piedi, hanno portato delle roulotte, le hanno attrezzate con
materassi, arredi di fortuna, piccole cucine e così via; hanno
persino un piccolissimo pronto soccorso, e un altrettanto piccolo
luogo di preghiera, oltre ad una sala di ritrovo.
Tuttavia non sarà mai, Cascina
Rosa, una piccola Casbah milanese. L'immigrazione in Italia ha
ragioni storiche diverse rispetto a paesi come Francia e Spagna, e
non è interessata all'insediamento stabile; chi oggi viene a
Milano dal Marocco lo fa per guadagnarsi qualche soldo e tornare nel
proprio paese con qualche risparmio e poi avviare un'attività.
Si tratta per lo più di giovani, che spesso hanno studiato, ma
che non trovano sbocchi decenti in un'economia oligarchica totalmente
asservita agli stranieri, ed insensibile a qualsiasi tentativo di
ridistribuzione delle ricchezze.
Najib, Mohammed, Nordì, Khalif,
alcuni amici marocchini che vivono a Cascina Rosa sono diplomati,
studenti oppositori della monarchia, quasi tutti hanno un mestiere.
Najib è infermiere, Khalif è calligrafo, pittore e
mosaicista. Eppure si accontentano di vivere ai margini dell'opulenta
economia dell'Italia, della capitalistica Italia. Si accontentano di
vivere delle briciole, che per loro sono piccole pepite, di
distribuire volantini pubblicitari per 40.000 lire al giorno ad
esempio, oppure di rischiare con attività illecite come il
contrabbando di sigarette (con un guadagno medio tra le cinquanta e
le centomila lire) controllato dai circoli mafiosi (italiani) che
finalmente hanno trovato chi si espone per loro. Si accontentano di
vivere in luoghi dove noi non terremmo neppure i nostri cagnolini, di
renderli vivibili nei limiti del possibile, dormendo in locali non
riscaldati, con cinque gradi nella stanza, senza docce e sanitari, e
conservando comunque una dignità che li rende capaci di essere
piacevoli e ospitalissimi padroni di casa, qualora qualcuno vinca i
pregiudizi e divenga loro amico, come a noi è successo. E in
queste condizioni c'è pure chi muore, com'è successo
sabato 17 marzo a un giovane colpito da crisi cardiaca. Chissà,
forse sarebbe morto lo stesso, ma di sicuro non lo hanno potuto
salvare con la loro roulotte (ferma) pronto soccorso.
E dire che per partecipare della
ricchezza occidentale non solo accettano qualsiasi tipo di lavoro
venga loro offerto, ma cercano pure di adeguare il loro comportamento
alle nostre leggi. Alla Cascina Rosa vige un regolamento di
autodisciplina, una forma gerarchica basata sull'autorità
dell'anziano o dei personaggi più carismatici, come è
tipico delle culture islamiche. Chi vive nella Cascina, ad esempio,
non può commerciare hashish, anche se impedire a un marocchino
di fumare è come togliere il caffè a noi italiani,
anche se nella cultura araba ciò non costituisce reato.
I marocchini della Cascina, in realtà,
non danno più fastidio di quanto non ne diano tutti gli altri
cittadini milanesi presi indistintamente, tra i quali si nasconde il
politico corrotto, il delinquente, ma anche chi vive in buona fede o
più semplicemente da onesto. Eppure subiscono continuamente
attentati dai "vicini di quartiere", manifestazioni, più
o meno prezzolate, di intolleranza .
E' di alcune domeniche fa la
manifestazione del Fronte della Gioventù contro l'insediamento
di Cascina Rosa, con insulti, sputi e slogan nazisti. Poco più
recente il lancio di bottiglie Molotov. Legalitaria, invece, ma
totalmente ignorante della realtà e probabilmente strumentale,
l'iniziativa di raccolta delle firme per sgomberare la Cascina e
restituirla al demanio del Comune, per non ben specificati scopi
sociali e culturali.
Un consiglio, a coloro i quali
intendono cacciare i marocchini, vorrei proprio darlo: vadano a
vedere come il Comune ha lasciato la Cascina per anni, vadano a
conoscere le loro condizioni di vita, senza pietà ma senza
pregiudizio, e forse capiranno che se i marocchini non si lavano i
piedi o puzzano è perché non hanno bidet o comodi
lavabo, e neppure docce comuni, e che comunque troverebbero il modo
di farlo se in cascina arrivasse l'acqua.
Capirebbero anche, forse, che se il
Comune e la stessa cittadinanza possono permettersi di obliare
qualche centinaio di metri quadrati per lasciarli marcire, in attesa
del momento più opportuno per la redditizia speculazione da
mercato, qualcosa non va nel sistema di distribuzione della
ricchezza, certo, non solo a Milano e non solo in Italia.
Francesco Scarpelli
Noi marocchini della Cascina Rosa
chiediamo che...
Innanzitutto vorrei salutare tutta
l'equipe del giornale e augurargli un'ottima riuscita. Veramente non so da che parte
cominciare questo articolo perché un sacco di idee mi si
affollano in testa: stiamo passando un momento difficile, malgrado il
clima sociale ci consenta di scrivere. Come quasi tutti sanno, la maggioranza
dei marocchini a Milano vive attualmente alla Cascina Rosa di via
Vanzetti. Ci sono approssimativamente più di 550 immigrati,
quasi tutti in una situazione regolare di fronte alla nuova legge
Martelli con il permesso di soggiorno. In questo campeggio illegale occupato
dai marocchini possiamo constatare la mancanza di quasi tutti i
servizi essenziali alla vita di una persona: per esempio la mancanza
d'acqua, di elettricità, di servizi igienici, e docce rende la
vita insopportabile: questo rende miserevole anche l'aspetto degli
occupanti. Tutto ciò è attualmente contraddittorio in
un paese democratico membro della CEE. Da qui si pone la seguente domanda: gli
immigrati non avrebbero il diritto di vivere in condizioni umane? Non siamo qui per chiedere la
carità,
né per avere la pietà dagli altri. Noi siamo una forza, un'energia che
partecipa direttamente e indirettamente allo sviluppo dell'economia
italiana: perché tra noi ci sono degli impiegati, degli
operai, dei commercianti, degli studenti e dei liberi professionisti. I marocchini della Cascina Rosa hanno
dei responsabili volontari che gestiscono il funzionamento sia
dell'interno che dell'esterno della Cascina. Ad esempio si occupano
del servizio di pulizia, di vigilanza notturna e delle relazioni e
dei contatti con le autorità interessate e competenti.
Qualcuno ci aiuta seriamente, come il servizio di Pronto Soccorso
della Caritas o l'aiuto di quella brava persona del sig.
Fratellitori. Noi non ci immischiamo negli affari
interni del Paese, perché la politica italiana non ci
interessa: noi siamo qua per guadagnarci onestamente da vivere,
fornendo le nostre energie e le nostre forze. Ciò che
chiediamo ai responsabili del comune di Milano, così come alle
autorità italiane, è di affrontare CON NOI la
situazione da un punto di vista oggettivo e reale. Sappiamo bene che esistono degli
alloggi comunali e siamo disposti a pagare l'affitto e se necessario
a vivere in gruppi, ma non nelle stesse condizioni di via Vepra e che
attualmente si trovano al centro di accoglienza ex-Martinitt, perché
la nostra libertà non ha prezzo e le nostre abitudini e
tradizioni devono essere accettate e rispettate dagli italiani. Attraverso l'intermediazione del vostro
giornale, di cui ringrazio i collaboratori, desidero arrivare a tutte
le associazioni che sono sensibili al nostro problema direttamente e
indirettamente.
Abu Iman Salah
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