Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 181
aprile 1991


Rivista Anarchica Online

Ad un amico straniero
di Cristina Valenti

Un breve testo scritto direttamente in italiano dall'artista iracheno Kassim Bayatly, profugo politico, in Italia da quindici anni. Al centro dello scritto la guerra e i suoi orrori, ma anche la nostalgia e la speranza. La presentazione è della nostra collaboratrice Cristina Valenti

Kassim Bayatly è un regista iracheno, studioso di teatro e delle forme espressive della cultura islamica: delle "immagini nascoste" in una tradizione che ha bandito lo spettacolo e lo ha però praticato nelle forme del rituale, della danza, del racconto. Da quindici anni è in Italia, dove si è laureato al Dams e ha fondato nell'83 un gruppo teatrale, il Teatro dell'Arcano, con sede a Firenze, che unisce artisti orientali e occidentali nel progetto di realizzare, nel teatro e attraverso il teatro, una comunità di individui impegnati in uno scambio culturale ed esistenziale. "Il nostro è prima di tutto un gruppo", spiega Kassim, "una forma di militanza nel teatro che si realizza innanzitutto nella sperimentazione di una pratica di convivenza e di coesistenza di diverse culture e tradizioni artistiche. Ci sono uomini che lavorano in questo modo nel teatro, e io, iracheno, ho trovato in Eugenio Barba, Jerzy Grotowski, Peter Brook dei maestri occidentali vicini all'oriente. E' questa la strada da seguire, e il piccolo mondo del teatro può renderla praticabile, una strada di apertura, che crei un ponte fra oriente e occidente".
Quando l'ho incontrato durante la guerra del Golfo, Kassim era distrutto. Noi lavoriamo a costruire ponti, diceva, ma ora i ponti li stanno distruggendo. Adesso che la guerra è finita ha ripreso la penna in mano e le pagine che pubblichiamo sono la sua prima riflessione scritta. E' la riflessione di un artista, espressa in forma poetica e nei modi vibranti, di presenza visiva della sua cultura. Per questo soprattutto l'ho giudicato un contributo importante, oltre che la bella testimonianza di un intellettuale e di un artista. Perché al ritmo calmo e fluido della scrittura, come portate dal "fiume di smeraldo" della sua terra, emergono immagini e visioni di vita semplice e di dolci paesaggi: il tè seduti sul tappeto, le ragazze dalle trecce nere, i mendicanti nel bazar, le carovane dei beduini, la foresta di palme, l'immenso deserto. Immagini di fresca vita, che i "tiranni impietriti", con la loro propaganda di "menzogna ed elogio della morte" hanno annichilito, non solo coperto di fumo nero, ma avvilito e degradato: "quei volti umiliati dietro i fili spinati: una vergogna dell'intera coscienza umana".
Il testo di Kassim evoca e manifesta, esattamente come il suo teatro, la profondità di una cultura che, nel momento in cui semplicemente si rivela ed appare, impone l'obbligo del rispetto e della comprensione, più di quanto non farebbe qualsiasi proclama.
Kassim era comunista in Iraq e aveva dovuto lasciare, dopo sei mesi, il lavoro presso la televisione di stato perché indisponibile ad assoggettarsi alla politica e alla ideologia di regime. Poi venne a studiare in Italia e da allora non gli è stato possibile rientrare: non ha mai fatto il militare e non ha intenzione di farlo, non voleva fare la guerra contro l'Iran e non vuole fare guerre contro nessun popolo. Si è sempre opposto al regime di Saddam ("il capo del Baath, un partito nazionalista all'occidentale, che non può rappresentare la cultura islamica e araba").
E mentre la propaganda di guerra, dall'una e dall'altra parte, lavorava a cancellare persino la possibilità di coltivare immagini e ricordi autentici della sua terra e della sua cultura, Kassim si è concentrato di più sul suo lavoro, si è rivolto all'esule che è dentro di lui e l'ha fatto parlare. Durante la guerra aveva scritto: "Non sono legato all'Iraq perché dei confini lo delimitano. L'idea di patria per me non ha senso, se la patria non ti dà la libertà rimane solo una parola vuota. Sono legato all'Iraq perché, da quando sono nato e per gran parte della mia vita, ho immaginato il resto del mondo da quella terra".
Con questo scritto, e in tutto il suo teatro, Kassim rivendica il diritto dell'individuo di rappresentare a se stesso e agli altri l'immagine ricca e personalmente vissuta di una cultura e di un popolo che non si identificano con uno stato e con la sua politica: che non indossano la "maschera d'oro nero" dei potenti, dei truffatori e giocolieri di sporchi affari, che decidono le sorti del mondo.


il Teatro dell'Arcano ha realizzato fino a oggi quattro spettacoli;
Storia dell'Eremita (1984), L'Epistola di Hay Bin Yagzan (1986), Istmo barlumi d'Oriente (1988) e Verso il disco del sole alato (1990), che sarà a Milano, al Teatro Greco, P.zza Greco 9, dal 23 al 28 aprile.

Ad un intimo amico straniero
Peregrinando intorno alla bocca sorridente dei fiumi assetata è l'anima.
O straniero che hai abbandonato la tua terra per bisogno,
O straniero che vivi nella tua terra estraneo tra la gente,
O straniero che sei emigrato dalle viscere della terra, dal gambo di tua madre, non ti senti straniero nel regno di Dio!?
Gli sguardi terrificanti e muti fissano ciò che è rimasto vivo nella vacillante memoria.
Non era il tuo sogno costruire un ponte sulle sponde del delta dell'oriente occidentale?
Un ponte su due fiumi sinuosi e fluidi che percorrono da tempi pre-eterni nella terra del tuo visibile e invisibile.
Una profonda ferita nel cuore che gocciola sangue sulla tua temebrosa malinconia.
Cuore spezzato, lo tieni ancora sciocco nel petto gravido di cose ignote.
Fino a quando la poesia, il canto e la musica possono nutrirti di forza per non spezzare quella corda tesa che vibra in te?
Aimé, quando mai un'opera d'arte è riuscita a sconfiggere una guerra?
Tu amavi quell'immenso deserto, quella foresta di palme luminose di grappoli di datteri, quei fiumi eterni che erano in te,
sulle cui rive, ora passa una nube, un fumo nero che sale verso il cielo dei bambini che desideravano venir da te.
Laggiù è incendiato un giardino, arso un rogo per la tua gente, per i tuoi ricordi e sogni.
Dov'è quel Paese, dove sono quei fiumi, li porti ancora nel cuore?
Dov'è quel tappeto verde con i suoi disegni labirintici sul quale prendevi il té nel pomeriggio, seduto con le tue sorelle,
i tuoi nipoti che si trastullavano sui verdastri mattoni del cortile fresco.
Le labbra asciugate, la bocca senza saliva e le palpebre senza più lacrime.
La morte coglie ragazzi di tenera età; che importa a loro se avanzano nella loro ascesa, nei loro affari che andranno a gonfie vele.
Che importa se l'anima-ale è calpestato, se l'albero della vita è strappato da quella orrenda tempesta sabbiosa?
Il vento porta le voci all'orecchio e giunge un sussurro al cuore solitario che desidera gridare,
un grido puro di un neonato, di un passerotto.
O ragazze dalle trecce nere che correte sulla strada nuda, cosa sanno di voi, quei tiranni impietriti,
cosa sanno del vostro brunetto volto, delle vostre labbra, della vostra bocca che grida aiuto;
cosa sanno del vostro seno che allatta un bambino spaventato dall'oscuramento, dal tuono di un vulcano sceso dal cielo.
Frantumata, devastata quella dimora che una volta stava in te, stavi in quella dimora, e in nessuna parte stava che in te.
Tieni ancora stretto stretto quel diamante luminoso in te.
O straniero se tu supplicassi il cielo il tuo grido sarebbe respinto.
Quegli orrendi atti, fatti di menzogna ed elogio della macchina della morte, erano celati dietro una maschera d'oro nero.
Maschera di truffatori, di giocolieri di sporchi affari.
Tutto era reso fine, più sofisticato e raffinato sulla lingua di quei declamatori abili a recitare la loro perfida persona.
Strani pensieri vengono e vanno, distrutto di attesa sei - cos'è rimasto di quella mitica città?
L'acqua del fiume verde smeraldo scorre nel mezzo del Paese confidandosi con i passanti sulla riva.
Egli porta i loro dolori, i loro segreti nascosti nel petto, sfociando nella bocca del Mare,
dell'oceano gonfiato di angosciose notizie inviate con le onde al di là dei confini minati.
Il Mare non torna indietro, non risponde ai messaggi spediti.
Essi, in attesa, fisseranno la luna nel cielo, vedranno la tua sfuggente immagine e con gli sguardi e il silenzio scriveranno un muto messaggio senza lettere, senza suono udibile; un respiro che svanisce nel vuoto assoluto del cielo.
La soffiata di un flusso di sospiro ti trafigge all'improvviso il petto di un cuore rampante
ingabbiato dai ricordi di un impulso annebbiato.
I segni incisi sulle vie di sabbia portano la tua carovana verso la profondità di una fonte che zampillerà all'arrivo dei pazienti cammelli e degli instancabili beduini.
Un'oasi in un immenso deserto delle infinite strade.
Su quei volti le tracce di un mondo antico e di un futuro ignoto, quei volti umiliati dietro i fili spinati,
una vergogna dell'intera coscienza umana.
Anime senza dimora, senza templi di un mondo solido. Il tempo ti inganna come se tu non sapessi come egli è.
Non confonderti, la verità, una volta, stava nel petto degli uomini; non stupirti, questi siamo noi, siamo uomini figli dell'oblio.
Dopo tutto, o straniero, sei solo con gli altri stranieri, ancora sei una creatura mite e tenera, ancora è tesa la tua mano al crepuscolo che ricongiunge il giorno con la notte.
In quel crepuscolo nessuno ascolta il tuo grido solitario;
porti ancora nella tua profonda intimità l'eterna fiamma peregrinando nei sentieri di quell'antico castello, nelle stradine intorcigliate su se stesse di quel Bazar, la cantilena dei mendicanti rompe il bisbiglio dei passanti.
Il tuo vecchio padre dal volto bruciato dal sole rimasto laggiù, prega cantando il verbo di dio, danzando col suo bianco sudario, nei freschi cortili della moschea dai turchesi minareti.
Cade la pioggia nera sulla città spogliata dal suo abito di variopinti colori delle molte etnie e desta il grido sommerso,
l'angoscia di un sospiro sepolto sotto la cenere di quell'antica ed instancabile fiamma.
La tua fiamma, mio intimo amico straniero.

Kassim Bayatly

Lo straniero regista iracheno
Firenze 1 marzo 1991
Shaaban 14 1411 Egira