Rivista Anarchica Online
Ad un amico straniero
di Cristina Valenti
Un breve testo scritto direttamente in italiano dall'artista
iracheno Kassim Bayatly, profugo politico, in Italia da quindici
anni. Al centro dello scritto la guerra e i suoi orrori, ma anche
la nostalgia e la speranza. La presentazione è della
nostra collaboratrice Cristina Valenti
Kassim Bayatly è un regista iracheno, studioso di
teatro e delle forme espressive della cultura islamica: delle
"immagini nascoste" in una tradizione che ha bandito lo
spettacolo e lo ha però praticato nelle forme del rituale,
della danza, del racconto. Da quindici anni è in Italia, dove
si è laureato al Dams e ha fondato nell'83 un gruppo
teatrale, il Teatro dell'Arcano, con sede a Firenze, che unisce
artisti orientali e occidentali nel progetto di realizzare, nel
teatro e attraverso il teatro, una comunità di individui
impegnati in uno scambio culturale ed esistenziale. "Il nostro
è prima di tutto un gruppo", spiega Kassim, "una
forma di militanza nel teatro che si realizza innanzitutto nella
sperimentazione di una pratica di convivenza e di coesistenza di
diverse culture e tradizioni artistiche. Ci sono uomini che lavorano
in questo modo nel teatro, e io, iracheno, ho trovato in Eugenio
Barba, Jerzy Grotowski, Peter Brook dei maestri occidentali vicini
all'oriente. E' questa la strada da seguire, e il piccolo mondo del
teatro può renderla praticabile, una strada di apertura, che
crei un ponte fra oriente e occidente". Quando l'ho
incontrato durante la guerra del Golfo, Kassim era distrutto. Noi
lavoriamo a costruire ponti, diceva, ma ora i ponti li stanno
distruggendo. Adesso che la guerra è finita ha ripreso la
penna in mano e le pagine che pubblichiamo sono la sua prima
riflessione scritta. E' la riflessione di un artista, espressa in
forma poetica e nei modi vibranti, di presenza visiva della sua
cultura. Per questo soprattutto l'ho giudicato un contributo
importante, oltre che la bella testimonianza di un intellettuale e
di un artista. Perché al ritmo calmo e fluido della
scrittura, come portate dal "fiume di smeraldo" della sua
terra, emergono immagini e visioni di vita semplice e di dolci
paesaggi: il tè seduti sul tappeto, le ragazze dalle trecce
nere, i mendicanti nel bazar, le carovane dei beduini, la foresta di
palme, l'immenso deserto. Immagini di fresca vita, che i "tiranni
impietriti", con la loro propaganda di "menzogna ed elogio
della morte" hanno annichilito, non solo coperto di fumo nero,
ma avvilito e degradato: "quei volti umiliati dietro i fili
spinati: una vergogna dell'intera coscienza umana". Il testo
di Kassim evoca e manifesta, esattamente come il suo teatro, la
profondità di una cultura che, nel momento in cui
semplicemente si rivela ed appare, impone l'obbligo del rispetto e
della comprensione, più di quanto non farebbe qualsiasi
proclama. Kassim era comunista in Iraq e aveva dovuto lasciare,
dopo sei mesi, il lavoro presso la televisione di stato perché
indisponibile ad assoggettarsi alla politica e alla ideologia di
regime. Poi venne a studiare in Italia e da allora non gli è
stato possibile rientrare: non ha mai fatto il militare e non ha
intenzione di farlo, non voleva fare la guerra contro l'Iran e non
vuole fare guerre contro nessun popolo. Si è sempre opposto
al regime di Saddam ("il capo del Baath, un partito
nazionalista all'occidentale, che non può rappresentare la
cultura islamica e araba"). E mentre la propaganda di
guerra, dall'una e dall'altra parte, lavorava a cancellare persino
la possibilità di coltivare immagini e ricordi autentici
della sua terra e della sua cultura, Kassim si è concentrato
di più sul suo lavoro, si è rivolto all'esule che è
dentro di lui e l'ha fatto parlare. Durante la guerra aveva scritto:
"Non sono legato all'Iraq perché dei confini lo
delimitano. L'idea di patria per me non ha senso, se la patria non
ti dà la libertà rimane solo una parola vuota. Sono
legato all'Iraq perché, da quando sono nato e per gran parte
della mia vita, ho immaginato il resto del mondo da quella
terra". Con questo scritto, e in tutto il suo teatro, Kassim
rivendica il diritto dell'individuo di rappresentare a se stesso e
agli altri l'immagine ricca e personalmente vissuta di una cultura e
di un popolo che non si identificano con uno stato e con la sua
politica: che non indossano la "maschera d'oro nero" dei
potenti, dei truffatori e giocolieri di sporchi affari, che decidono
le sorti del mondo.
il Teatro dell'Arcano ha realizzato fino a oggi quattro
spettacoli; Storia dell'Eremita (1984), L'Epistola di Hay
Bin Yagzan (1986), Istmo barlumi d'Oriente (1988) e Verso
il disco del sole alato (1990), che sarà a Milano, al
Teatro Greco, P.zza Greco 9, dal 23 al 28 aprile.
Ad un intimo amico straniero Peregrinando intorno alla bocca sorridente dei fiumi
assetata è l'anima. O straniero che hai abbandonato la tua terra per bisogno, O straniero che vivi
nella tua terra estraneo tra la gente, O straniero che sei emigrato dalle viscere della terra, dal gambo di tua
madre, non ti senti straniero nel
regno di Dio!? Gli sguardi terrificanti e muti fissano ciò che è rimasto vivo nella vacillante
memoria. Non era il tuo sogno costruire un ponte sulle sponde del delta dell'oriente occidentale? Un
ponte su due fiumi sinuosi e fluidi che percorrono da tempi pre-eterni nella terra del tuo visibile e
invisibile. Una profonda ferita nel cuore che gocciola sangue sulla tua temebrosa malinconia. Cuore
spezzato, lo tieni ancora sciocco nel petto gravido di cose ignote. Fino a quando la poesia, il canto e la
musica possono nutrirti di forza per non spezzare quella corda tesa che
vibra in te? Aimé, quando mai un'opera d'arte è riuscita a sconfiggere una guerra? Tu
amavi quell'immenso deserto, quella foresta di palme luminose di grappoli di datteri, quei fiumi eterni
che erano in te, sulle cui rive, ora passa una nube, un fumo nero che sale verso il cielo dei bambini che
desideravano venir
da te. Laggiù è incendiato un giardino, arso un rogo per la tua gente, per i tuoi ricordi e
sogni. Dov'è quel Paese, dove sono quei fiumi, li porti ancora nel cuore? Dov'è quel
tappeto verde con i suoi disegni labirintici sul quale prendevi il té nel pomeriggio, seduto con le
tue sorelle, i tuoi nipoti che si trastullavano sui verdastri mattoni del cortile fresco. Le labbra asciugate,
la bocca senza saliva e le palpebre senza più lacrime. La morte coglie ragazzi di tenera età;
che importa a loro se avanzano nella loro ascesa, nei loro affari che
andranno a gonfie vele. Che importa se l'anima-ale è calpestato, se l'albero della vita è
strappato da quella orrenda tempesta
sabbiosa? Il vento porta le voci all'orecchio e giunge un sussurro al cuore solitario che desidera
gridare, un grido puro di un neonato, di un passerotto. O ragazze dalle trecce nere che correte sulla
strada nuda, cosa sanno di voi, quei tiranni impietriti, cosa sanno del vostro brunetto volto, delle vostre
labbra, della vostra bocca che grida aiuto; cosa sanno del vostro seno che allatta un bambino spaventato
dall'oscuramento, dal tuono di un vulcano
sceso dal cielo. Frantumata, devastata quella dimora che una volta stava in te, stavi in quella dimora, e in
nessuna parte
stava che in te. Tieni ancora stretto stretto quel diamante luminoso in te. O straniero se tu supplicassi
il cielo il tuo grido sarebbe respinto. Quegli orrendi atti, fatti di menzogna ed elogio della macchina della
morte, erano celati dietro una maschera
d'oro nero. Maschera di truffatori, di giocolieri di sporchi affari. Tutto era reso fine, più
sofisticato e raffinato sulla lingua di quei declamatori abili a recitare la loro perfida
persona. Strani pensieri vengono e vanno, distrutto di attesa sei - cos'è rimasto di quella mitica
città? L'acqua del fiume verde smeraldo scorre nel mezzo del Paese confidandosi con i passanti
sulla riva. Egli porta i loro dolori, i loro segreti nascosti nel petto, sfociando nella bocca del
Mare, dell'oceano gonfiato di angosciose notizie inviate con le onde al di là dei confini
minati. Il Mare non torna indietro, non risponde ai messaggi spediti. Essi, in attesa, fisseranno la luna
nel cielo, vedranno la tua sfuggente immagine e con gli sguardi e il
silenzio scriveranno un muto messaggio senza lettere, senza suono udibile; un respiro che svanisce nel
vuoto assoluto del cielo. La soffiata di un flusso di sospiro ti trafigge all'improvviso il petto di un cuore
rampante ingabbiato dai ricordi di un impulso annebbiato. I segni incisi sulle vie di sabbia portano la
tua carovana verso la profondità di una fonte che zampillerà
all'arrivo dei pazienti cammelli e degli instancabili beduini. Un'oasi in un immenso deserto delle infinite
strade. Su quei volti le tracce di un mondo antico e di un futuro ignoto, quei volti umiliati dietro i fili
spinati, una vergogna dell'intera coscienza umana. Anime senza dimora, senza templi di un mondo
solido. Il tempo ti inganna come se tu non sapessi come egli
è. Non confonderti, la verità, una volta, stava nel petto degli uomini; non stupirti, questi
siamo noi, siamo
uomini figli dell'oblio. Dopo tutto, o straniero, sei solo con gli altri stranieri, ancora sei una creatura mite
e tenera, ancora è tesa la
tua mano al crepuscolo che ricongiunge il giorno con la notte. In quel crepuscolo nessuno ascolta il tuo
grido solitario; porti ancora nella tua profonda intimità l'eterna fiamma peregrinando nei sentieri
di quell'antico castello,
nelle stradine intorcigliate su se stesse di quel Bazar, la cantilena dei mendicanti rompe il bisbiglio dei
passanti. Il tuo vecchio padre dal volto bruciato dal sole rimasto laggiù, prega cantando il verbo
di dio, danzando col
suo bianco sudario, nei freschi cortili della moschea dai turchesi minareti. Cade la pioggia nera sulla
città spogliata dal suo abito di variopinti colori delle molte etnie e desta il grido
sommerso, l'angoscia di un sospiro sepolto sotto la cenere di quell'antica ed instancabile fiamma. La
tua fiamma, mio intimo amico straniero.
Kassim Bayatly
Lo straniero regista iracheno Firenze 1 marzo 1991 Shaaban 14 1411 Egira
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