Rivista Anarchica Online
Collages e travestimenti
di Paola Grassi
Herbert Achternbusch è molto noto in Germania e
molto poco in Italia. Arrabbiatissimo, eccentrico ed egocentrico,
Achternbusch è un po' di tutto: drammaturgo di professione ma
anche regista e pittore. Nato a Monaco nel 1938, sin dagli anni
Sessanta conferma questa sua poliedricità: comincia a
scrivere per il teatro, ma si dedica anche al cinema - la sua prima
sceneggiatura è per "Cuore di vetro" di Herzog
- e alle arti figurative: ex-allievo dell'Accademia delle Belle Arti
di Norimberga, nel 1988, per i suoi cinquant'anni è stata
allestita una grande mostra personale al "Deutsches Museum"
di Monaco. Considerato un ciarlatano al suo apparire, ha
cominciato ad essere progressivamente ascoltato e adesso come adesso
c'è chi lo considera un genio. Paradossalmente
Achternbusch odia il teatro: scaglia invettive contro le istituzioni
che lo manovrano, e che sovvenzionandolo gli impongono determinate
scelte e limitano la libertà dell'individuo di
esprimersi. Concepisce il teatro al di là delle
istituzioni e della drammaturgia tradizionale. Se la prende con il
pubblico del teatro, un pubblico pigro e triste. Per la maggior
parte chi va a teatro ci va perché si sente solo o perché
non sa cosa fare e porta la sua demotivazione in teatro, dove magari
si annoia in compagnia. Chi va al cinema è molto più
attento e impaziente. Il teatro in questo senso - si chiede
Achternbusch - è "masochismo o no?".
Il suo scopo è quello di cambiare questo teatro
preconfezionato e di cambiare l'atteggiamento del pubblico. E in
questo riesce pienamente, perché Achternbusch può
affascinare o infastidire, ma senz'altro non lascia
indifferenti. Odia dunque gli schemi, è un ribelle, si
mette sempre in discussione, e questo atteggiamento si riflette
sulla sua particolarissima produzione, che non è possibile
associare ad un genere preciso: le sue opere subiscono collages e
travestimenti in continuazione. I suoi personaggi, quasi sempre
appartenenti all'"universo" bavarese e a quello familiare,
si spostano con facilità dai romanzi ai testi teatrali. Ed è
proprio così che comincia la sua attività di
drammaturgo, nel 1978, trasferendo da un proprio romanzo, "Verrà
il giorno", la figura di Ella, sua madre: nasce un monologo che
avrà molta fortuna in tutta Europa. Anche in Italia, grazie
agli allestimenti del Beat 72 e dei Magazzini. La serie di
monologhi, accanto agli altri testi scritti su misura per la scena,
prosegue con Susan del 1979 e Gust del 1980. Proprio quest'ultimo,
visto a Milano il mese scorso, ci rivela con precisione come
tutto in lui si risolva nel grottesco, per dipingere le banalità
del nostro vivere. Fratello del nonno di Achternbusch, già
presente nel romanzo la "Battaglia di Alessandro" (1971 )
- che avremmo tanto voluto leggere ma, come gran parte delle sue
opere, non è stato tradotto in italiano - Gust è un
vecchio contadino bavarese. Durante il monologo ripercorre le tappe
della sua esistenza seguendo un filo apparentemente illogico. In un
campo parla con Lies, la sua seconda moglie, che giace quasi priva
di vita ai suoi piedi. Gust sembra non fare caso al dramma di
questa donna che sta morendo come un animale, inascoltata, e le si
rivolge spietatamente con frasi come "Facciamoci una presa;
tanto per Lies non c'è più niente da fare..." e
quando alla fine la donna gli chiederà una parola dolce Gust
non troverà niente di meglio che dirle "miele". Il
vero dramma è quello di Lies, attorno al quale ruotano i
fantasmi di Hitler e la guerra, il tetano, la dura vita dei
contadini bavaresi, la trebbiatura, le api. La Baviera e la sua
"piccola" cultura strumentalizzata sono onnipresenti, non
solo in Gust, ma in tutti gli scritti di Achternbusch: una terra
"troppo spesso asservita, canzonata, polverizzata,
misconosciuta, liquidata e mercantilizzata dalla Controriforma, dai
principi, dai burocrati, dai re, dai prussiani, dalla rivoluzione,
dagli assassini di destra ed ora dai diavoli neri". Questa
amara considerazione finisce inevitabilmente per estendersi a
tutta la nazione tedesca e a un popolo che "ha accolto
effettivamente con favore una sola forma di governo: la
dittatura". Per Achternbusch non c'è differenza fra
il Terzo Reich e quell'invenzione "burocratica e diabolica"
che è la Repubblica Federale. La generale assuefazione del
popolo tedesco ritorna anche in un testo recentissimo, già
rappresentato a Monaco e molto provocatorio: "La battaglia
perduta". Scritto subito dopo la caduta del muro, ci appare
un uomo DDR che non riesce ancora ad adattarsi alla nuova situazione
ed è spaesato di fronte a un regime nuovo e non ancora
funzionante: la defunta repubblica democratica è vista come
un peso sullo stomaco, ed egli non riesce né a digerirla né
a liberarsene.
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