Rivista Anarchica Online
Realismo politico?
di Felice Accame / Francesco Ranci
Prendendo spunto dal libro di Danilo Zolo "Il principato democratico. Per una teoria realistica della
democrazia", Francesco Ranci e Felice Accame affrontano alcuni nodi del dibattito epistemologico.
Prendiamo un titolo qualsiasi del Corriere della Sera, "La D.C.
divisa sonda Occhetto" (9 aprile 1992): è in
prima pagina, dovrebbe quindi segnalare una notizia importante. Tuttavia, il fatto che la stessa D.C. sia "divisa"
non è in un chiaro rapporto con il fatto che la stessa D.C. "sondi" Occhetto. Non si può
tralasciare, inoltre, la considerazione che nessuno dei due "fatti" - ambiguamente correlati -
sembrerebbe modificare granchè l'abituale panorama politico. Ammesso che vi sia un elemento di
novità - e cioè
un implicito riferimento all'avvio di una trattativa per la formazione di un Governo di cui il P.D.S. potrebbe far
parte -, non si capirebbe, comunque, quale delle parti litiganti della D.C. abbia prevalso nell'interloquire con
il Segretario del P.D.S., un dato non certo secondario per comprendere il significato della notizia. Senza
indagare sulle ragioni che possono aver determinato nel caso specifico questo titolo, si può confrontarlo
con uno analogo della Gazzetta dello Sport, "Inno del Milan al dodicesimo scudetto" (6 aprile
1992); dove si
può capire che quella dell'inno è una metafora - non occupandosi il giornale di musica, ma nella
fattispecie di
calcio - e dove si può concludere, da un confronto con il titolo precedente, che la comunicazione
giornalistica
ha soprattutto lo scopo di imporre dei giudizi di valore. L'imposizione è tale perchè in titoli
come questi si è persa ogni traccia dei criteri che hanno portato ai giudizi
espressi, e questi ultimi divengono allora indiscutibili. La mossa politica attribuita alla D.C. "divisa", o l'esito
trionfale della partita di calcio, diventano "fatti", da prendere - o da lasciare - così come sono descritti.
Ora, si
potrebbe dire, non a torto, che esigenze di economia, esigenze di ordine estetico, o di altro genere, non
potrebbero essere soddisfatte da un parlante che si preoccupasse di esplicitare con cura ogni criterio utilizzato.
Un compito del genere sarebbe d'altronde impossibile a svolgersi, perché l'analisi dei criteri non
può mai dirsi
definitivamente esaurita (nonostante le invocazioni scriteriate all'"ultima analisi") se non quando lo decide
l'analista medesimo. Ognuno di noi, mettendo in rapporto i "fatti" con altro di già noto - discutendo
con altre persone, riflettendo -
ha la possibilità di risalire ai criteri che hanno guidato quei giudizi, per condividerli o meno in maniera
più
consapevole, e soprattutto per giudicarli a sua volta. Tuttavia, nel processo di comprensione non è
sempre facile attribuire ad altri l'utilizzazione di un dato criterio,
o l'assegnazione di un valore in base ad un criterio piuttosto che a un altro. Ancora più problematiche
sono
attribuzioni come quelle di "volontarietà" e di "consapevolezza".
Mass-media e comprensione La comunicazione non può essere
garantita da un confronto fra quanto asserito da x e quanto compreso da y,
o meglio, il confronto lo fanno x e y comunicando fra loro. Ciò detto non si può considerare
casuale che le
soluzioni narrative normalmente impiegate dai mass media siano quanto di più ostacolante ci possa
essere per
un effettivo processo di comprensione. Con il linguaggio, oggi più che mai, si comanda. La violenza
del parlante
a senso unico - comunicazioni di massa e relativo stile di pensiero -sembra quasi contraddistinguere una nuova
forma di fascismo. All'inevitabile pessimismo sul futuro che ci attende, però, non ci si può
esimere dal contrapporre un sia pur
timido ottimismo. E' possibile intravedere, o forse semplicemente auspicare, una nuova epoca della nostra
coscienza di esseri umani guardando agli scossoni che da qualche decina d'anni scuotono le fondamenta
epistemologiche del nostro sapere - un sapere da cui provengono i nostri valori e che, a guardar bene, è
esso
stesso un valore fra gli altri. La tradizionale alternativa fra "realismo" e "idealismo", che con le sue varianti
più o meno sofisticate ha sempre
caratterizzato le discussioni epistemologiche - e con esse la base di ogni riflessione etico-politica nonché
la
giustificazione di ogni opzione correlativa - è infatti palesemente in crisi. Nessuno, oggi, può
ignorare - a rischio
della sopravvivenza, ad esempio nello stesso mercato dell'informazione - che la predicazione di checchessia
influisce sulla percezione che abbiamo di quel checchessia, o sulla percezione che ne ha, ad esempio, chi ci
ascolta. E nessuno può ignorare che la sua stessa predicazione non è affatto legittimata rispetto
ad altre, diverse,
se non da un pensiero socialmente più o meno condiviso. La comunicazione linguistica - che il
singolo subisce perlopiù passivamente, con un pedaggio pagato al suo
inserimento sociale - è stata sottoposta ad indagine nei suoi meccanismi più intimi. L'uomo,
si afferma sempre più spesso, esprime le proprie esigenze tramite un linguaggio, e costituisce il
dominio socialmente condiviso dei significati. L'etica fa parte di questo dominio, e la sua legittimità
non deriva da un "mondo delle idee" o una "realtà
concreta" ma semplicemente dal consenso, espresso o tacito, consapevole o inconsapevole, di chi ne
partecipa. La legge giuridica non è altro che la determinazione di certi termini di riferimento con
cui classificare ciò che
viene considerato come "giusto", "normale", "equo", "doveroso", etc. - alla stessa stregua con cui nelle leggi
scientifiche viene determinato il "fenomeno". L'assegnazione di valori, lungi dal trascendere le
possibilità
dell'uomo, costituisce un'attività quotidiana, e la pratica politica efficace è quella guidata
dall'obiettivo di
controllare l'evoluzione dei termini di confronto, in base a cui vengono assegnati i valori. Il meccanismo
costitutivo dei termini di confronto, di ciò che viene ad essi riferito nell'operazione di confronto,
e delle modalità con cui il confronto viene eseguito va rintracciato nell'analisi dei normali processi di
significazione e comunicazione. E' a questo livello dell'analisi - dell'analisi, dunque dell'operare mentale
costitutivo dei processi di significazione
e di comunicazione - che, tuttavia, si rischia di arrestarsi, quando non si riesce ad evitare il ricorso ad un termine
di riferimento inanalizzabile, per via del quale ritrovarsi di nuovo con assegnazioni di valore incontrollabili e
perciò indiscutibili. La tradizione filosofica dell'etica, per fare un esempio, ha fatto ricorso a valori
come Dio, Realtà, Natura, Storia,
Patto primigenio: tutte "nozioni" che fanno molto comodo a chi detiene un potere e sente il bisogno o la
necessità di giustificarsi con un "sapere" che agli altri è precluso in via di principio. Al
contrario la consapevolezza che occorre diffondere, è che nulla di per sè ha la proprietà
di costituire un
termine di confronto o un valore. È a questa consapevolezza, non da altro, che consegue la
possibilità di una
pratica politica che miri a costruire una vita sociale basata sul rispetto dell'autonomia decisionale di individui
e gruppi.
Circolarità e complessità L'ultimo saggio di Danilo Zolo -
II principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia
(Feltrinelli, 1992) - si presta bene ad un approfondimento del problema. Zolo ritiene oramai "obsolete" nozioni
come quelle di "democrazia rappresentativa", "pluralismo" o "sovranità popolare", che costituirebbero
il "lessico
teorico - politico" della liberal-democrazia all'occidentale. Ritiene che tale obsolescenza sia dovuta da un
lato alle trasformazioni della società capitalistica in senso "post
- industriale", ossia al peso sociale raggiunto dalle tecniche di trasmissione ed elaborazione delle informazioni,
e dall'altro alla crisi dell'epistemologia, in particolare di quei paradigmi delle scienze sociali presupposti dalle
tradizionali teorie liberal-democratiche. La crisi dell'epistemologia investirebbe il sapere scientifico nel suo
complesso, e richiederebbe, quindi, una risposta del medesimo livello di generalità, da cui
conseguirebbe una
proposta di "ricostruzione" della teoria "democratica", ovvero della nozione stessa di democrazia. La critica che
Zolo muove all'epistemologia tradizionale, accomunando soluzioni "realiste" e "idealiste" più o meno
alla moda,
è quella di non essere in grado di "cogliere la situazione di circolarità" da cui muoverebbe "ogni
impresa
conoscitiva". Una circolarità ben espressa da una famosa immagine di Neurath che ci paragona a dei
marinai
che debbono riparare la loro nave in mare aperto - senza bacino di carenaggio e con il mare, ovviamente, in
tempesta. L'unica soluzione del problema epistemologico, sarebbe dunque il rifiuto di ogni "rispecchiamento"
più o meno "oggettivo" della "realtà" nel "pensiero", e di ogni ipotesi per cui la stessa
"realtà" possa essere
"produzione" da parte di qualcuno. In compenso si potrebbe parlare di un'epistemologia "riflessiva", desiderosa
di comprendere quella "circolarità" di cui Neurath avrebbe dato un'immagine tanto azzeccata. La
soluztone è brillante ma molto discutibile, tanto è vero che, al rifiuto di una concezione della
"verità" come
"corrispondenza" degli enunciati linguistici alla realtà, e alla denuncia dell'impossibilità di ogni
"fondazione
oggettiva del sapere", Zolo contrappone un oscuro riferimento alla nozione di "complessità", vista tanto
come
una situazione cognitiva del soggetto, ma anche come condizione "sociale" se percepita come tale dal soggetto
medesimo, che può essere individuale o collettivo. Del resto, lo stesso Zolo ammette di non poter
illuminare del tutto quella che chiama la "zona d'ombra" che
avvolgerebbe gli assunti epistemologici delle teorie, anche democratiche, e quindi anche della sua analisi.
Trova una via d'uscita nel dichiarare che l'epistemologia "riflessiva" consente di accettare "almeno in parte"
in
modo "irriflesso" alcuni "presupposti linguistici e teorici", che sarebbero imposti dalla tradizione cui il soggetto
appartiene - battezzata in omaggio a Neuraih "tradizione folclorica". Questa giustificazione - debolissima,
giacchè la "tradizione" non può essere considerata esente dalle stesse
critiche che investono il resto del sapere (e non a caso manca il criterio differenziante) sorregge l'analisi della
"complessità", e la teoria "realistica della democrazia" che ne dovrebbe derivare.
Inquietante ambiguità Vari ordini di considerazioni spingono poi
Zolo a dichiarare che la "complessità" sarebbe "crescente". Anzitutto, l'adozione come termine di
riferimento di una versione approssimativa della "teoria dei sistemi" lo
porta a suddividere la società in una serie di sotto-sistemi, politico, economico, artistico, etc., senza
tuttavia che
sia fissata un'esaustività, peraltro impossibile di principio, dell'elenco. In secondo luogo,
nell'odierna società "post-industriale" (nonché "post-comunista", "post-empirista" e
"post-moderna"...e post che altro?) sarebbe evidente (a chi vede la "complessità") un aumento del
"ventaglio"
delle possibilità di scelta; nonché delle interconnessioni fra le variabili da prendere in
considerazione nelle
scelte. La crescita della complessità sarebbe da imputare anche agli sviluppi della scienza,
"segmentari e discontinui",
sempre più differenziati e ostacolanti la comunicazione fra le diverse comunità scientifiche.
Lo stesso modello
evolutivo viene applicato ai vari sotto-sistemi sociali, che sarebbero sempre più differenziati, e
interconnessi
in maniera reticolare (e non più "lineare", o "monocausuale" come, secondo Zolo, si credeva, e ancora
credono
i realisti "ingenui"). Tutto ciò - grazie a una certa ambiguità nell'uso dell'aggettivo "reticolare",
che designa pur
sempre una modalità di porre connessioni - comporterebbe "incommensurabilità" fra le
esperienze, "varietà e
discontinuità semantica fra i linguaggi", difficoltà di comprendere e valutare il "comportamento
sociale". La tradizione "folclorica" di Zolo lo conduce quindi ad esaminare criticamente i principali
paradigmi, della
scienza e della filosofia politica, vigenti nelle democrazie occidentali, paradigmi che sarebbero "incompatibili"
con l'epistemologia riflessiva. Il programma scientifico della "scienza politica", consistente nell'esportare
i presunti metodi delle scienze
naturali nel settore degli studi del comportamento politico, sarebbe viziato da una epistemologia "empiristica",
per la quale esisterebbe la possibilità di un'osservazione "neutrale" dei fatti, sulla base dei quali - grazie
all'elaborazione matematica - si potrebbe giungere a teorie di validità universale. La fallacia
dell'empirismo sarebbe testimoniata non solo dalla sua crisi in ogni settore della scienza, ma
soprattutto dai risultati ottenuti, o meglio non ottenuti, con la sua applicazione alle scienze sociali. Ancor
piu risibile, per Zolo, sarebbe stato il tentativo di usufruire dei modelli dell'economia matematica,
ipotizzando un attore politico che scaambierebbe il suo voto con un tornaconto in termini di "prestigio e potere".
Si tratta, per Zolo, di una confusione fra i "codici funzionali" dell'economia e quelli della politica. Negli
studi di filosofia della politica, lo stesso tipo di confusione - causata però dall'errore epistemologico
inverso, quello di ipostatizzare una "realtà ontologica" che imporrebbe alcuni valori morali "universali"
-
avverrebbe fra i sub-sistemi della "politica" e della "morale". I riferimenti sono a Schumpeter e ai
"democratici matematici" da un lato, ad Aristotele, Rousseau, Kant e Rawls,
dall'altro. La strada seguita da Zolo consiste, invece, nel rivalutare il cosidetto "realismo politico" - quello
di un
Machiavelli o di un Hobbes, per intenderci, come suggerisce il titolo del volume "Il principato democratico",
un titolo peraltro di inquietante ambiguità, perché apparentemente contraddittorio. Tale
via avrebbe il merito di riconoscere l'autonomia della politica - come tutela del "particolare" di ognuno
- da ogni sorta di morale dalle universalistiche pretese. Insomma, all'antropologia "pessimistica" di un
Machiavelii, Zolo non contrappone gli "ottimismi" di un Rousseau o di un Marx, ma obbietta che la sua
epistemologia riflessiva consenta di rifiutare la contrapposizione tra ottimismo e pessimismo.
Realismo e pessimismo Per spiegare l'autonomia della "politica" dalla
"morale" sarebbe sufficiente la considerazione della
diversificazione funzionale delle società "complesse". Gli assunti di tipo antropologico sono altri,
scaturiscono
da assunti di tipo naturalistico e psicologico: la "plasticità" del sistema nervoso dell'uomo, da un lato,
e
l'esistenza di una "pulsione fondamentale", la "paura", dall'altro lato, due dati che, nel loro complesso
spiegherebbero la continua tensione dell'essere umano fra l'esplorazione di nuove possibilità e il timore
delle
conseguenze delle proprie azioni. Questi per lo Zolo i principali "punti fermi" per la costruzione di una
"teoria realistica della democrazia".
Facciamo ora seguire alcune osservazioni: 1) Il tentativo di rivoluzione epistemologica non giunge ancora
agli esiti pronosticati: non si vede come Zolo
possa differe nziare fra realismo tradizionale e "realismo fondato sull'epistemologia riflessiva". Teorie politiche
come quelle di Machiavelli o di Hobbes giungono ad una considerazione della politica come contesa fra
interessi in cui prevale "il più forte" proprio sulla base di una negazione della possibilità di
fondare il sapere.
Il "pessimismo antropologico" si basa, in definitiva, su un pessimismo epistemologico. Non potendo
"conoscere" la "verità" non resterebbe che sopravvivere, sbranando i propri simili e comunque badando
a non
farsi sbranare ("homo homini lupus", appunto: il lupo, quando ha fame, non discetta di regole epistemiche o
morali). 2) E' assai discutibile la presunzione che empiristi e neo-positivisti siano stati tanto ingenui da non
accorgersi,
ad esempio, del problema del significato delle categorie usate nell'osservazione e nella misurazione. Zolo
ammette la sua notevole "approssimazione storiografica" e cerca di giustificarsi sottolineando l'importanza delle
sue "conclusioni teoriche", ma ci permettiamo di dubitare, comunque, dell'opportunità di descrivere chi
ti ha
preceduto come molto più scemo di quello che, presubilmente, era. L'atteggiamento dell'autore diventa
del tutto
ingiustificabile quando applica una metodica non diversa da quella che bolla con l'infamante accusa di
"empiristica". Un esempio lampante riguarda la definizione di "Stato minimo" o "interventista": definito il
sotto-sistema politico come funzionale a "ridurre" la paura "selezionando" i rischi sociali di cui la
collettività
si assumerebbe la copertura nei confronti del singolo, Zolo ipotizza una doppia classificazione dei sistemi
politici - "quantitativa" e "qualitativa" - proprio in rapporto alla misurazione della "variabile" principale del
modello, cioè i "rischi". 3) Ad un'epistemologia che tenga conto della "circolarità" del
sapere hanno pensato in molti. Non tutti, però,
concorderebbero che l'immagine dei marinai che riparano la nave in alto mare sia di aiuto nel risolvere il
problema. Emerge allora una carenza di analisi da parte di Zolo, che riguarda gli sviluppi più recenti
degli studi
sull'attività mentale, sul linguaggio e sulla comunicazione. La crisi dell'epistemologia - e la conseguente
idea
dello sviluppo scientifico come "segmentario e discontinuo" - che Zolo considera superficialmente come un
elemento della "complessità" da lui definita, ha alle spalle studi cospicui: studi che individuano nello
sviluppo
delle scienze una logica - non diversa da quella del "buon senso" quotidiano -, prima mentale e poi sociale, in
cui la "circolarità" del sapere acquista quell'importanza cruciale di cui Zolo può constatare la
rilevanza anche
per la "scienza della politica". 4) Una "metafora" come quella di Neurath (i marinai che riparano la nave
in alto mare) pone diversi problemi.
Anzitutto non è una metafora come tante altre, perchè la situazione mentale e fisica che propone
a modello non
può avere alcun elemento in comune con il problema di "fondare" il sapere (scusandoci per l'inevitabile
battuta,
vale piuttosto ad "affondarlo"). Proprio il fatto che la situazione sia già stata resa fisica contraddice il
tentativo
di utilizzarla come metafora del processo costitutivo dei significati e della loro specificazione in mentali,
psichici e fisici. Il riferimento al "fondare", che sorreggerebbe la metafora, è anch'esso inutile a chi si
propone
di consapevolizzare le attività con le quali giungiamo a parlare di qualcosa. Lo stesso verbo
"conoscere",
quando viene utilizzato presupponendo una situazione fisica precostituita quale la separazione fra "soggetto"
e "oggetto" diventa quella che Ceccato ha definito una "metafora irriducibile". L'epistemologia va in crisi
quando si comincia a capirne il gioco delle metafore, che innestandosi l'una sull'altra nascondono l'impostazione
autocontraddittoria del problema. Non si tratta di mettere in rapporto due o più cose fisiche, ma di
modellizzare
la nostra stessa attività costitutiva. Un'attività che precede le cose fisiche se queste sono
considerate come risultati, e che le presuppone se vengono
considerate come dati su cui operare (ad esempio, mettendole in rapporto fra loro, come fanno le scienze
naturalistiche, che non vanno per nulla in crisi finché procedono arricchendo e sistemando le reti di
relazioni
e rapporti di cui si occupano). Le ricerche sui modelli funzionali della percezione e della categorizzazione,
nonché la sema ntizzazione - anche
in riferimento a sostrati neurali da considerarsi come "organici" rispetto a quelle funzioni - vanno dunque
seguite con estremo interesse, perché alla metafora irriducibile del "conoscere" si cerca di sostituire
un'analisi
in termini propri. L'analisi in termini operativi della funzione "mentale" condotta dalla Scuola Operativa
Italiana fin dagli anni
cinquanta costituisce un contributo - da Zolo come da molti altri ignorato - che ci sentiamo di proporre
all'attenzione di chi voglia contribuire a sua volta a chiudere i conti con ogni problematica "gnoseologica" o
"epistemologica" (Silvio Ceccato, "Lezioni di linguistica applicata", 1990; Vittorio Somenzi, "Tra fisica e
filosofia", 1989; Giuseppe Vaccarino, "Scienza e semantica costruttivista", 1988; Ernst von Glasersfeld,
"Linguaggio e comunicazione nel costruttivismo radicale", 1989; Felice Accame e Marco Sigiani, "Modelli
della mente e problema del significato dal punro di vista metodologico-operativo", in "Methodologia-Pensiero
Linguaggi Modelli" 8, 1991, per esempio). 5) Un'ultima osservazione critica riguarda il tipo di proposta
avanzata. Non è un grave torto sottolineare i
numerosi motivi di pessimismo ben noti, dall'"esplosione demografiia mondiale" ai rischi connessi alla
"rivoluzione informatica" (termine che comprederebbe telematica, robotica e televisione). Tuttavia, giungere
a considerare la democrazia come "difesa della complessità sociale contro l'egemonia funzionale di un
particolare sottosistema" - senza entrare nel merito delle modalità di funzionamento del "sistema
politico" e
soprattutto dei suoi rapporti con gli altri "codici funzionali" o "sottosistemi" che dir si voglia, della nostra
cultura, o di altre - significa immiserire qualsivoglia progetto, riducendolo alla conservazione dell'attuale
cultura del regime "democratico", che pure viene dichiarata "obsoleta" e soprattutto "priva di significato".
Se la democrazia va "ricostruita", non può essere contrapponendosi alla cultura vigente dei criteri
non dichiarati,
e perciò intercambiabili a piacere di chi comanda secondo le sole proprie esigenze di continuare a
comandare.
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